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Il mostro
di Cinzia Baldini
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L’intricato reticolo di rughe intorno agli occhi del vecchio Turi il pescatore non rende meno vivace il suo sguardo. Dipanandolo ne uscirebbe il film della sua lunga vita.

Le iridi scure scrutano attente il paesaggio: il bruno profilo delle colline in lontananza, la ripida scogliera a picco sul mare, la manciata di case imbiancate a calce del minuscolo borgo natio: nulla è cambiato dal giorno precedente.

Rassicurato, si siede poggiando il bastone che lo sorregge accanto a sé. Ormai avanti negli anni, con i reumatismi e l’artrosi che lo perseguitano, non affronta più il mare, ma sbriga compiti poco gravosi e utili alla ristretta comunità cui appartiene.

Mentre gli uomini riposano dopo la nottata di pesca e le donne sono affaccendate nei lavori domestici, ripara le reti danneggiate dall’usura e dall’inquinamento del fondale marino.

Il vociare concitato di alcuni bagnanti che, facendo capannello, additano un punto ben definito sulle acque tranquille, richiama la sua attenzione.

Alza il viso e guardando nella direzione indicata riconosce immediatamente il leviatano che, alla deriva, altalenando a pelo d’acqua, si avvicina alla spiaggia.

Un leggero tremore gli scuote le mani.

Non è una creatura di madre natura quella che affiora, ma uno strumento di morte partorito dalla parte più insana della mente dell’uomo.

La mina antinave, arrugginita e inesplosa, portata in superficie, con ogni probabilità, dalla mareggiata che di recente ha flagellato il litorale, galleggia incurante del terrore che provoca la sua scomoda presenza.

Non è un evento raro.

Quel tratto di costa, infatti, è stato un tragico scenario bellico e non di rado tali micidiali ordigni vengono casualmente riesumati dai loro sepolcri subacquei.

Qualcuno ha chiamato le forze dell’ordine che, prontamente intervenute, allontanano i curiosi nell’attesa degli artificieri.

La Capitaneria di Porto, con una motovedetta, tiene a bada il mostro affinché non si avvicini troppo alla riva.

Il ritrovamento richiama alla mente dell’anziano pescatore ricordi indesiderati. Memorie tragiche che non è mai riuscito a seppellire sul fondo del mare.

La sedia impagliata scricchiola alla pressione esercitata dal suo vecchio corpo irrigidito che cerca la spalliera. Un lamento stridulo che ne precede lo sfogo liberatorio.

«Dannata guerra» inveisce, pungolato dall’amarezza «non ne hai mai abbastanza!»

Il secondo grande conflitto bellico, infatti, l’ha privato di tutto ciò che di più caro aveva al mondo e la dolorosa rievocazione affluisce insieme all’alta marea.

 “Ricordo perfettamente quell’anno maledetto” rimugina, stringendo con insospettato vigore le ossute nocche sull’ago a navetta rischiando di spezzarlo.

“La primavera, ignara di ciò che gli uomini tramavano nell’ombra degli altezzosi palazzi del potere, stava per cedere all’assiduo corteggiamento dell’estate quando arrivò l’annuncio della dichiarazione di guerra.

La notizia, diffusa da radio e giornali che ne esaltavano l’importanza politica e ne affermavano la necessità sociale, aveva gelato le aspettative di tutti coloro che, come me, coltivavano la speranza di una risoluzione diplomatica e pacifica dei contrasti sorti tra le varie nazioni.

Ero atterrito dalle prospettive future, nauseato da chi, avendo smarrito la ragione, plaudiva a tale folle epilogo e deluso dai vertici istituzionali mondiali che non si adoperavano, come avrebbero umanamente dovuto e come avrebbero richiesto i loro ruoli, per evitare una catastrofe dagli sviluppi imponderabili.

I politici, manipolando secondo convenienza dati e notizie e irretendo con discorsi ipocriti e fasulli l’opinione pubblica, assicuravano la scorta di “carne da macello” da gettare nei mortali ingranaggi del conflitto.

Furono giorni di pazzia omicida collettiva che si trasformarono in interminabili anni di terrore e dolore.

Ero un adolescente e nella mia innocenza non mi capacitavo del perché si profondessero tanto impegno e risorse economiche per trasformare il Mondo in un grande cimitero.

Avevo compreso, però, che alla base di tutto c’era la massificazione delle coscienze verso il disprezzo di qualsiasi sentimento positivo. La fratellanza, il rispetto, l’amore, la solidarietà, erano soverchiati dal fuoco fatuo delle ideologie che fomentavano l’interminabile quanto inutile sterminio.

La zoppia congenita, che avevo sempre considerato una disgrazia, mi trasformò in un privilegiato dalla sorte allorché fui riformato.

Per effetto della disabilità non sarei stato costretto a imbracciare un fucile con cui fare fuoco su una divisa diversa da quella che avrei indossato io, ad uccidere uomini che non mi avevano fatto nulla o a dilaniare, con la baionetta, altre carni come le mie.

La penitenza che il genere umano si stava infliggendo era il frutto di una società malata che, per gli interessi economici di pochi e l’egoismo e la miopia di molti, ripiegata su se stessa e, a passo di parata, marciava verso l’autodistruzione.

Più la guerra impazzava, più mi rifugiavo tra le onde. Uscivo all’alba con la piccola barca a remi, sistemavo le nasse, calavo la rete e, scarrocciando o all’ancora, pescavo con il bolentino a mano e rientravo al tramonto oppure remavo come un forsennato, rimanendo sotto costa, fin quando le braccia non avevano più forza. Poi, mi lasciavo cullare, in quel piccolo guscio, per ore.

Non appena rimettevo piede sulla terraferma, mi assaliva la disperazione.

Il desiderio di pace, di ridare alla vita il suo giusto valore, di un mondo nuovo più tollerante e meno egoista, era spazzato via dal susseguirsi di eventi nefasti.

Di uno, in particolare, serberò la memoria finché avrò vita.

Rammento ogni dettaglio, ogni minuzia di quel giorno. Dai colori delicatamente sfumati di rosa, d’arancio, di viola, di giallo, alla quiete con cui era sorto.

Tutto appariva tranquillo mentre arrancavo sulla strada con la bicicletta equipaggiata di ceste per vendere il pescato. Mi recavo cittadina limitrofa, dove era giornata di mercato. 

La catena della bicicletta fuoriuscita dalla sua sede mi aveva costretto ad una sosta forzata. Se volevo proseguire, dovevo aggiustarla e così feci. Finalmente, sudato e arrabbiato rimontai in sella, totalmente ignaro che il contrattempo mi avrebbe salvato la vita.

Appena giunsi in città, udii il rumore basso e cupo dei motori dei bombardieri nemici. Erano tanti e in formazione d’attacco. Quasi contemporaneamente, il lamento sinistro delle sirene per l’allarme aereo avvisava la popolazione del bombardamento imminente.

Il conto non mi tornava.

L’allarme era stato lanciato troppo tardi e la gente, terrorizzata, non avrebbe fatto in tempo a stiparsi nei rifugi sotterranei.

Quando iniziò l’attacco, infatti, molti erano ancora in strada, nelle abitazioni o nei luoghi di lavoro.

Il sangue mi si raggelò nelle vene. Terrorizzato, con i primi sibili che laceravano l’aria e le deflagrazioni che scuotevano la terra, mi nascosi alla meglio.

Dopo quella che parve un’eternità, il frastuono del bombardamento iniziò a diminuire e, quando, anche le esplosioni ravvicinate e terrificanti cessarono del tutto, uscii all’aperto. In un torpore innaturale, mi diressi verso la stazione, la zona in cui si sarebbe svolto il mercato.

Mi accolse uno scenario apocalittico e il silenzio che mi aveva accompagnato fino a quel momento fu spezzato dai rantoli di agonia dei moribondi, dai lamenti e dalle grida di aiuto dei feriti, dalle urla di disperazione dei pochi sopravvissuti alle quali presto si aggiunsero l’ululato delle sirene delle ambulanze e le voci concitate dei soccorritori.

Era stato un attacco improvviso dicevano alcuni, era colpa di un errore umano insinuavano altri, un guasto tecnico giustificavano altri ancora e così, mentre si rimpallavano accuse e responsabilità, con i pochi “graziati”, ci aggiravamo tra le macerie di quella mattanza dalle proporzioni enormi che, nemmeno nei più tremendi incubi, avrei saputo immaginare.

La stazione non esisteva più.

Al suo posto c’era una gigantesca voragine fumante e, all’intorno, in quello che una volta era stato un quartiere brulicante di vita e attività, solo carrelli di treni, mura di case, corpi straziati, metalli fusi, calcinacci, macerie, polvere e odore di sangue e di morte ovunque…

Inginocchiato sulla rena, ignorando come o quando ero tornato a casa, fissavo il mare e, mentre con il dorso della mano asciugavo le lacrime che, incontrollabili, scendevano sul viso, mi chiedevo perché fossi rimasto vivo. Perché proprio io tra tutte quelle madri o quei bimbi innocenti? Perché la guerra?

Non seppi rispondere allora e non saprei farlo nemmeno oggi.

I giorni a venire non furono migliori.

Con la Morte che spadroneggiava incontrastata, cercavamo di sopravvivere, consapevoli di assistere alla fine di un’epoca.

Il tragico bombardamento aveva disintegrato la linea del fronte, così si combatteva ovunque.

Piccole scaramucce, agguati mortali e stragi orribili si susseguivano senza sosta contro un invasore crudele e spietato.

Sul versante opposto, sevizie, torture, abusi, violenze e rappresaglie raccapriccianti condite da un odio che nulla aveva di umano, erano riservate anche alla popolazione inerme e sfiancata dalla fame e dai lutti.

La guerra volteggiava sulle nostre teste come un famelico avvoltoio e, vorace e insaziabile, si prese anche le vite dei miei genitori, la mia famiglia, i miei unici affetti…

Era quasi autunno e una brezza leggera spazzava la costa.

Con il vento a favore remavo pigramente e osservavo, senza vederla, la scia bianca e frizzante che lasciavo dietro di me.

L’aria era satura di aspettativa.

Il conflitto era a una svolta.

Quando arrivò il comunicato ufficiale che l’armistizio era stato firmato, nessuno quasi ci credeva più.

Mi convinsi che la guerra era davvero finita, solo quando giunse dalla canonica un festoso scampanellio e dal lungomare il vociare dei compaesani che vi si erano riversati.

Dal giorno successivo, dopo aver pianto i nostri morti, ci rimboccammo le maniche e, sostenendoci reciprocamente, cominciammo a ricostruire il paese semidistrutto.

Fu un dopoguerra pervaso da un fermento inarrestabile in cui riscoprimmo l’importanza e il valore di essere uniti, di considerarci fratelli.

Accomunati dalla voglia di dimenticare, ritrovammo le usanze, i costumi e le antiche tradizioni, cancellate dalle ostilità.

Turi, il vecchio pescatore, segue con gli occhi lucidi le operazioni con cui gli artificieri prendono in carico il mostro per farlo brillare in sicurezza. 

«Il seme della guerra è sparso ovunque e non teme siccità né alluvioni. Appena trova un terreno fertile in cui attecchire, come la gramigna, germoglia rigoglioso. Non esistono erbicidi che ne possano impedire la crescita infestante; solo la volontà, la coesione e la determinazione di una società matura e civile possono estirparne le radici e farlo estinguere dalla faccia della terra. A noi la scelta di trasformare il mondo in un giardino lussureggiante o in un arido deserto» considera ad alta voce.

Nessuno raccoglie le sue parole.

Il gruppetto di curiosi, infatti, passato il panico iniziale e felice del diversivo di cui è stato testimone, è ora alle prese con la gara di velocità a chi riuscirà a mostrare per primo, ai propri contatti in rete, il considerevole bottino di scatti appena salvati nelle algide memorie tecnologiche dei loro cellulari…

© Cinzia Baldini





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