Si svegliò dal sonno di colpo, come se qualcuno l’avesse chiamata per nome. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza e concluse che non era così, non c’era nessuno a parte lei. Aggiustò la testa sul guanciale, con un vago sospiro soddisfatto. Le coperte le pesavano sul corpo, ma era una sensazione piacevole. C’era un certo tepore raccolto, che la avvolgeva e le dava conforto. Osservò la finestra, riquadro di cruda luce solare attenuata da pesanti tendaggi, e le palpebre le si chiusero.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quando aprì di nuovo gli occhi. Non le sembrava di aver dormito, ma neppure di essere rimasta sveglia. La luce del sole, comunque, aveva ancora la stessa intensità. Alzò il capo, e concesse alla stanza una lunga occhiata di valutazione. A ridosso della parete di sinistra c’erano una cassettiera di legno scuro, e subito dopo una porta chiusa. La parete di fronte era occupata da un grande armadio color crema, alto fin quasi al soffitto. A destra c’erano la finestra e una sedia bassa rivestita di stoffa, con sopra una pila di capi di vestiario che sembravano stirati di fresco.
Tornò ad appoggiare la testa sul cuscino, guardando senza vederlo il lampadario in vetro scuro sul soffitto, e rifletté. Non era mai stata in quel posto, prima. Un acuto senso di disagio iniziò a montarle dentro. Più emergeva dal dormiveglia, più la permanenza in quel luogo sconosciuto le sembrava sbagliata. Quella non era casa sua. E non c’era solo quello, ad allarmarla. La sua visione del mondo era filtrata da un’impalpabile patina lattiginosa, che nascondeva i contorni delle cose. Non le impediva di vedere e ascoltare, eppure rendeva impossibile cogliere l’essenza della realtà.
Si agitò nel letto, cercando di scostare le coperte, ma con suo grande stupore si accorse di non poterlo fare. Braccia e gambe sembravano paralizzate. Non era così, perché le sentiva muoversi, ma la sensazione era quella. Iniziò a divincolarsi e spingere, finché non riuscì ad afferrare il lenzuolo con le dita, e poco alla volta a farlo scivolare verso il basso.
Quando arrivò a scoprire le mani, dopo uno sforzo che le parve enorme, l’inquietudine esplose in autentica angoscia. Era legata. I polsi erano avvolti da due spesse fasce bianche, che scomparivano ai lati del materasso. Non poteva sollevare le braccia più di qualche centimetro, e anche se non vedeva i piedi intuiva che erano bloccati allo stesso modo. Si dimenò, lottando contro i lacci, ma senza risultato. Alla fine si accasciò, ansimante e sconfitta. Il velo biancastro mutava e scivolava seguendo i movimenti dei suoi occhi, adattandosi come un sudario sulla salma. Se non poteva liberarsi, doveva almeno riuscire a capire come aveva fatto a finire lì.
In un impeto di panico, si rese conto di non ricordare neppure il proprio nome. Provò e riprovò, ma il velo sembrava esteso anche alla memoria. Sapeva di avere una figlia piccola e un marito, sapeva di dover tornare da loro perchè avevano bisogno di lei, ma non riusciva ad andare oltre.
Tra l’assurdità della situazione, e le difficoltà a mettere ordine nei pensieri, le venne la certezza di essere stata drogata. Da chi? Ma dai suoi rapitori, no? Quelli che l’avevano assicurata al letto, e che ora la tenevano prigioniera per motivi a lei ignoti. Strattonò i legacci, col solo risultato di farsi male alla pelle, e si morse con forza il labbro inferiore, come se il dolore potesse aiutarla a razionalizzare la situazione. Pensò di mettersi a urlare, ma avrebbero potuto sentirla le persone sbagliate. Molto meglio il silenzio.
Si impose di respirare con calma, di restare indifferente alla paura, e la cosa sembrò funzionare. Il velo perse consistenza, ed emersero dei ricordi. Erano vaghi e frammentari, ma sempre meglio di niente.
Per primo apparve un nome, Valeria. Il nome portò con sé un’immagine, racchiusa in uno specchio ovale. Era il volto di una donna sulla trentina, occhi chiari, lunghi capelli scuri scalati alle spalle. Si stava aggiustando il trucco, e la sua bocca si muoveva. Stava parlando con qualcuno. Senza sapere come, le fu chiaro al di là di ogni dubbio che Valeria, quella donna, era lei stessa. Rimase incantata a guardarsi, cullando la figura nella mente come un fragile tesoro. Gli occhi, verdi e vitali, strappavano barbagli di luce, e le labbra si aprivano spesso in un sorriso, rivelando denti perfetti. Solo il naso, adunco e simile al becco di un rapace, intaccava appena quella bellezza.
Un nuovo nome fece dilatare il velo e lo trapassò, affiorando alla sua consapevolezza. Isabella. Un brivido di aspettativa la percorse come una scossa elettrica. Quello era un indizio importante. Continuò a rimirare il proprio viso, ne studiò i movimenti e le smorfie, sperando rivelasse un altro collegamento. Alla fine, il collegamento arrivò. La Valeria nello specchio si spostò a sinistra, e alle sue spalle comparve una bambina. Doveva avere una decina d’anni. Sedeva composta su uno sgabello di legno, indossava un elegante vestitino bianco a pallini rosa, e sembrava il suo ritratto in miniatura. Solo gli occhi erano diversi, neri e luccicanti come more mature.
Era lei, Isabella. La vide ridere, coprendosi la bocca da autentica signorina, e poi rispondere a una domanda della mamma, gesticolando con aria fintamente esasperata. Lacrime silenziose le corsero lungo le guance, e lei le cercò con la lingua, ne assaggiò il calore salato. Isabella era la sua bambina. Si dimenò nel letto, nella solitudine della stanza. Che posto era quello? Dov’era sua figlia? Le avevano fatto del male? Pregava di no, se le fosse accaduto qualcosa sarebbe morta.
Ora il terrore non era più controllabile, le montava dentro in lunghe ondate brucianti, che le percorrevano il corpo con spasmi dolorosi. Non poté trattenersi. Gridò, suoni spezzati e disarticolati di disperazione.
Ci fu lo scatto di un meccanismo, la porta si aprì, e un’anziana signora entrò nella stanza, reggendo un bicchiere pieno di liquido trasparente. Doveva aver passato da parecchio la settantina, si muoveva con la calma prudente di chi inizia a perdere la sicurezza nei propri gesti. Si accostò al letto, sedette, e si mise a parlare. Lei si zittì e la scrutò, confusa. Doveva trattarsi di una lingua straniera, non capiva una parola. Ispezionò quel volto solcato dalle rughe, quelle labbra vizze che si muovevano emettendo suoni incomprensibili, e capì solo che si trattava di una persona buona. Forse poteva aiutarla.
L’anziana infilò una cannuccia nel bicchiere e glielo porse, sollevandole con delicatezza la testa perché potesse bere. Valeria succhiò dapprima con diffidenza, poi sempre più avidamente, ristorandosi alla frescura dell’acqua. Placata la sua sete, la vecchia le risistemò le lenzuola. Lei scosse i lacci, guardandola con aria di supplica. La donna fece un cenno di diniego, le parlò con voce suadente, ma Valeria non si arrese. Cominciò a piangere, tirando le corde, e negli occhi dell’altra lesse autentica commozione.
La vecchia sconosciuta parve capitolare. Sciolse con destrezza i lacci di velcro che le stringevano i polsi, fece scivolare in basso le lenzuola ripetendo il gesto con quelli delle caviglie, e Valeria fu libera. Le ci volle un aiuto notevole, per tirarsi a sedere. Il velo sembrava avvolgerle anche le membra, togliendole le forze, ma tirando e sbuffando alla fine ce la fecero. Una volta sedute una di fianco all’altra, la vecchia l’abbracciò. Era un atto affettuoso, e Valeria gliene fu riconoscente quasi quanto per averla liberata. Fece capire alla donna che aveva intenzione di alzarsi, e lei le infilò di buon grado un paio di pantofole scure. In capo a pochi secondi fu in piedi, la stanza che le piroettava attorno in una vertigine improvvisa. L’anziana le porse il braccio, attese che si sentisse sicura, quindi la guidò in direzione della porta. I primi due passi furono strascicati, come avesse perso l’abitudine a camminare, poi divenne più sicura. Si sentì colmare di un’assurda felicità. Stava fuggendo da quel luogo ignoto, tornava a casa dalla sua famiglia, avrebbe potuto riabbracciare Isabella. Sembrava che il cuore potesse esploderle per la gioia.
Raggiunsero il cassettone. Valeria si girò, quasi per caso, e si bloccò come pietrificata. Sopra il mobile c’era una cornice di legno, un’altra finestra che prima non aveva notato, e dai vetri le sorvegliavano due signore attempate. Spalancò la bocca per lo stupore. Non era una finestra, era uno specchio. Fece un passo incerto e si appoggiò alla cassettiera, rimirandosi. Se la donna che l’aveva slegata aveva passato la settantina, lei doveva essere sulla discesa che l’avrebbe condotta al secolo di vita. La faccia era una ragnatela di grinze. I capelli, appiccicati in ciocche scomposte ai lati della testa, erano radi e bianchi come la neve, e la pelle sembrava pencolare dappertutto, vinta dalla forza di gravità. Si volse tremando verso la sconosciuta, senza sapere che domande fare, ma risoluta a farle lo stesso. In quell’istante il velo si dissolse, e lei seppe.
«Isabella?», mormorò, la voce arrochita dai troppi silenzi.
La donna sorrise, ma era un sorriso triste. Le ravviò i capelli, annuendo.
«Sì, mamma, sono io.»
«Ti sei fatta vecchia.»
Isabella rise tra le lacrime.
«Il tempo passa per tutti. Ti voglio bene, mamma.»
«Ti voglio bene anch’io, cara.»
Per un istante si sentì colmare da una splendida rivelazione, la camera attorno a lei le sembrò acquisire contorni familiari, poi tutto si spense. Guardò Isabella, le afferrò le mani, gliele strinse con forza.
«Voglio tornare da mia figlia», implorò, piagnucolando. «Mi hanno rapita, mi aiuti.»
Non capì la risposta. Il velo impietoso calò, e ancora una volta ne venne sepolta.