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La fine. Amburgo 1943
di Hans Erich Nossack
Pubblicato su SITO


Anno 2005- Il Mulino, Bologna
Prezzo € 9- 102pp.
ISBN 2147483647

Una recensione di Luca Bidoli
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La fine. Amburgo 1943

Introduzione di Gabriella Gribaudi, traduzione dal tedesco di Biagio Forino (ed.orig.: Der Untergang, I ed. Hamburg, Wolfgang Kruger Verlag GMBH, 1948)

Non è mai tutto e subito, l’orrore. Certo, all’inizio vi sono sentimenti e stati d’animo diversi, ci sono la paura, lo choc, l’apatia, l’ira, la rassegnazione. Ma non l’orrore, non ancora quel senso della totale e irreversibile fine, non subito almeno la percezione che qualcosa si è infranto e per sempre, che nulla più potrà essere come prima. L'orrore è uno spazio che si crea nella distanza, agisce su di essa e di essa si nutre. Nei primi momenti vi sono reazioni apparentemente strane e stranianti, come se fosse tutto terribilmente naturale, come se la desertificazione di un’intera città tedesca, rasa al suolo dai bombardamenti alleati alla fine di luglio del 1943, rientrasse comunque nell’ordine immateriale del creato, come se interi quartieri, con i loro abitanti, animali, strade, parchi, fontane, chiese, potessero da un attimo all’altro non essere che polvere e macerie, risultato sancito di una sorta di terribile punizione, contro la quale il singolo non può nulla. L’orrore, del resto, non necessita di eccessive spiegazioni ed elucubrazioni: è, esiste e null’altro vi è attorno. La parola naufraga nelle sue vicinanze, si fa brandello, inutilizzabile. “ Ho vissuto la fine di Amburgo da spettatore. Il destino mi ha risparmiato dall’avere un ruolo diretto nel disastro. Non so perché, e nemmeno è facile stabilire se devo considerarlo un privilegio” ( pag.31). Solo i sopravvissuti sanno realmente cos’è l’orrore. Hanno la percezione netta della distanza che li separa sia dai morti, sia da coloro che non sanno, che non c’erano. Una distanza che è e si fa salvezza e, al tempo stesso, limite, impossibilità. I testimoni, del resto, portano, indelebile, un marchio astratto che si fa piaga nelle loro carni. E’ quel loro essere carne e coscienza, mentre altrove, intorno, si fa silenzio e si rimuovono emozioni e macerie, parallelamente.
Ecco, questo libro è una sorta di cronaca- una tra le prime, tra le pochissime- di quel deserto, di un viaggio al termine sì di una notte, ma illuminata a giorno dai bengala, dalle bombe, dagli incendi. Un deserto reso raccapricciante dai resti delle abitazioni, dai corpi, dal silenzio delle cose e dentro le cose. Hans Erich Nossack ( 1901-1977), scrittore e poeta, vede la combustione fisica, materiale della sua città da un piccolo villaggio nella brughiera, a pochi chilometri di distanza dal confine cittadino: lo immaginiamo, dalle sue descrizioni, persino idilliaco questo luogo immerso nel verde, questa sponda superstite sull’abisso, con le sue casette nascoste dalle betulle, tra boschetti di pino e le colline, lontane, da dove, nelle giornate più limpide, si potevano distinguere le torri campanarie della città. Alcune pagine, del resto, alcune vivide descrizioni ed immagini, ci hanno rimandato ad altre, come spesso accade, e, tra le possibili, a quelle di Ernst Jünger, allo scrittore di Sulle scogliere di marmo. Solo che qui il terribile Forestaro, il devastante Moloch distruttore si impersona nel “(…) rombo di 1.800 apparecchi che si avvicinavano ad Amburgo da sud ad altezze inimmaginabili. Avevamo già fatto esperienza di duecento attacchi aerei e più, alcuni anche molto pesanti, ma stavolta era qualcosa di completamente nuovo. Ma capimmo all’istante: era ciò che ciascuno aveva atteso, ciò che incombeva da mesi su tutto quello che facevamo rendendoci esausti. Era la fine.” ( pag.38). Perché emerge con chiarezza e stupefacente compassione in una prosa di grande efficacia e cifra stilistica, questo sentire che il destino della propria città è, diviene, il proprio personale, individuale destino, in una dimensione non eroica, ma antica, primordiale, principio di devastazione davanti al quale gli uomini sono soggetti a forze lontane, assenti. Non vi è, in questo testo, nulla che possa in qualche modo arginare il dolore: anche ciò che prima era fonte di consolazione, di sola cura possibile, assume i tratti dell’intollerabile e l’uomo scopre, inattesa, la pietà verso ogni creatura. Forse è questo rimedio estremo, posto al limite della sopportazione, il solo lenimento possibile, momentaneo. “ Ma non era più il tempo –afferma l’autore- di tener conto di misere differenze, come quella tra amico e nemico. E d’un tratto tutto sembrò immerso nella luce lattiginosa degli inferi. Mi guardai intorno spaventato e vidi che persino la natura si era sollevata in odio contro a se stessa.” ( pag.42). La gente, le persone si trasformano, diventano assolute nella loro sofferenza, non vi è altro spazio possibile se non per la rappresentazione della loro condizione, estranei a tutto, fuorché al vuoto che li ha inghiottiti con una forza pneumatica che svuota ogni pensiero che sia o si faccia altro o altrove.” In quei giorni, se per caso ci capitava tra le mani un giornale, non correvamo mai a leggere i bollettini di guerra. Non capivamo nemmeno a cosa servisse continuare a pubblicarli. Andavamo subito alla pagina con le informazioni che riguardavano noi. Ciò che accadeva fuori di noi, semplicemente non esisteva.” ( pag.65).
Ed ancora, in una pagina estremamente illuminante, una delle chiavi per decifrare e capire, alla radice ultima, questo testo, leggiamo: “ E un’altra cosa: non ho sentito nemmeno una persona imprecare contro i nemici o attribuire a loro la colpa della distruzione. (…)Una visione delle cose molto più profonda ci impediva di pensare a un nemico che potesse aver causato tutto questo. Ai nostri occhi era anche lui tutt'al più uno strumento di potenze inconoscibili che desideravano annientarci.” ( pag.68). Ed alla fine, nella fine, all'interno del suo nucleo più autentico e devastante che si scopre che ciò che resta sono cumuli di morti, di tutti quei morti che finiscono per radicarsi dentro di noi e non se ne vogliono andare, perché altrimenti sarebbero morti per sempre e parte di noi con loro. Sono esigenti, i morti. Gli antichi lo sapevano: bisogna placarli e non basta il ricordo.
La Germania è ancora, come scriveva Brecht in una poesia famosa, una “pallida madre?” Forse, così come non è un caso che queste ed altre memorie, studi, documenti, immagini di quella ecatombe di città tedesche nella fase finale della seconda guerra mondiale, il cui nome comune collettivo è divenuto Dresda, stiano emergendo, ritornando prepotentemente alla superficie, con tutto il peso delle loro lacerazioni, dei loro conflitti, delle loro contraddizioni. Già un grandissimo scrittore, prematuramente scomparso, come W.G. Sebald nella sua splendida e , per molti versi, angosciante, Storia naturale della distruzione-tradotta in italiano da Ada Vigliani e pubblicata a Milano da Adelphi nel 2004- aveva saputo cogliere e mettere a nudo il paradosso di una rimozione collettiva, dove la distruzione delle città tedesche non aveva trovato posto nella coscienza collettiva della nazione.
“ Siamo tornati in strada e giochiamo con la Morte. Adesso il Tempo siede triste in un angolo e si sente inutile.” (pag. 101): scrive anche questo, nelle righe di conclusione Nossack. Ed è un lascito arduo da affrontare, perché Tempo e Morte, specie se hanno le iniziali maiuscole, non si accontentano solo delle dimenticanze e delle omissioni degli uomini. Ritornano, a tratti, nelle pieghe oscure di generazioni apparentemente lontane e distanti, con la necessità di capire, con quell'imperativo etico della memoria che lotta per farsi memoria nostra, accettata.


Una recensione di Luca Bidoli



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