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Criiick… craaack… criiick… craaack… Gli intrecci di vimini della vecchia sedia a dondolo, consumati dall’uso, accompagnano con stridii lamentosi il cullante andirivieni dell’esile figura distesa su di essa. Con gli occhi chiusi e le mani abbandonate in grembo, sembra pesantemente assopita, ma è solo un riposo apparente, come transitorio è il buio e tutto ciò che si trova in quella stanza dove, persino il tempo è relativo. Infatti, poco dopo, la figura si alza stiracchiandosi per sgranchire le ossa intorpidite dal momento di stallo. Si avvicina alla finestra ed osserva la notte. Dalle imposte prive di vetri, una folata di vento gelido la investe, scacciando per un momento l’olezzo dolciastro che impregna l’ambiente. Lei ne è eccitata. Nella proiezione riveduta e corretta appositamente per gli uomini, la casa è un grazioso villino in stile rustico con la facciata in pietra e la veranda che si affaccia sul giardino, al centro di un trafficatissimo bivio. Nella cruda realtà è un fatiscente, antico maniero, inerpicato sulla cima di una collina e interdetto alla vista dai rovi e dai cespugli che, nel tempo, lo hanno colonizzato. Lontanissimo dal primo nucleo abitato. La figura non ricorda di aver vissuto altrove, probabilmente quella è sempre stata la sua dimora. «Ho ben altri conti da far quadrare che perdere tempo dietro a tali amenità!», si ammonisce, scacciando indispettita, con le mani scheletriche, una mosca che le ronza intorno. E’ vero, quel cumulo di macerie avrebbe bisogno di una ristrutturazione radicale, anzi, proprio di essere riedificato dalle fondamenta, ma lei è talmente presa dal lavoro che la costringe ogni giorno in un luogo diverso, da non trovare il tempo per prendere accordi con un’impresa di manutenzioni. «Già il tempo…» sospira, massaggiandosi le tempie. «Quel galantuomo del mio gemello!» gracchia ironicamente. «Non riesco mai ad incontrarlo! Quando io arrivo, lui sparisce. Inutile rincorrerlo!» aggiunge, con una smorfia vagamente somigliante ad un sorriso. «Vado a mettermi gli abiti adatti. Il lavoro mi attende» dice, sparendo oltre un muro scrostato sul quale è appesa, sbilenca, la cornice vuota di uno specchio. Un mix di profumi esotici la precede mentre riappare. Un leggero velo di ombretto sulle palpebre, la matita che le sottolinea gli occhi e le ombreggia le ciglia scure e folte, le labbra scarlatte e i lisci capelli corvini che scendono fino alla vita, il corpo sinuoso avvolto in un tubino nero, la rendono desiderabile, seducente, provocante. Si avvolge nel mantello liso e sbiadito che stride nettamente con il resto dell’abbigliamento, afferra la borsetta e in equilibrio sugli alti tacchi, si avvia sculettante come una… donna fatale. Attraverso viali polverosi, strade strette e poco illuminate, sentieri impraticabili e scorciatoie note solo a lei, raggiunge la temporanea sede del suo lavoro… Il luogo dov’è giunta è nuovo, non c’era mai stata prima. Alza le spalle, sa che, presto, la sua presenza lo uniformerà agli altri posti da lei visitati. C’è un uomo fermo ad un semaforo. «E’ puntuale» ghigna soddisfatta. Ancheggiando sensualmente ne richiama l’attenzione e quello, distratto, passa con il rosso… Attraverso le orbite vuote, osserva con distacco il capannello di gente che si sta formando al centro della strada e sente la sirena dell’ambulanza che si avvicina. «Non c’è più niente da fare», dichiara il soccorritore sollevando le mani guantate in segno di impotenza, all’indirizzo del barelliere. Annuisce soddisfatta, conosceva già l’esito del suo lavoro senza bisogno della conferma ufficiale. Indifferente a ciò che si lascia alle spalle, celata sotto l’ampio mantello nero si allontana e, rapida, trasforma di nuovo il suo aspetto. Oggi è un microrganismo piccolissimo, un virus invisibile, dall’enorme potenza letale. Il minuscolo parassita le porterà un sovraccarico di lavoro, solo di poco inferiore a quello della guerra. Si frega le mani godendo della stupidità dell’uomo che in tanti secoli non ha mai imparato dai suoi errori e le ha permesso di non rimanere inoccupata. «Per fortuna sono le epidemie e i conflitti che ricordano a tutti che ci sono e che esisto. L’evoluzione ipocrita che si nutre di idee di superiorità, le convinzioni fasulle di invincibilità, gli individualismi isterici di questa società “civile” tendono a sottovalutarmi, a emarginarmi con bugie rasserenanti o rappresentazioni d’immortalità. Poveri illusi! Io non guardo in faccia nessuno, davanti a me sono tutti uguali. Nell’universo comando io e questa è l’unica verità. Accettatela e rassegnatevi e lasciatemi compiere il lavoro per cui sono stata creata, sono la sola a poterlo fare…» ammette, digrignando le mandibole scarnificate. “…Eppure non è sempre stato così”. Riflette. “In un’epoca lontana, io e mio fratello, il Tempo, non eravamo stati ancora separati…”. Una sensazione sconosciuta si espande tra le costole spolpate, lì dove i corpi viventi hanno il cuore. E’ spiazzata. Ma è uno stordimento di qualche istante. Con un lugubre scricchiolio di ossa scrolla il teschio scuoiato. Lei non può avere esitazioni. Lei è la Morte! Una macchina perfetta e implacabile. Messa a punto e rodata da millenni, non programmata per avere debolezze. Deve tornare al lavoro. Ieri, adornandosi delle loro stesse bandiere, affondava la falce nel sangue dei rivoluzionari che invocavano la libertà combattendo la tirannide. Domani, lacerandosi le vesti, sarà la carestia e, incurante della fatica, riempirà la terra di fosse comuni. Ieri, oggi, domani… Per sempre! Siederà al tavolo della roulette. Accetterà le scommesse, controllerà la liceità delle puntate e pagherà vincite illusorie. Sedurrà gli uomini convincendoli di poter sbancare il casinò, ma la roulette è truccata e lei ne è la croupier. Puntare le fiches sul rosso o sul nero non servirà, torneranno tutte al suo banco. Poiché la Nera Signora è la proprietaria del casinò e noi, i giocatori, non svendiamo la vita, ritorniamo eticamente umani prima che essa dichiari: «Les jeux sont faits, rien ne va plus». -I giochi sono fatti, non si può più fare alcuna puntata-.
©
Cinzia Baldini
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