Era una primavera di tanti e tanti anni fa, le mezze stagioni esistevano ancora e le donne, quelle che adesso chiamiamo donne, non esistevano. Tanto è vero che quando Mario, l’amico di sempre, gli disse: « A Pioppi c’è una festa, stasera. Pare che ci sono le donne », la reazione di Gianni fu alquanto tiepida.
« Ci sono le cosa? »
Com’era misteriosa quella parola: donne. Erano i tempi in cui il corteggiamento di una femmina della specie umana iniziava e finiva col numero di telefono per “chiederle i compiti”, che le ragazze di loro si sapeva solo che amavano fare i compiti. Gli amici che ci riuscivano gli sventolavano sotto il naso, beffardi, bigliettini con sopra scritte cifre che valevano più di una parata di Daniele Balli al novantesimo. E finiva lì. La più carina della classe probabilmente trascorreva i pomeriggi a ripetere per telefono l’assegno a dieci, undici ragazzi arrapati. In classe le conversazioni erano tutte un “Chi ti piace? Ti piace quella? Hai visto che tette?”. Qualche compagno fra i più fanfaroni già cominciava a uscirsene con frasi tipo “dopo non c’è niente di meglio di una bella Marlboro.”
Gianni non era uno di loro. Di fronte al supremo mistero, egli preferiva fingere disinteresse. Una sorta di cauto diniego. Aveva tredici anni, era puro come un giglio di campo e la cosa più preziosa che aveva tenuto in mano erano le cinquecento lire del cornetto al cioccolato che comprava al mattino prima delle lezioni. Per Mario, invece, erano già cominciati i tempi in cui l’espressione “andare in bagno” assumeva nuovi e incredibili significati e una volta aveva anche chiamato per i compiti Anna della terza D, anche se poi le cose fra loro non avevano funzionato.
Ma insomma, il succo della faccenda era che Gianni, a Pioppi, non ci voleva mettere piede.
« È un paese strano » disse. « Si racconta che gli abitanti siano metà umani e metà capre, e che adorino la cosiddetta “Madonna del Latte”. Il giorno 12 settembre di ogni anno approntano una processione che attraversa tutto il centro abitato, da via Schiattamore a Contrada Vallianello e, dopo averla a lungo invocata, le sacrificano una provola per ingraziarsene i favori. »
« E smettila di dire cazzate! »
Ma Pioppi era davvero un paese strano. Come avevano appreso a scuola, il primo documento che ne testimoniava l’esistenza risaliva al 1811. In un atto del Regno delle Due Sicilie si poteva leggere il nome di Pioppeto sul Pianoro, tra quelle località che sarebbero state attraversate da una rotabile che collegasse tra loro i casati dello stato montecorvinese, rotabile di cui vennero poi effettivamente deposti esattamente numero centootto (108) metri, tesi tra l’abitazione privata dell’allora Sindaco Fugazzoli Paolo Mangravio di Albanella e un palazzotto occupato dalla signorina Ferraiolo Alda e un certo numero di sue amiche, palazzotto alquanto chiacchierato e per la verità, in odore di postribolo, e dal Mangravio utilizzata per tramite di un carretto a manovella ogni sera di luna nuova. Se ne risentiva parlare nel 1936, quando un’ordinanza comunale a sorpresa stabilì (primo e unico caso nella storia del Regno) che il paese avrebbe adottato come nome ufficiale quello che venisse di volta in volta usato dal Podestà in ogni evento pubblico; questo per venire incontro, con la fierezza senza mezze misure che contraddistinse il Ventennio, alla difficoltà dell’allora Podestà Silvioli Maurizio di ricordarne il nome preciso. Esso fu, quindi, Pioppo della Piana del Sole (1936-1937), Pioppi della Piena del Sale (1937-1939), e cambiò diciotto volte in un solo tragico pomeriggio durante un brindisi del Silvioli al matrimonio dell’amato nipote Rapaciceri Giuseppe. Con la caduta del fascismo e l’instaurazione della Repubblica nessuno aveva osato mettere mano a quell’antica ordinanza, che era rimasta dunque effettiva.
« Non ti andrebbe di conoscere una ragazza così? » disse Mario, aprendo la tasca anteriore dello zainetto come un pirata avrebbe fatto con uno scrigno colmo di gemme preziose.
In borsa teneva tre o più riviste erotiche, in realtà giornaletti soft-porn piuttosto castigati. Glieli procurava un certo Maurizio che, oltre ad essere notoriamente il terzino sinistro più forte di tutto il circondario, arrotondava vendendo agli amici le riviste vecchie del padre. Ne tirò fuori una, tenendola tra le mani come una colomba ferita. Dalla carta patinata, una nota soubrette in completino sadomaso pareva sorridere proprio a lui. Gianni la guardò a lungo. A un certo punto, a forza di fissare quella dannata foto smise di interessarsi ai dettagli fisici più ovvii, la frusta, gli stivali di similpelle e gli occhialoni da segretaria disinibita, e notò i suoi occhi. E quegli occhi, maliziosi ma anche dolci in qualche modo che allora non sapeva capire, gli entrarono dentro.
« Sono tutte così, secondo te? »
« Anche meglio. »
« Beh, se la metti così… »
I giorni passarono in fretta, tra i compiti di matematica e qualche turbamento. Gianni sognò due volte di sdraiarsi addosso alla sua vicina di casa, anche se non ne capiva il senso. Le passeggiate in campagna non gli regalavano più alcun piacere. I colori, la natura, gli divennero presto indifferenti. Fantasticava di condividere quelle passeggiate nel sole, nella natura, con qualcun altro, qualcuno che non fosse Mario insomma.
Poi, finalmente, arrivò la sera della festa. I due amici passarono ore a prepararsi: alla fine in testa avevano più brillantina che capelli. Inforcarono le fedeli mountain bike da corsa e si diressero a spron battuto verso il paese che, in quei giorni, risultava chiamarsi Pioppi sulla Piana del Sllllààààààhiaaa, dal momento che il Sindaco Bartolomeo Bartolomeo si era morso la lingua durante un comizio elettorale.
L’aria era dolce e persino le luminarie pacchiane avevano qualcosa di magico. Via dei Lattari, la strada principale, era gremita. C’era gente da tutti i comuni limitrofi. Terrazzella, Montecornea dei Cecati e persino Anima della Pruvàsa. I due amici lasciarono le bici accanto al municipio (ciò che restava dell’abitazione privata di Fugazzoli Paolo Mangravio di Albanella) e si diressero a piedi in piazza, dove un volantino stampato su carta gialla prometteva “Grande concerto in piazza di Mino Reitano”. In realtà, come si scoprì in seguito, il cantante era un ragazzo giapponese, un certo Tano Minō Rêi, invitato per sbaglio.
« Questa gente ha un problema serio con i nomi » commentò Mario, mentre il giovane asiatico attaccava Taiyō no komachi angel nella perplessità degli astanti.
« Già. »
Ma a due passi c’era la discotenda con i grandi successi degli 883, e cosa ben più importante, c’erano le donne.
Eccole che ridono e si muovono esercitando la grazia come si esercita una forma di potere. I loro maglioni gonfi e i loro capelli lucenti. Il trucco generoso e goffo di chi ha più entusiasmo che esperienza. Una cosa da mozzare il fiato, ma solo per metafora perché Gianni non aveva dimenticato di portare l’inalatore per asmatici.
« Che dici, si va? »
« Si va. »
I due amici si tuffarono nel bailamme e ballarono per ore, anche se qualche purista della danza moderna avrebbe trovato primitivi e inefficaci i loro movimenti e un playboy professionista avrebbe di certo criticato i loro risibili tentativi di rimorchio. Verso le due del mattino, sulle gloriose note di Nord sud ovest est Gianni guadagnò l’uscita, lasciando Mario in balia di una turista francese con l’apparecchio, e si ritrovò improvvisamente immerso in un’atmosfera gelida e silenziosa. Le vie del paese erano ora deserte e Gianni, complici anche i due ginger che aveva tracannato direttamente dalla bottiglia, si sentiva la testa leggera. Non si accorse subito della ragazza che lo fissava, seduta sul marciapiedi di fronte. Ma quando la vide, così distante e misteriosa, fasciata in un maglione di ciniglia troppo grande che le copriva le gambe più della minuscola minigonna nera, pensò che doveva essere una specie di sirena.
« Carina la festa? » disse.
« Non c’è male » disse lui. « Tu non entri? »
La ragazza non rispose. Le sirene non rispondono alle domande. La ragazza aveva i capelli castani e il labbro superiore lievemente arricciato in una specie di smorfia. Dopo aver trafficato con il contenuto di una borsetta ricoperta di peluche, estrasse un oggetto cilindrico graziosamente istoriato e se lo avvicinò alla bocca. Gianni percorse i pochi metri che li separavano con le orecchie colme del frastuono del suo cuore di ragazzo. Sedette accanto a lei e le disse: « Grazioso quell’inalatore. »
« Ti piace? »
« Non ne ho mai visti di così belli » disse guardandole gli occhi, che erano castani con sfumature di miele.
« Beh, si trovano in tutte le farmacie. »
« Ne sono sicuro. »
Restarono in silenzio ancora un po’, finché le loro bocche, spontaneamente, si avvicinarono. Mentre la baciava, mentre la sfiorava, Gianni capì che qualcuno finalmente aveva inventato le donne. Dentro di sé, il ragazzo accolse la notizia con entusiasmo pari a quello che doveva aver provato Cristoforo Colombo avvistando terra. E come Cristoforo Colombo, anche Gianni quella sera scoprì che il mondo non è sferico, ma ha la forma di un seno femminile.
Non si rividero mai più. Non seppe mai neppure il suo nome. In ogni caso, lo avrebbe dimenticato. Non ricordiamo quasi mai il nome di chi ci regala uno sguardo nuovo sul mondo. Quando lui e Mario decisero di tornare a casa era ormai l’alba. Recuperarono le biciclette ululando al sole che sbucava dietro i monti lontani, fino ad arrochirsi la voce.
« La mia sapeva di fragola » disse Mario, scalando le marce. « Ma è perché non si è mai levata di bocca la gomma. »
La mia sapeva di fluticasone, spritz e caffè bruciato, pensò Gianni, e aveva gli occhi freddi e anche un po’ dolci. Ma non lo disse perché un uomo non parla di certe cose. Uscendo dal paese, i due amici sorpassarono un operaio dall’aria frustrata intento a correggere un cartello. Ora diceva: State lasciando Pioppi sulla piena del sole.