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La perdita
di Manuela Fraire - Rossana Rossanda
Pubblicato su SITO


Anno 2004- BOLLATI BORINGHIERI
Prezzo € 6,50- 79pp.
ISBN 99788833918754

Una recensione di Katia Piccinini
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La perdita

L'esistenza? Suggere una goccia di miele da un ramo di rovi

 

Nel maggio scorso l'editore torinese pubblica "La perdita" con la curatela di Lea Melandri che offre a un più vasto pubblico - il testo uscì sulle pagine specialistiche della "Rivista di Psicologia Analitica" nel 2004 - un bello scambio di idee tra Manuela Fraire, psicoanalista e saggista, e Rossana Rossanda.

Il tema che ha dato occasione di confronto alle due donne è quello del "perdere e perdersi", e il costruirsi delle domande e delle risposte le une sulle altre e il procedere, assai ricco, per spunti e riflessioni di eterogenea natura ha, intenzionalmente, la forma del dialogo. E se nasce come dialogo a due per "pensare insieme" il "grado zero della perdita", la morte, già con la post-fazione della Melandri il dialogo si fa a tre voci che si ascoltano e si presuppongono senza ridursi a unico tono: tre differenti adagi su lutto e luttuosità. Va detto, però, che la Fraire e la Melandri restano, ancorché preziose, giusto "discrete accompagnatrici" delle parole della Rossanda perché la coralità, quella verità da sempre attribuita al coro, appare non nella composizione delle tre prospettive bensì nella sola voce della "ragazza del secolo scorso". C'è uno scarto che direi profondamente umano, politico, simbolico, rispetto alle due compresenti, che fa della voce della Rossanda quella protagonista e, in qualche modo, portatrice della verità, cioè della giusta misura sulla cosa. E proprio come il coro offre la visione più ampia e chiara perché umana, così gli interventi della pensatrice sono chiari, sodi e nobilmente umani: pensieri incarnati. Ciò a fronte di due discorsività di genere e, forse, un poco astratte e quindi unilaterali: da un lato, il discorso psicanalitico della Fraire che è colto e attento ma che paga alla scientificità una certa asetticità e la schematicità dell'"Io" e della "identità" come luogo unitario del senso, dall'altro l'intimismo del vissuto raccontato dalla Melandri che si dà come saggia, stoica quasi, comprensione serena dell'esistere e dell'"armonia di sensi e pensiero". Diverso il tenore della Rossanda che riconosce, e accetta, il "suo limite" che è quello di non essere persuasa dall'idea di assenza di conflitto (e dolore) nell'esistere né da quella di armonia tra uomini, dei e natura, e confessa la sua propensione a vedere nella perdita (di persone care, di occasioni, di passioni) un irrimediabile e non rimaneggiabile abbandono. Ciò perché la perdita mutila e non si rielabora mai del tutto; bisogna portarsi dietro le assenze, le morti, le parole spezzate facendo i conti con l'assottigliarsi del senso di resistenza vitale che rende, ogni mattina di più, difficile svegliarsi: «si può imparare a vivere senza l'altro, ma non è vero che si rielabori, nel senso che si superi, la perdita, il lutto... più vado avanti e meno so rielaborala». Certo, quando cerchiamo di portare "di pianto in ragione" la «sensazione che quasi tutto mi sfugge, del prima e del dopo», sentiamo che ogni cosa è al lavoro per la vita e che «qualcosa ti dice oscuramente "Adesso lo puoi fare"» ma non è la soluzione del sentimento luttuoso perché non si addomestica il pensiero della fine e non reggono strategie antimelanconiche (nemmeno la politica). Del resto, la vita è tragica, «di rara soluzione e attraverso molta perdita, e gli eventi non si compongono; la vita stessa è per essenza l'incomponibile di vita e di morte: «o vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega». Ed è come la tragedia greca che si chiude con la morte del protagonista, cioè non con la soluzione del dramma ma con la sua, spietata, eliminazione: «nella tragedia non c'è un dopo», non c'è alcuna resurrezione. Non c'è perdita se non c'è stato desiderio e sperare nella resurrezione dopo lo strappo significa sperare in una vita senza desiderio, cioè in una vita messa al riparo dalla perdita e dal trovarsi a stringere a vuoto a il vuoto. Ma «se rinasci farfalla desideri il nettare del fiore, se rinasci gatto desideri cibo e coccole» e va accettato il fatto che la morte esercita una incessante molatura della vita e la matura, «ahimè la concima».


Una recensione di Katia Piccinini



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