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La distanza da compiere
di Danilo Mandolini
Pubblicato su PBSR2006


Anno 2004- Edizioni L’Obliquo
Prezzo € 11- 76pp.

Una recensione di Norma Stramucci
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La distanza da compiere

Vengono espresse le impronte prima del loro accadere nel libro che, per le Edizioni L’Obliquo, pubblicato nel 2004, Danilo Mandolini intitola La distanza da compiere. E non potrebbe essere altrimenti per versi che si inerpicano per un sentiero dove il futuro è già passato, e dunque è possibile vi sia “spasmodica attesa” di quanto è già trascorso, in una concezione bergsoniana di un tempo che, nella sua oggettività non può che essere un’astrazione poiché, nel proprio sussulto, non va in una unica direzione ma addirittura ritorna in una “nuova attesa del dopo” in cui ritrovare persino “i ricordi di domani”.
E dunque, sulla scia dell’insegnamento heideggeriano di Essere e tempo, Danilo Mandolini concepisce il presente, il mero istante, come il tempo dell’inautenticità, della chiacchiera, dell’egemonia –lui chiaramente aggiunge- della mercificazione. Certamente Mandolini, presa coscienza della propria solitudine, sa che non è possibile fissare definitivamente il significato dell’esistenza umana, che per farlo sarebbe necessario conoscere la propria morte e la morte stessa della storia. Ma dal proprio orizzonte ha deciso di non escludere la morte, praticamente di essere-per-la-morte, considerata la sua ineluttabilità in un percorso che è appunto, la distanza da compiere.
E così, metaforicamente, compaiono nel libro tanti limiti, confini: una mattonella è il confine al quale si ferma il vento (pag.9); una spiaggia è “periferia orizzontale della terra” (pag.11); persino “il fondo” ha il suo limite e dal molo divide un “vetro appannato”(pag 16), una “battigia” nasconde il livello autentico dell’orizzonte; confine ai ricordi è “la bocca” (pag. 41), persino il mattino ha “l’orlo” (pag. 43), e “sacchi di sabbia” sono il limite per non sentire “il lamento acuto del mondo” (pag.49); limite ha “la sera” (pag 69). La metafora è rivelata senza alcuna ambiguità nei versi con i quali il libro si chiude: l’ultimo confine, e dunque “L’approdo” sarà “all’apertura di una porta bianca/ sui suoni sordi della piazza/ e sugli uomini che verranno.”
Rifuggendo però istintivamente la prigione di ogni categoria mentale, come Montale (già presente con il tema dell’assenza in Sul viso umano, Edizioni L’Obliquo, 2001) Danilo Mandolini cerca e nega la possibilità del varco, e nella consapevolezza che la vita è un “fragile delirio” (pag.25), che quello umano è “frenetico affanno” (pag. 59) vengono alla mente i celeberrimi versi di Gozzano: “Verrà da sé la cosa / vera chiamata Morte: / che giova ansimar forte / per l’erta faticosa?”, e nonostante i registri stilistici siano pressoché opposti, il “fronte” di Mandolini ancora rimanda a Gozzano: “il mondo: quella cosa tutta piena / di lotte e di commerci turbinosi…”, così come pure appare spontaneo il riferimento al Montale di Satura.
La frequenza di tutto Montale, come di altri poeti della nostra tradizione, è inoltre più volte con intenzionalità, dichiarata. E così si hanno espressioni come “tremando alla luce” (pag 48) che si ricollega al “trema la luce” del libro precedente e rimanda al Montale di “Cigola la carrucola nel pozzo”, come “abisso dell’aria” (pag 39) che fa pensare al Pascoli di “Vertigine”; si hanno parole come “parvenza” di evidente ispirazione sabiana, come il “seme”, che rimanda a Scataglini, come “erta” che richiama il D’annunzio di Alcione poiché a pag 21 si era ascoltato il “silenzio del mare” e ci si rammenta che in Sul viso umano si era letta l’espressione “chissà dove”…
Persino Pirandello è rintracciabile in questi versi e ancora di più in quelli di Sul viso umano (al quale questo nuovo libro è fuor di dubbio legato, e lo dimostra la lirica di pag. 36 dove ricompare il “profilo del viso”) e non tanto per termini come “maschera” (pag. 41) o “caos” (pag.28), quanto per l’idea quasi dell’inappartenenza dell’uomo a sé stesso; idea più che rappresentata in Sul viso umano, soprattutto nella splendida lirica dedicata a Francesco Scarabicchi (pag.32) che non può non far pensare alle meditazioni sulla propria forma del protagonista della novella “La carriola” oltre che alle parole di Moscarda in Uno, nessuno, centomila. Solamente che ne La distanza da compiere, Mandolini non ha neanche più bisogno di specchi…
Come del tutto interiorizzato e fatto proprio è quel Leopardi molto evidente nel precedente libro, e basti come esempio l’espressione “è già fango”. In La distanza da compiere il rapporto, ormai del tutto personalizzato, di Mandolini con Leopardi è esplicitato a pag 37 più che per mezzo della parola “quiete” con l’uso del termine “vecchiezza”.
Una scrittura pacata e misurata appare questa di Danilo Mandolini, quasi che la drammaticità dell’urgenza di esprimere, in una propria “analitica esistenziale”, la condizione dell’essere-nel-mondo potesse solo in tale modo risolversi. E rasserenata ne risulta persino l’angoscia. Heiddegger, certo, con i suoi esistenziali: il primo: l’essere-nel-mondo corrisponde all’essere-gettati-nel-mondo (“il peso non ricordato del nascere”, pag. 61); il secondo: l’autenticità fa vivere con quel distacco proprio solo di chi accetta il proprio essere-per-la-morte, consapevole di non dovere mai cedere alle illusioni, tuttalpiù a una minima speranza: “…che il rettangolo aperto per noi, / sul muro sconnesso che ci precede, / si chiuda sempre con poca forza / lasciando un sottile spiraglio / per i ricordi di domani.


Una recensione di Norma Stramucci



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