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The eternal travel
di Patricia Wolf
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Troppo caldo. Tutta quell’erba fitta che bruciava gli occhi, appena passata la curva. Il condizionatore era da rimettere in sesto. “Grazie, scendo qui.” Il tipo coi baffi scalava le marce e inchiodava il motore. “Beh, allora a presto..” L’uomo dalla tempie brizzolate accennava un sorriso, gli batteva la mano sulla spalla e borbottava un “Grazie” strascicato, asciugandosi le goccioline di sudore sul viso abbronzato. Poi afferrava la sacca sul sedile posteriore e saltava giù. Ci metteva qualche minuto a focalizzare il paesaggio attorno. Le colline, i campi che si mischiavano a campi con qualche casa a separarli ogni tanto. Tetti rossi. Lontano, il fischio di un treno. Prendeva a camminare lungo il sentiero polveroso. Senza fretta. Lo vedeva subito. Un ragazzino coi capelli lunghi sdraiato lungo il ciglio della strada. Col suo zaino a tracolla, intento a masticare gomma ascoltando musica dal suo walkman. Nel caldo indomabile, imperterrito a tendere il suo pollice a freccia, aspettando un passaggio.
Vita on the road. Autostop, amore mio. L’uomo si accomodava sulle spalle la sua sacca e filava lento verso il ragazzo. Gli stava appena d un passo quando sentiva la voce. Classica voce da adolescente, leggermente roca. ”L’amico tuo poteva anche fermarsi. Sto qui da un’ora ed a momenti penso di essere un ghost”. L’uomo accennava ad un sorriso. Gli offriva una sigaretta, per consolarlo. “John Player’s”?” diceva il ragazzo, adocchiando il pacchetto nero. “Mai viste. Vieni da lontano? “ L’uomo faceva segno di sì. E gli si sdraiava al fianco, tanto per riprendere fiato un attimo e decidere cosa fare di sé e della sua vita. “Mi sa che aveva fretta. Affari da sbrigare in città…” rispondeva, riferito al tipo coi baffi che era sfrecciato via con la sua fuoriserie, incurante del ragazzino che si sbracciava invocando un passaggio. “In città? Ma quale città? Qui attorno è tutta campagna, un po’ di lago e chissaddove il mare. Qui non c’è niente da vivere. Niente da aspettare. Niente, se non un tipo che ti dia un passaggio verso un mondo diverso…”
L’uomo diede un tiro di sigaretta e sorrise, Piano. Guardandoselo bene. “Dove vuoi andartene? In giro per il mondo?”chiese. Il ragazzino si passò una mano sui lunghi capelli biondi. Rimise via il walkman e lo fissò dritto negli occhi con l’aria sfrontata. “Il mondo..beh sì, l’Europa. Dove c’è vita, dove c’è gente che ti promette qualcosa, una notte di sballo, qualcosa che non siano le solite menate. La scuola, la festa con la banda, le ragazzine vigilate dal papà…” L’uomo strinse le labbra e gli allungò la mano “Mi chiamo Bobo. Ho capito cosa intendi. Tanto tempo fa, ci vivevo anch’io, qui. So cosa vuoi dire.” Il ragazzino rimase un po’ in surplace, incerto se stringerla a o no quella mano. Poi vinse la diffidenza. Voleva girare il mondo e poi stava a soppesare le buone intenzioni del primo sconosciuto a cui aveva rivolto la parola per primo lui. Doveva darsi una mossa, crescere. Per ora era ancora il solito balordo che parlava di sfide e poi si fermava sulla soglia. Doveva piantarla con quella vita. “Io sono Jack. Ho sedici anni ma qui davvero non trovo niente da fare. A scuola è buia. Mi sono perfino iscritto al conservatorio, in città. Ma non mi va di imparare tutto un po’ per volta. Voglio tuffarmi e nuotare e capire direttamente cos’è la vita. Mica voglio ridurmi come i miei compagni che la sera sono strafatti di videogames e TV e aspettano il sabato per inciuccarsi e sperare di rimorchiarsi qualcuna…” Bobo se lo guardava. Quella storia la conosceva bene. Gli sembrava di ricordare un ragazzo che aveva sbattuto la porta e se n’era andato via con la stessa rabbia, più di trent’anni fa. Lui aveva poca gente da lasciarci alle spalle. Un padre impelagato con le sue cause di avvocato di grido e sua madre a correr dietro al fratello che continuava a fare il politicante ed okkupare scuole, fissato con la politica che doveva cambiare il mondo, ogni tanto braccato dai policemen perché aveva picchiato qualche nero o le aveva prese, chissà. E lui, perso con la sua musica beat che sognava l’Inghilterra e voleva andarsene a Liverpool o a Londra a vedere Carnaby Street e le ragazze uguali alle donne dei Beatles e i Rolling.
“E i tuoi che dicono?” chiedeva al ragazzo, sdraiandosi sull’erba. “I miei? Manco mi vedono. Mio padre è andato via. Fa l’industriale, lui. Deve ammassare soldi, figurati se ha tempo per me. Mia madre vive con un altro. Già da un bel pezzo.Ha pure avuto una bambina e adesso ha lei da guardare.” “Tu hai la tua musica, però..” e accennava al walkman finito nella sacca. “Io suono la chitarra e le tastiere, ascolto il rap e il rock, ho voglia di vivere….” Si fermava poi si girava con gli occhi attorno. “Ma lontano di qui. Lontano da questi campi. Sennò finisco nell’industria di papà a fabbricare scatolette. O metto incinta la figlia del mugnaio che almeno non se la tira come le ragazzine che ogni sabato si fanno belle per trovare il pollo che le sposi e le porti via….”
Bobo spense la sigaretta, schiacciandola sotto i sandali. “Dove vorresti andare? In Inghilterra…” Chiedeva. E intanto inseguiva un pensiero stretto fra i meandri della sua mente. E ricordava il suo primo autostop che l’aveva portato su in Francia a girare per i metrò e cercarsi un posto appena decente per dormire e poi era finito fra i clochard sentendosi molto poeta maledetto, una specie di Baudelaire riveduto e corretto che dava appena un’occhiata a Notre Dame e un assaggio alle escargot e poi filava via verso altre mete e girava con quel pollice sempre proteso per farsi prender su e conosceva la gente, il mondo. Anche splendide donne bionde che se lo portavano nelle loro garconniers e gli insegnavano l’amore e gli dicevano che era tanto carino, avrebbe fatto strada e gli compravano un paio di jeans nuovi e poi era già un’altra terra e l’odore di cipolla gli sbalordiva la testa e gli portavano il goulash ogni sera e gli chiedevano se era vichingo e quale birra gli piaceva di più. E poi l’Oktober Fest e poi paesi più caldi e Atene con le sue rovine e il sapore dolceselvatico dell’agnello e il mare color viola fra le rocce che gli trasmetteva leggende lontane e poi ancora viaggi e ancora gente con altre lingue, altri dialetti che lo portava attraverso anni di piombo tetri e conosceva il cinema esistenziale e guardava Truffaut su maxischermi e si chiedeva com’era una storia gay, alla fine di ogni pellicola firmata Fassbinder. Poi Londra arrivò ed arrivarono i pub. Ed i Beatles erano già in declino e i maschi giravano in paillettes su e giù per il palco, follie da glam e poi la rivolta s’accendeva ancora violenta in epoca punk e c’era il dark, c’era il metal, c’era il giunge, c’era il crossover, c’era Brighton che s’infiammava per il Dio in consolle e le mini s’erano allungate e pi accorciate ancora ma le ragazze amavano sempre trascinare i biondini dal fisico compatto come il suo nelle loro tane quando papà non c’era. E s’impratichì a fare il cameriere nei fastfood e serviva ai tavoli e cucinava bene gli hamburger e a volte assaggiava le patatine anche lui e poi la birra e la notte era caricato a mille e suonava la chitarra dentro i pub. Non se ne sarebbe andato più e conosceva Buckingam Palace e i Giardini di Kensington e le isole Highlands e l’Irlanda troppo conservatrice che sprizzava folklore dalle sue chitarre sempre un po’ country. E poi erano coste scandinave fredde che giovani donne dai capelli color grano scaldavano coi loro corpi generosi ed il tempo scorreva.
Ed ogni tanto Bobo chiamava casa e sapeva che suo fratello ci aveva quasi rimesso la pelle in uno scontro coi poliziotti ed ora stava dentro. E suo padre per la disperazione di quel maschio guerrigliero che gli rovinava la reputazione aveva tentato il suicidio e sua madre, eh già sua madre ora come lo passava il tempo, ora che Pierre stava in galera ed era quasi ridotto in poltiglia? Sua madre si consolava con il sindaco del villaggio che le aveva detto che una donna così non l’aveva mai incontrata. E lei stufa del figlio malandrino ch’era scappato e dell’altro che non aveva visto altro che bandiere rosse e pestaggi e quel marito giudice incorruttibile che se ne sbatteva di lei non ti dico quanto, aveva pensato che era ora di piantarla di fare la brava donna e ben vanga il sindaco e pure il divorzio. Ormai la donna s’era emancipata, che stai a correre dietro certi ideali dispersi.
Ma Bobo girava e cresceva. Trafalgar square e il Piccadilly Circus e Vienna malata di Mozart e Strauss coi suoi eterni valzer e Praga romantica e devastata da mali oscuri e tormenti kafkiani e le birrerie con wurstel e crauti e qual è la birra nazionale in Danimarca, la Tuborg o la Carlsberg e chissà se davvero la notte, a tendere le orecchie ascolti l’ammaliante canto della Sirenetta? E volevano trattenerlo lassù, sulle coste scandinave a pescare e a far fortuna nei locali perché con quel bel fisico sempre tirato e quella voce sporca da quasi bluesman e le dita agili sulla chitarra ogni rockband se lo contendeva e conquiste ne faceva ogni notte…
Il ragazzino lo guardava. Si domandava forse dove stava andando coi ricordi.”Tu è tanto che non ci vieni più qui?” gli stava chiedendo. Bobo si scuoteva. “Da una vita. Ormai non ho più nessuno. E’ passato troppo tempo. E John Lennon l’hanno fatto fuori. E Paul non sta più con Cinthia e se n’è andata anche Linda e Mick è passato da Marianne a Bianca a Jerry dopo che Brian ha fatto la fine del topo in quella piscina e il labbrone frontman si è fatto tante top-model e Charlie Watts ha i capelli ancora più bianchi dei miei e poi il punk sta tornando in voga come i calzoni a zampa d’elefante ma è la storia dei corsi e i ricorsi, non l’ho studiata a scuola, l’ho imparata girando. Ne ho preso di sole, ne ho pescato di pescespada, ho fatto anche il sub. Ho amato tante donne ed ho forse lasciato qualche figlio illegittimi qua e là. Mi sono sentito pirata su qualche piccola nave ed ho portato via bottini preziosi e soprattutto ho bevuto birra, rossa, chiara, scura ed una notte stavo per rischiare la vita per una donna che m’aveva tenuto nascosto con lei, sotto la sua tenda, per strapparmi alla polizia che mi cercava. Ma ce l’ho fatta…”
Il sole cominciava a picchiare meno forte e un leggero accenno di tramonto dava una pennellata di rosso alle colline. “Ne ho vista di gente morire. Correndo via dopo una rapina, assembrata come in fortini per storie politiche ed ho visto anche il Muro, un bunker di violenza ed ottusità che divideva i popoli. Ho visto morire sogni accarezzati in pomeriggi di sole lunghi come Primavere ed ho visto fratelli che uccidevano fratelli e popoli col sangue ghiacciato dal vento e da trame genetiche lunghe secoli. Ed altri che bollivano sempre come i loro liquori e le passioni focose. Li ho visti morire anche nelle arene, accanto ai tori in quel paese dove si beve sangria e tutto è rosso, anche le bocche di donne gitane che ti chiamano col loro olè e ti regalano Barcelona e Granada e lo stretto di Gibilterra anche solo con uno sguardo e un piatto di paella bollente…..Ma io il percussionista non lo faccio. Io non ballo salsa e merengue. Io amo la seicorde. Io odio Ricky Martin come ho odiato Iglesias. Io amo il sound sleazy, l’aria da pub, io m’inciucco e suono, io urlo, io fracasso gli strumenti, io vivo. Vivo, capisci, vivo??”
Il ragazzino lo fissava con gli occhi sgranati. “Dai, continua..” “..Io ho attraversato gli anni ’80 e gli anni ’90 senza farmi toccare dalle mode. Poi con i cachet che mi davano, ho messo su un mio team. Ora faccio il producer.” E si dava una ravviata ai capelli. E si sbottonava il colletto della camicia a scacchi, infilando una mano nei jeans per darsi un tono. “Allora è tuo quel Jaguar?” chiedeva il ragazzo. Bobo faceva segno di sì. “Già. Ma non mi fermerò qui molto. Volevo solo dare un’occhiata a com’è diventato il paese. Sapere che è ancora il cimitero il posto dove c’è più vita. Visto che scavalcavo per guardare le lapidi, quand’ero ancora quasi un bambino e ancora non avevo deciso di andarmene in giro per il mondo. E parlavo con chi non c’era più, sicuro che m’avrebbe ascoltato e capito di più di tutte queste zucche vuote che continuano a vivere da un millennio e passa in questi villaggi dell’ostia…”
Silenzio, attorno. Qualche cicala. Fra poco sarebbe stato buio.
“Io…io voglio fare la vita che hai fatto tu. Io voglio andare a vedere dove suonano il rap e fanno i concerti nei pub. Voglio sbronzarmi di birra e conoscere le donne che fanno l’amore vero. Io voglio inventarmi una vita nuova ogni giorno..” diceva il ragazzino, prendendo la sigaretta che Bobo gli offriva. Ed alzandosi di scatto. Una macchina all’orizzonte. Un Porsche. Rallentava. Il ragazzo faceva un gesto. La donna al volante gli faceva segno di salire. Il ragazzo si girava verso Bobo e gli batteva una mano sulla spalla. “Hey, magari quando ho girato vengo a cercarti ancora.Tanto se stai diventando un grande, sentirò parlare di te..” Bobo lasciò cadere la cenere con un cenno della mano. E gli sorrise dandogli un buffetto sui capelli.
Poi si girò verso le colline. Era sbucato fuori il tramonto. Sentì l’auto partire con una sgommata. Di colpo, si ricordò di quell’uomo dai capelli grigi che aveva incontrato andandosene via, più di trent’anni fa. Un uomo che gli aveva raccontato storie di viaggi ed avventure che avevano dell’incantato, quasi racconti da milledunanotte in oriente, nell’Africanera fra i safari, in Australia fra i coccodrilli, da sopravvissuti nuotando nei triangoli delle Bermude: un uomo partito ancora ragazzo nel dopoguerra con una stecca di Lucky Strike regalo degli americani sbarcati a salvarci e che non aveva voglia di sorbirsi tutta la ricostruzione dal referendum in poi e se n’era andato a inseguire la sua America. Ricordò quanto l’aveva colpito con i suoi racconti di terre straniere piene di promesse. Un uomo che parlava di vecchio jazz ormai finito e sax senza più fiato e non aveva voglia che di dare un’occhiata al vecchio villaggio dove il tempo non passava mai e poi forse ripartire. Un uomo che diceva di aver fortuna altrove e lui gli credeva e sognava di ripetere il suo exploit.
Bobo riprese a camminare verso il villaggio. Si lasciò alle spalle polvere e strade, erba e piccole case ai piedi della collina. Forse andava cercare il vecchio cimitero per parlare con qualcuno, forse con quel fratello che fra un pestaggio e l’altro coi neri alla fine ci aveva rimesso le penne sul serio e chissà quante volte l’aveva stramaledetto per non averlo voluto seguire nelle sue crociate ideologiche, lui e la sua chitarra. E allungando il passo, gli venne da sorridere. Da pensare che non ce l’aveva fatta a dire al ragazzino che lui non era diventato producer per niente. Ed era rimasto illuso e idealista, sognatore fino allo stremo, a far la fame nei pub, arrangiarsi con qualche cachet balordo e sperare nella generosità delle sue donne e farsi di birra o whisky quando poteva ma tanto c’era la musica e la vita on the road. E forse, a forza di girare l’Europa, gli era quasi presa la voglia di trovarsi una casa in collina e tornarsene lì nel vecchio villaggio a cercarsi una donna tranquilla che ascoltasse le sue lunghe storie e lo amasse per com’era, senza dover sempre inventare balle per farsi più grande. E ricordò quell’uomo di tanti anni fa che poi chissà dov’era finito, chissà se era tornato a girare il mondo sognando altri sax che resuscitassero il jazz. E pensò al ragazzino che stava appena per spiccare il volo verso il mondo, pieno di speranze.
E mentre stava per spuntare buio e cominciava ad apparire l’ombra del vecchio villaggio, continuava a ripetersi quant’e strana la vita ed hai voglia a girare il mondo. Prima o poi, chissà perché, hai sempre l’impressione di aver incontrato te stesso.

© Patricia Wolf





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