Spinto da un impulso che rimaneva oscuro soprattutto a me stesso, avevo optato per un viaggio in treno invece di prendere l’automobile. In fondo mi conoscevo. Probabilmente se fossi andato fin là con la macchina, la maggiore libertà consentitami dal mezzo di trasporto, mi avrebbe indotto ben presto a rifuggire dall’isolamento che ero venuto a cercare nella mia meta, Worthing nel Sussex, una località che avevo scelto puntando il dito quasi a caso sulla carta geografica dell’Inghilterra meridionale.
La decisione era stata presa dopo una discussione piuttosto vivace con l’editore. Avevo già incassato un discreto anticipo e dovevo consegnare il romanzo nei tempi previsti, ma ero bloccato, non riuscivo a procedere con il lavoro. In quelle condizioni, mi era venuto da pensare, c’era solo un modo per ritrovare l’ispirazione e superare il blocco: pace, tranquillità, silenzio, niente distrazioni di alcun genere, ed andare a rinchiudersi in un paese sperduto nella campagna dove non ero mai stato e dove non conoscevo nessuno, mi era parsa la soluzione migliore.
Devo essere sincero, in realtà avevo barato un po’, Worthing non mi era completamente sconosciuto, mi sembrava di averlo sentito menzionare in relazione all’alchimista elisabettiano John Dee, quello cui è attribuita la traduzione inglese del Necronomicon, assieme ad un altro po’ di oscuri ed inquietanti maneggi.
Quando avevo nominato Worthing alla biglietteria della stazione, mi avevano guardato di sottecchi come se avessi menzionato un luogo di cui non avevano mai sentito parlare, od avessi detto chissà quale sproposito, poi, dopo aver scartabellato un po’ (Con soddisfazione, avevo notato che l’impiegato aveva faticato a far comparire sul terminale del computer), mi fecero il biglietto indicandomi un percorso con tre cambi, compreso l’ultimo tratto su di una linea locale per prendere la quale avrei dovuto aspettare per due ore la coincidenza.
Francamente, non avrei potuto trovare di meglio, ma immagino che se l'avessi detto agli impiegati della biglietteria, mi avrebbero guardato in maniera ancora più strana.
Gli automobilisti incalliti, quelli che non farebbero nemmeno cento metri di strada senza mettersi al volante, in genere pensano che fare un viaggio in treno non sia stancante: non si deve fare altro che mettersi seduti e lasciare che la ferrovia ti porti alla tua destinazione; invece, non so per quale motivo, ma soprattutto nei viaggi lunghi, man mano che il treno procede nel corpo si accumula una stanchezza anche fisica, forse per le vibrazioni ed il continuo sobbalzare del vagone lungo la strada ferrata.
Ad ogni modo, ero felice di lasciare Londra. Non l'ho mai amata, sono contento quando posso andarmene. E' una città convulsa e tentacolare come tutte le grandi metropoli, ma non ha la vitalità di New York, la gaiezza di Parigi, il sentore di antico che nonostante tutte le deturpazioni moderne trasuda da certi angoli di Roma. E' una città grigia, smorta quando c'è la nebbia e ancora peggio quando non c'è. Per trovare un po' di vita, ci si deve spingere fino ad Hyde Park od a Piccadilly Circus, ed anche allora si ha sempre l'impressione di qualcosa di posticcio, di artefatto.
Mi ero messo intenzionalmente sul sedile più vicino al finestrino, approfittando di uno scompartimento vuoto, e sono rimasto a guardare la campagna che sfilava sotto i miei occhi: era uno spettacolo molto migliore di quello offerto dalla deprimente capitale, ma dovevo ammettere a malincuore che questa landa deserta e rinselvatichita oggi è molto diversa dalla campagna dei miei ricordi d'infanzia. Oggi l'ambiente agricolo è in gran parte spopolato, ed i campi che si cessano di coltivare sono prima invasi dalle erbacce, poi dai rovi e da un sottobosco di cespugli e sterpaglie che mi pareva dove lo vedevo, la quintessenza dell'abbandono e del disordine.
E' imbarazzante doverlo ammettere, ma ho saputo che a causa della politica miope del governo di Sua Maestà in materia agricola, molti nostri agricoltori si sono trasferiti in Francia, come se ce ne fossero ancora tanti, soprattutto fra i giovani. La Gran Bretagna non era più terra di emigrazione dal XIX secolo; oggi per alcuni è tornata ad esserlo.
Forse avrei dovuto scegliere una meta verso nord, lì la natura è da sempre più selvatica, e le brughiere di erica non possono mostrare uno stato di abbandono maggiore di quello che hanno avuto per secoli, ma sentivo il bisogno del mare, non le desolate scogliere settentrionali, ma le spiagge un po' più ariose e un po' più assolate della Manica.
All’estero non hanno le idee molto chiare su di noi Inglesi, hanno l’idea che l’inglese sia una persona tranquilla che evita gli eccessi emotivi, riservata, imperturbabile, che abbia quello che si chiama l’aplomb, ma questo non è altro che il frutto del tipo di educazione riservato alle classi alte della società. L’inglese popolano è, suppongo come tutti, ciarliero, invadente, spesso maleducato. Ho fatto l’ultima parte del viaggio in uno scompartimento affollato, con una famiglia di locali che era di ritorno al proprio paesello da una visita ai parenti di un altro paesello.
A loro modo, volevano solo essere gentili, mettermi a mio aglio, ma mi hanno raccontato tutti i fatti loro e del loro parentado: chi è nato, chi è morto, chi si è sposato, senza chiedersi quanto le vicende di quelle persone per me sconosciute potessero interessarmi. In compenso, sono rimasti letteralmente estasiati quando ho raccontato loro che sono uno scrittore che ha deciso di ritirarsi un po’ di tempo in campagna per portare a termine la stesura di un romanzo. Mi hanno anche chiesto quali miei volumi si possono trovare nelle librerie; ho snocciolato loro qualche titolo, tanto sono certo che non se li procureranno.
Era ormai sera quando siamo arrivati alla stazione di Worthing. Ho cercato un taxi per arrivare alla pensione dove avevo prenotato. Mi hanno detto che non ce n’erano. D’altra parte, il paese non è grande: venti minuti, mezz’ora al massimo di camminata, e sarei arrivato.
Sono a Worthing, cammino finalmente per le sue strade. E’ strano come quello che fino a poco prima era un semplice nome, acquisti all’improvviso concretezza.
Io qui non ero mai stato prima, ed ho scelto questa località soprattutto per il nome, anche se dopo mi sono un po’ documentato su di essa. “Worthing” somiglia molto a “working” e mi è sembrato bene augurante, lavorare è precisamente quello che voglio fare, liberarmi dal blocco che mi assilla e mi impedisce di andare avanti con la stesura del romanzo.
Non mi ci è voluto molto per arrivare alla pensione dove avevo prenotato la camera. Quelli dell’ufficio turistico, a differenza del personale della stazione, mi avevano dato indicazioni così chiare che era facile orizzontarsi anche nell’incerta luce serale, aiutato da un’illuminazione che lasciava un po’ a desiderare.
Ho fatto l’ultima parte del tragitto un po’ a tentoni, ma non c’era possibilità di sbagliarsi nonostante l’illuminazione fioca: le facciate delle case di questa parte della cittadina sono tutte addossate le une alle altre come a proteggersi da qualcosa, non ci sono tortuosi vicoletti nei quali ci si potrebbe infilare per errore, mi è bastato trovare il portone giusto, aiutato dall’insegna della pensione.
Ho trovato la padrona di casa che mi attendeva con una certa apprensione. Ho mandato giù qualche boccone di una cena ormai fredda, poi mi sono ritirato nella camera che mi era stata assegnata e mi sono buttato sul letto. Sono rapidamente sprofondato in un sonno plumbeo, senza sogni.
Stamane mi sono svegliato tardi. Ho controllato la sveglia sul comodino e poi il mio orologio da polso prima di persuadermi che l’ora fosse così avanzata, perché dal grigiore che penetra attraverso i vetri della finestra, proprio non si direbbe, è una giornata buia, di pioggia. Mi sono vestito in fretta e sono sceso dabbasso per fare colazione. C’era solo la padrona di casa, con cui ho scambiato un paio di convenevoli; gli altri ospiti dovevano aver fatto colazione da un pezzo, ed essersi avviati alle rispettive occupazioni.
Dopo aver fatto colazione, sono rientrato nella mia stanza, ho tolto dalla valigia la macchina da scrivere e mi sono accinto a mettermi al lavoro. E’ strano come noi scrittori ci teniamo ai nostri piccoli rituali, senza i qual ci sembra che non saremmo in grado di svolgere alcuna attività creativa. A casa avevo lasciato il computer, utile per la corrispondenza via e.mail e per redigere gli articoli per riviste varie, ma quando si tratta di narrativa, amo la fisicità del foglio ed il ticchettio dei tasti che mi sembra quasi un ritmo indispensabile alla creatività.
Ho inserito i fogli nel rullo della macchina, il rituale ed ormai anacronistico sandwich composto da tre fogli extra strong e due carte carbone (grazie all’informatica, sono diventate sempre più difficili da trovare), ed ho cominciato a battere sui tasti ed a spremermi le meningi. Dopo un po’, però, mentre le parole facevano sempre più fatica a trasferirsi dalla mia testa al foglio, ho cominciato a provare un senso d’irritazione crescente.
Come ho potuto essere così stupido da pensare che sarebbe bastato un cambio di ambiente per ritrovare l’ispirazione? No, decisamente non andava! Mi sono alzato ed ho cominciato a passeggiare nervosamente per la stanza.
Mi sono soffermato a guardare fuori dalla finestra: non c’è un gran che di panorama, la visuale è chiusa dall’edificio di fronte che si trova dalla parte opposta di una stradina piuttosto stretta; questo lì per lì non ha fatto che accrescere il mio senso d’irritazione, poi mi sono messo ad osservare meglio la casa...
E’ strano, ma dà l’impressione di essere fuori posto in un luogo come Worthing, un borgo agricolo che negli ultimi decenni si è dilatato grazie a un po’ di attività industriale, aggiungendo alla sua planimetria un po’ di strade e di fabbricati brutti ed anonimi e nulla, assolutamente nulla, ne sono più che sicuro, in termini di estetica.
La casa è una sorta di via di mezzo fra una di quelle vecchie case padronali di campagna, quelle che da queste parti chiamano semplicemente “manor”, e un vero e proprio castello anche se di dimensioni limitate. Dalla mia stanza si scorgono due grandi finestre ad ogiva ed un cornicione dal disegno merlato, la sporgenza in avanti delle estremità laterali della facciata simula una sorta di torri.
Mi sono messo ad osservarla con crescente interesse, tanto l’anomalia di quell’edificio insolitamente pretenzioso sembra stridere con il resto della prosaica cittadina.
Sono passato ad esaminare con maggiore attenzione i particolari: l’intonaco e gli stucchi della facciata sono di un gusto vagamente neoclassico che non s’intona con lo stile da maniero gotico dell’edificio nel suo insieme: festoni di motivi più o meno vegetali intervallano figure di satiri e di ninfe che il tempo e l’erosione degli agenti atmosferici hanno reso di difficile interpretazione, tranne per una grossa testa di Pan (o di diavolo) posta sopra l’architrave del portone, dall’aria decisamente maligna.
La finestra della mia stanza è posta sul retro dell'edificio della pensione, per questo arrivando non ho potuto vedere la strana casa dall'altra parte della strada; forse se l'avessi vista, avrei fatto sonni meno tranquilli.
Ho scrutato con attenzione le grandi finestre ogivali simili a quelle di una chiesa: oltre i vetri non si vede nulla, solo un'uniforme superficie scura; sono delle vecchie tende scrupolosamente tirate, o è la patina di sporcizia che ricopre i vetri?
Ho tentato inutilmente di rimettermi al lavoro, macché, a questo punto la concentrazione se n'era completamente andata.
Ho preso il giubbotto e sono uscito dalla pensione, spinto dalla curiosità di dare un'occhiata d'insieme alla vecchia casa. Dopo un po' mi sono accorto di una cosa strana: sembrava impossibile arrivarci. La topografia di questa zona di Worthing sembra essere piuttosto particolare. Chiedendo lumi ai bottegai dei dintorni, dapprima ho avuto una sensazione straniante, come se mi fossi accorto di dare la caccia ad un fantasma, ad un'allucinazione , poi poco per volta credo di aver capito come stanno le cose.
Il retro della pensione, quello su cui dà la mia finestra, e la facciata di quella bizzarra casa sono separati da una via non pavimentata che una volta doveva essere il percorso di un torrente poi seccatosi. Le case sono “cresciute” addossate le une alle altre dalle due parti di quello che una volta era l'argine, senza lasciare spazi fra l'una e l'altra, sì che per andare dall'una all'altra parte di quella specie di trincea, bisogna attraversare mezzo paese. Dopo aver bighellonato un po', ho rinunciato, anche perché ancora non conosco Worthing al punto da non potermi smarrire.
* * *
Ho chiesto notizie alla padrona di casa su quello strano edificio che fronteggia la mia finestra, mi ha detto di non saperne molto, di aver visto sempre disabitata la costruzione, ma dal suo tono e dalle sue reticenze mi ha dato l'impressione netta che questo sia un argomento di cui non le piaccia parlare.
Il pomeriggio, lo devo ammettere a malincuore, non è stato più produttivo della mattina, non sono riuscito a concentrarmi con il pensiero di quella strana costruzione a poco più di un centinaio di metri da me. Sono riuscito a scarabocchiare qualcosa, poche righe tempestate di cancellature, pentendomi di non aver portato con me il mio personal computer e di non poter contare sul suo schermo bello pulito, i suoi “inserisci file”, i suoi “taglia”, i suoi “copia/incolla”.
Più di una volta mi sono alzato per andare a sbirciare fuori dalla finestra, ma sulla facciata dell'abitazione di fronte a me non c'erano mutamenti visibili, tranne il variare della luminosità con il trascorrere delle ore.
Ho potuto appurare che “la via” che separa i due edifici è sempre deserta, non so se si possa nemmeno definire per davvero una strada: non c'è pavimentazione, solo la rena ed i ciottoli del fondo del torrente asciutto, ed erbacce in gran numero qua e là.
L'uomo sedeva con le spalle alla parete e stava cenando, era un uomo anziano dai capelli bianchi ed il volto rugoso, indossava un abito che doveva essere stato di buona qualità ai suoi tempi, ma che ora appariva piuttosto liso.
Mi avevano riferito che il vecchio era stato per molti anni insegnante della scuola elementare, anche se era da tempo pensionato, vedovo e solo con i figli che si erano trasferiti lontano da Worthing, me ne avevano parlato come di un erudito ed un profondo conoscitore della storia del paese; se c'era un uomo che poteva soddisfare la mia curiosità, era senz'altro lui.
Mi avevano indicato anche dove potevo trovarlo, l'osteria dove, da vecchio solitario, consumava regolarmente i suoi pasti.
Aspettai che avesse finito di cenare e mi avvicinai, anche se non sapevo come attaccare discorso.
“Buona sera, posso?”, dissi tirando una sedia vuota verso di me ed accennando a sedermi.
“Prego, si accomodi”.
Mi fissò squadrandomi da capo a piedi: aveva gli occhi azzurri di uno sguardo vivace, ma acquosi come hanno spesso le persone anziane.
“Lei è forestiero, vero?”, mi domandò, “E posso chiedere quali affari la conducono in questo posto che non è esattamente una località turistica?”
“Sono uno scrittore”, dissi, “Sono scappato da Londra e sono venuto qui in cerca di pace e silenzio per ritrovare l'ispirazione”.
“Aaah!”, annuì come se le mie parole avessero chissà quali recondite implicazioni.
“E mi dica, dove alloggia?”
“Dalla signora Bateson”.
“Allora è tutto chiaro”, rispose il vecchio, “Lei vuole sapere di Winterton Manor”.
“Quella strana grande casa dietro la locanda”, commentai un po' scioccamente, “Si chiama così?”
Lui annuì.
“Una volta”, disse, “Oh, sto parlando di moltissimo tempo fa, era una vera e propria villa di campagna padronale, poi una casa qua, una casa là, il paese le è letteralmente cresciuto addosso. Una volta c'era certamente una vasta tenuta tutt'attorno, che oggi non esiste più. E' molto antica, dovrebbe risalire al XVI secolo, si dice che vi abbia abitato l'umanista ed occultista elisabettiano John Dee”.
“ Quello che avrebbe tradotto in inglese il Necronomicon”, chiesi.
g sono sciocchezze”, ribatté il maestro , “Il Necronomiconnon è mai esistito, è un'invenzione dello scrittore americano H. P. Lovecraft. Il più famoso libro di magia di tutti i tempi è una bufala”.
“Alcuni dicono”, interloquii, “Che questa invenzione da parte di H. P. Lovecraft, che ne avrebbe davvero posseduto una copia, sarebbe una copertura, un depistaggio”.
“Non lo so, potrebbe essere”, rispose il vecchio, “Anche se non lo credo, ma in faccende come queste non si può mettere la mano sul fuoco per nulla”.
“ Torniamo a Winterton Manor”, dissi, “Le dispiace?”
“No”, rispose, “La casa è molto antica ma è stata radicalmente ristrutturata nel XIX secolo dopo essere stata acquistata dal baronetto sir Thomas Winterton, è stato lui che le ha dato il suo aspetto attuale. Il gusto dell'epoca, con quella mescolanza di motivi neoclassici e gotici, era pessimo ma lui ci ha messo parecchio del suo per peggiorarlo ancora. Era, lo capisce, un tipo alquanto eccentrico”.
Mi ha fissato con uno strano brillio negli occhi.
“Beh immagino”, ha detto, “Che quasi ogni cittadina o paese di dimensioni non insignificanti abbia la sua leggenda di case infestate o di fatti strani... a ogni modo, noi abbiamo la nostra.
Sir Thomas Winterton, le dicevo, era un tipo eccentrico. Da quello che sono riuscito a capire, disponeva di una notevole quantità di denaro, ma ha preferito venire a rintanarsi in questo che allora era un borgo fuori mano, non solo, ma anche in paese le sue frequentazioni erano più nulle che scarse; era venuto qui, presumo, alla ricerca di qualche manoscritto di John Dee ma ci ha messo radici, e negli ultimi anni non metteva più piede fuori da Winterton Manor, non amava la compagnia, non quella delle creature di questo mondo, almeno”.
“Cosa intende dire?”, chiesi.
“Oh, andiamo!”, rispose, “Forse non è questo che è venuto a cercare qui, il trascendente, l'ignoto, il mistero?”
Mi fece sentire sciocco.
“Sir Thomas Winterton”, proseguì il vecchio maestro, “Si occupava di cose come cabala, spiritismo, negromanzia, tutte le cose che una persona ragionevole e sana di mente dovrebbe lasciare fuori dalla sua vita. E' voce comune qui in paese, che dentro Winterton Manor abbia condotto strani esperimenti, e che nella villa ci fosse molto più movimento di notte che non di giorno, non so se m'intende”.
Quest'ultima affermazione era naturalmente retorica, era chiaro che l'intendevo benissimo: vi sono terreni verso i quali un uomo di una certa sensibilità è naturalmente attratto anche se poi spesso osa sfiorarli solo con la fantasia: nascere, crescere, prendersi la nostra razione abbondante di sofferenze, amarezze e delusioni appena condite da qualche rara gioia e soddisfazione, e poi lasciare questa valle di lacrime senza aver concluso granché. Se la vita è tutta qui, e brucia doverlo ammettere ma in ultima analisi è proprio tutta qui, allora non si può non cercare il sollievo del trascendente, dell'ignoto, del misterioso, sia pure a livello fantastico.
“Sir Thomas”, prosegue il vecchio, “Forse cercava l'immortalità ma sicuramente è morto molti anni fa, e la casa da allora è rimasta disabitata. Ci sono degli eredi che non abitano qui a Worthing, che stanno ancora cercando di venderla, tuttavia c'è chi dice di aver sentito strani rumori provenire nottetempo da quell'edificio, e di aver visto strane luci alle finestre.
Forse qualcosa che sir Thomas aveva evocato è rimasto fra quelle mura, forse si tratta dell'anima stessa del baronetto... forse è rimasta aperta una porta su... qualcos'altro, oppure... oppure sono solo chiacchiere di paese”.
Io non so se ho fatto bene a sostenere quella conversazione con l'anziano maestro. Quando sono rientrato alla locanda, ho gettato un'occhiata a Winterton Manor dalla mia finestra, l'edificio mi è apparso sotto una luce ancor più inquietante di quanto l'avessi visto fin allora. Potenza della suggestione, certamente, ma la faccia di Pan o di diavolo posta sopra l'architrave del portone, mi è sembrata avere un'espressione ancor più maligna.
Con il passare delle ore e l'avvicinarsi del crepuscolo, ho avuto l'impressione che l'aspetto della facciata dell'edificio si facesse sempre più inquietante. Stanotte ho dormito poco e male, un sonno agitato ed intervallato da incubi che non riesco a ricordare con chiarezza, ma che devono essere stati alquanto terrificanti.
Stamattina mi è successo quel che attendevo da tempo senza peraltro sperarci: mi sono seduto alla macchina da scrivere ed ho infilato i fogli, più che altro per una sorta di rito scaramantico, e ad un tratto oplà, ecco che l'ispirazione ha ripreso a scorrere come anni fa, come l'acqua che all'improvviso ritorna nel letto di un fiume inaridito.
Ho buttato giù una dozzina di pagine di getto, poi mi sono messo a rileggerle, e quasi non credo di averle scritte io. Non è il mio stile, questo. Le pagine del testo sono costellate di termini ambigui, di allusioni sinistre, di uno humor maligno di cui non mi credevo capace.
Un pensiero quasi ironico: quando leggerà il dattiloscritto, mi chiedo cosa dirà l'editore di questo mio “nuovo corso”.
La sera mi sono messo a spiare dalla mia finestra quelle di Winterton Manor, sperando di cogliervi qualche movimento o l'accendersi di una luce. Le finestre più vicine sono coperte da una specie di tende. Ad un tratto mi è parso di percepire un lieve ondeggiamento. Forse non è stata altro che suggestione aiutata dalla scarsa luminosità.
Anche stanotte ho dormito male, ho avuto un incubo, ma stamattina me lo ricordo bene.
Nel sogno, mi pareva di trovarmi sempre nella mia camera, disteso sul letto, quando all'improvviso nella stanza è entrato qualcuno, un uomo anziano quasi calvo e con una bizzarra barbetta a punta. Non era entrato dalla porta ma dalla finestra, camminando nell'aria come se fosse terreno solido ed attraversando i vetri chiusi come se non esistessero: era vestito interamente di nero, o meglio, era avvolto in un lungo mantello nero che ricopriva il suo corpo dal collo fino ai piedi. Con la strana consapevolezza dei sogni, sapevo che si trattava di sir Thomas Winterton.
Il vecchio, il fantasma, quello che era, si era avvicinato alla testiera del letto fissandomi con una strana intensità, poi si è scostato di colpo, lasciandomi vedere la creatura che si era avvicinata dietro di lui: sebbene fosse vicinissima a me, non riuscivo a scorgerla con chiarezza, sembrava un essere formato da ampie e dense volute di fumo nero la cui forma indefinita mutava di continuo. Solo all'altezza all'incirca dove si sarebbe trovato un volto umano, c'erano due piccole luci che potevano essere due occhi giallastri da animale stranamente luminosi.
La creatura ha allungato verso di me un tentacolo di oscurità fumosa, ed a questo punto sono stato svegliato dal mio stesso urlo.
Non ho più ripreso sonno, ma con il procedere delle ore, man mano che il ricordo dell'incubo perdeva di vividezza, ho cominciato a sentirmi meglio.
Quando si è fatto giorno, ero in condizione di mettermi a lavorare al manoscritto, e mi sono buttato sul lavoro anche per tenere alla larga i pensieri angosciosi.
Ho sfilato i fogli dalla macchina e mi sono messo a rileggere il dattiloscritto: stento a credere di aver scritto io queste cose: la storia sta prendendo una direzione alla quale non avrei mai pensato, piena di allusioni sinistre ed impregnata di un humor macabro come il ghigno di un teschio.
La topografia di questa parte almeno di Worthing è veramente particolare. Dare un'occhiata ravvicinata all'edificio dirimpetto alla mia finestra, la sinistra Winterton Manor, si sta dimostrando un'impresa più difficile di quel che si potrebbe pensare. Usciti dalla porta d'ingresso della locanda della signora Bateson, non è così facile raggiungere il retro dell'edificio. A destra ed a sinistra le costruzioni sono così strette ed addossate le une alle altre, che non vi è modo di passare, pare si debba fare il giro dell'intero paese per raggiungere il retro delle costruzioni che pure in linea d'aria non sono certo ad una grande distanza.
Non sono comunque intenzionato a lasciarmi scoraggiare, e così mi sono avviato di buon passo proseguendo parallelo alla strada che separa il retro della mia locanda da Winterton Manor che è, suppongo, un fiume od un canale disseccato, sempre cercando un varco fra gli edifici addossati come a proteggersi l'un l'altro da qualche minaccia che sarebbe potuta salire dal fiume in secca o dalla sponda opposta.
Sono arrivato fin sulla spiaggia dove le case di Worthing finiscono per lasciare il posto ad un agglomerato di rocce, sabbia, ghiaia. Il fiume o canale, o quello che era, disseccato, si allargava e sfumava nella traccia appena riconoscibile di un antico estuario.
Da lì ho cominciato a risalire il letto disseccato del fiume, del canale, del torrente, di quel che era. Il suolo è irregolare e coperto di erbacce che prosperano in grande quantità. Probabilmente, scavando si troverebbe ancora l'acqua. E' umido qui, ed in certi punti è difficile muoversi perché il cammino è intralciato da macchie di rovi e di ortiche.
Vedo che mi trovo un metro, un metro e mezzo circa al disotto del piano stradale; se questo era un fiume, non deve essere mai stato profondo, oppure deve essere stato intasato dai detriti.
Tranne qualche gatto randagio, non vedo in giro nessuno; non so perché, ma mi sembra una fortuna, ho quasi paura che qualche finestra delle case che mi fiancheggiano si apra e qualcuno mi veda, come se stessi facendo qualcosa di male o una sciocchezza pericolosa.
Fa freddo qui, le case che si addossano dai due lati tolgono l'illuminazione e il calore del sole, e l'umido sale dall'antico letto fluviale, non mi aspettavo di piombare in un'atmosfera così fredda e buia.
Eccomi finalmente arrivato. Alla mia destra c'è la sagoma massiccia, tetra e vagamente inquietante di Winterton Manor. Quella invece alla mia sinistra dall'altra parte del fossato deve essere la pensione della signora Bateson, e quella finestra al secondo piano deve essere quella della mia camera.
Mi sono arrampicato sulla scarpata alla mia destra e mi sono ritrovato davanti al cupo portone di Winterton Manor, ed a guardare dal basso la testa di diavolo dell'architrave che finora avevo visto dall'alto e da distante. Non c'è che dire: quel demone ha davvero un'espressione maligna da far rabbrividire.
Il massiccio portone è ovviamente chiuso e sprangato. Ho provato anche, sebbene fosse prevedibile che non avrei ottenuto alcun risultato, a battere il massiccio battaglio di ottone posto sullo stipite.
A questo punto mi sono bloccato. I piani che mi ero fatto arrivavano fino a lì, oltre non avevo nemmeno pensato di andare.
Ho girato intorno a Winterton Manor, che in effetti è una costruzione piuttosto grande, più di quel che mi era sembrato a prima vista, per dare un'occhiata al lato di Worthing che mi è meno familiare.
Ad un certo punto mi sono trovato di fronte le parole “Winterton Manor” scritte su di un cartello a pochi passi da me.
Ho guardato con più attenzione: era un cartello sbiadito dalle intemperie che doveva essere lì da parecchio tempo, diceva che gli acquirenti interessati a visitare la proprietà potevano rivolgersi nella casa accanto per avere le chiavi.
Ho suonato il campanello e dopo qualche minuto mi è stato aperto.
L'uomo che mi è venuto ad aprire è un signore di mezza età dall'aria distinta, non ha per nulla l'aspetto di un custode, e probabilmente non lo è, mi ha fatto accomodare nell'atrio di una casa assolutamente normale, a quanto potevo vedere, arredata con buon gusto.
Gli ho esposto il motivo della mia visita.
“Ebbene”, ha detto, “Temo di non poterla accontentare, se la sua intenzione è quella di vedere Winterton Manor per semplice curiosità e non è un acquirente. D'altra parte me l'aspettavo. Winterton Manor è in vendita da decenni e non trova un compratore. Ci sono troppe brutte storie che circolano su quella vecchia casa, forse ne avrà sentita qualcuna anche lei, signor... signor?”
Gli dissi il mio nome.
Quello che avvenne subito dopo, fu sorprendente.
“Ma no!”, esclamò il mio ospite, “Non è possibile! Lo sa che ho terminato di leggere un suo libro pochi giorni fa?”
Si è allontanato un momento, ed è ritornato reggendo in mano una grossa chiave di fattura arcaica, di quelle che ci si immagina ancora forgiate a mano nella fucina di qualche fabbro.
“Ecco”, mi ha detto, “Questa è la chiave di Winterton Manor. Osservi quello che vuole ma non tocchi nulla. Sa, non vorrei avere problemi con i proprietari e l’amministrazione”.
Ho annuito e l’ho ringraziato.
Mi sono allontanato in direzione di Winterton Manor, fino ad arrivare davanti al grande portone dall’aria antica, scurito dal tempo.
Eccomi qui. Infilo la chiave nella toppa, fa una certa resistenza, come se la serratura fosse internamente incrostata di ruggine, poi uno schianto secco. Tiro lievemente verso di me il battente che cede.
Sono rimasto per un lunghissimo istante con il battente socchiuso, la maniglia in mano, bloccato dall’indecisione, poi… poi non me la sono sentita, ho avuto timore. Ho spinto di nuovo indietro il battente, sono tornato ad infilare la chiave nella toppa ed ho chiuso con una mandata.
Timore di che cosa? Di incontrare qualche fantasma, magari la cosa nera e informe del mio sogno? Andiamo, chi voglio prendere in giro?
Conosco abbastanza la psicologia da sapere come nascono i meccanismi di suggestione, fino al punto di procurarsi un sogno angoscioso come quello della notte scorsa, da sapere con quanta facilità nascono le leggende metropolitane ed ancor di più le leggende di paese, senza nessuna base reale, la capacità che hanno l’aspettativa ed il desiderio, ed anche il timore, di creare eventi irreali, sono abbastanza smaliziato da sapere che tutta la casistica paranormale, una volta sfrondata da illusioni e trucchi, si riduce al niente.
No, quello che mi ha bloccato è il timore di non trovare nulla dentro Winterton Manor, oltre a polvere e ad immondizia, i segni impietosi che il trascorrere del tempo lascia sulle cose abbandonate, il timore di avere un’ulteriore, ennesima prova del fatto che a questo mondo non c’è nulla che non sia banale, prosaico, scontato, che ormai siamo progrediti con la nostra conoscenza fino a dissipare gli ultimi veli di meraviglia e di mistero, e che ormai siamo padroni e prigionieri di un mondo e di un’esistenza prosaici, senza scopo. Meglio lasciare un ultimo mistero irrisolto, meglio potersi concedere almeno il dubbio.
Mi sono messo a bighellonare per una mezz’ora fra le case ed i vicoli di Worthing, poi sono andato a riconsegnare la chiave.
Domattina riparto per Londra.
E’ strano come l’umore di una persona possa cambiare in un breve lasso di tempo. Sono passate poche ore da quando ho annotato queste parole a margine di un dattiloscritto, e adesso a rileggerle mi suonano vuote e false: desidero andarmene, lo desidero ardentemente, ma ho l’impressione del tutto irrazionale che non riuscirò a prendere quel treno.
Avevo deciso di rimandare a dopo cena il momento di fare i bagagli, in maniera di approfittare ancora di qualche ora per mettermi al lavoro. Fatica sprecata, non sono riuscito a combinare niente di buono, sono solo riuscito a mettere a fuoco una serie di immagini staccate non utilizzabili da punto di vista narrativo, e piuttosto orripilanti.
E’ cominciato un imbrunire precoce, favorito da un improvviso annuvolamento. Man mano che la luce è diminuita, ho sentito in progressione diretta calare con essa il mio umore.
La verità è che ho sporcamente mentito, prima di tutto a me stesso, pensando e scrivendo che a trattenermi dall’entrare ed esplorare a fondo le antiche stanze e i corridoi polverosi di Winterton Manor sia stato il timore di una delusione. Al contrario, so bene che a fermarmi è stata la paura, una fifa blu, cieca, irrazionale che non volevo ammettere di provare. Di fronte a qualsiasi rischio, un uomo può evitarlo o difendersi, ma contro qualcosa di indefinibile, di inafferrabile non c’è rimedio. Noi sappiamo che esiste una quantità di fenomeni che non riusciamo a spiegare, e allora per difenderci alziamo la corazza dello scetticismo, che è molto utile nella vita quotidiana, ma quando ci troviamo davvero di fronte all’ignoto, allora siamo nudi e senza difesa.
Man mano che le ore sono trascorse, mi pare che le mie membra si siano fatte sempre più pesanti, come piombo. Volevo scendere per la cena, ma non sono riuscito ad alzarmi dalla poltrona su cui sono seduto, quella proprio davanti alla finestra.
Non sono riuscito ad alzarmi neppure per andare a letto, devo essermi appisolato seduto in poltrona.
Cosa strana, si è ripetuto il sogno dell’altra notte, ma con qualche differenza: questa volta mi sono trovato quasi subito il volto cinereo di sir Thomas Winterton vicinissimo al mio, come se il sogno fosse non tanto una ripetizione quanto piuttosto una continuazione del precedente: un volto più grigiastro che pallido, segnato da profonde rughe sotto gli occhi e agli angoli della bocca. La sua non mi è sembrata un'espressione malvagia o minacciosa, quanto piuttosto rassegnata, stanca e immensamente triste.
Poi si è bruscamente scostato, lasciando spazio all'essere che veniva dietro di lui.
Come l'altra volta, la creatura sembrava composta da informi volute di fumo nerastro fra le quali non si distingueva nulla tranne gli occhi giallastri e non umani, tuttavia avevo l'impressione che avesse in qualche modo acquistato consistenza rispetto alla volta precedente.
Non riuscivo a distinguere alcun particolare tranne lo sguardo decisamente non umano, eppure con la bizzarra consapevolezza che abbiamo a volte nei sogni, sapevo che quell'essere era di sesso femminile, così come sapevo che l'uomo (o lo spettro) che lo/la precedeva era sir Thomas Winterton.
La creatura ha teso una specie di tentacolo fumoso verso di me.
Quando quella cosa mi ha sfiorato, è stato come se una forte scarica elettrica mi attraversasse, sono stato investito da una sensazione violentissima, dolorosa ma nello stesso tempo anche erotica, ho avuto l'impressione che quella cosa succhiasse attraverso il tentacolo dal mio pene eretto non soltanto il seme, ma tutte le mie energie vitali, poi sono sprofondato nell'oblio più completo.
Quando mi sono risvegliato o mi sono riavuto, mi sono trovato disteso per terra; mi sono reso conto con sbigottimento di non essere nella mia stanza nella pensione, ma in un ambiente del tutto sconosciuto.
La luminosità è scarsa, e non solo per i pesanti strati di polvere che coprono le tende davanti ai grandi finestroni, ma perché è di nuovo quasi sera. Devo aver dormito o aver giaciuto prostrato per molto più di una nottata, qualcosa come una ventina di ore.
Mi trovo in un ambiente che non è la mia camera, un luogo che mi è sconosciuto. Mi accorgo di essere tutto impolverato, ho giaciuto sul pavimento dove c'è un dito di polvere.
Dove mi trovo e come ho fatto ad arrivarci?
Mi avvicino a una finestra e scosto un po' il pesante tendaggio.
Mi è sembrato per la seconda volta che il mio corpo fosse attraversato da una scarica elettrica, questa volta però del tutto psicologica: davanti a me ho visto le finestre della pensione della signora Bateson. Dunque, mi trovo dentro Winterton Manor, ma come ho fatto ad arrivarci?
Una parte almeno della risposta non è stata difficile da trovare. Mi sono guardato in tasca e ho trovato la chiave che credevo di aver restituito al custode di questo sinistro edificio.
Poco per volta, sono riemersi nella mia mente alcuni brandelli di semi-consapevolezza, la sensazione di aver percorso nuovamente il tortuoso tragitto dalla mia camera nella pensione fino a Winterton Manor in uno stato di trance sonnambolica, fugaci visioni di muri muschiosi e sentieri coperti di erbacce nelle fievoli luci che dalle case e dal ciglio della strada principale foravano la tenebra notturna.
Sono corso alla porta della stanza in cui mi trovo, cercando di aprirla, ma i miei sforzi sono stati inutili. Non è come se fosse chiusa a chiave, perché allora la resistenza si concentrerebbe nell’area della serratura: è come se fosse murata. Chiunque o qualunque cosa mi ha portato qui, vuole tenermi da parte per più tardi.
Ho provato a rompere il vetro di una finestra usando un oggetto che mi pare una specie di grosso fermacarte di bronzo: niente, è come se avessi usato qualcosa fatto con la gommapiuma.
Su di un basso tavolino è poggiato un grosso quaderno o una specie di diario aperto.
Tutto attorno, la superficie del tavolino, come ogni cosa nella stanza, è coperta da un denso strato di polvere, ma sulle pagine aperte del diario non ce n’è nemmeno un granello.
E’ scritto a mano con una calligrafia elegante e regolare che i classici svolazzi indicano come ottocentesca. E’, come avevo immaginato, un diario, quello di sir Thomas Winterton senza dubbio.
Non potevo non mettermi a leggere, e mi sono immerso nella lettura sfogliando una pagina dopo l’altra.
Certo, sir Thomas era un personaggio singolare, e ha avuto una vita stravagante. Come immaginavo, si è installato qui a Worthing per cercare i manoscritti di John Dee, ma ben prima di arrivare qui aveva già un’intensa frequentazione con l’occulto. Come molti inglesi della sua epoca, aveva soggiornato in India; a quel tempo in India era possibile moltiplicare nel giro di qualche anno un capitale iniziale, oppure, come accadeva più spesso, rovinarsi completamente. Beh, lui non si è rovinato, almeno non finanziariamente.
A quanto pare, ha iniziato a occuparsi di certe pratiche che è eufemistico definire religiose: il buddismo tantrico, la ricerca del risveglio di Kundalini e altre pratiche magico-sessuali. Sir Thomas racconta di aver evocato una dakini, una sorta di demone femminile della tradizione indiana, con cui avrebbe stabilito un rapporto simile a quello di una strega con il proprio familiare nella nostra tradizione fiabesca, solo che con l’andare del tempo la creatura è diventata sempre più forte e lo stesso sir Thomas sempre più debole, fino a che lui si è sentito sul punto di esserne totalmente assoggettato.
Non c’è dubbio, la dakini è precisamente la creatura che mi ha visitato e fatto prigioniero assieme allo spettro di sir Thomas.
Quale è stato il destino di sir Thomas Winterton, e quale sarà – senza dubbio a breve – il mio? La morte o una semi-esistenza vuota e larvale che si trascina magari per secoli in una dimensione crepuscolare? Temo che lo saprò fra non molto.
Provo una sorta di amara soddisfazione al pensiero che dopotutto non uscirò dall’esistenza o da questa dimensione dell’esistenza in maniera banale come i più.
Le ombre si stanno infittendo.
Tra poco sarà buio…