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Diary
di Chuck Palahniuk
Pubblicato su SITO
Anno
2004-
Mondadori
Prezzo €
15-
286pp.
ISBN
2147483647
Una recensione di
Simonetta De Bartolo
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Tradotto da Matteo Colombo per la Mondatori, Diary di Chuck Palahniuk ci coinvolge sempre più, man mano che si procede nella lettura. Misty Marie Kleinman, aspirante artista, sposa l’enigmatico e stravagante Peter Wilmot, conosciuto all’Accademia. Vanno a vivere a Waytansea Island, dove, inizialmente, “tutto era perfetto”, nella casa che Misty ha sempre sognato, “Il sogno borghese di una bimba bianca con le pezze al culo”. “Poi venne fuori che si era sbagliata”. Peter è certo che diverrà presto una pittrice, ma il destino di Misty sarà ben diverso. Chuck Palahnuk, scrittore statunitense, autore di Fight Club, da cui è stato tratto il film diretto da David Fincher, e di altre originali opere, sembra sia del parere che, nella vita, tutto sia prestabilito e nessuno possa sfuggire al proprio destino. Misty ci riuscirà?
In Diary ritroviamo la descrizione insistente di ambienti interni e del loro arredamento e la focalizzazione, in particolar modo, dei colori, che abbiamo incontrato in Ninna nanna (Mondatori, 2003) dello stesso autore; ritorna, leggermente affievolita, la paura dell’ecoterrorismo; persiste la critica del progresso, ancora più accentuata e più incentrata sulla contaminazione delle bellezze naturali, sulla disumanizzazione e sul materialismo, imperanti nella contemporanea società. La morte è intesa come ritorno alla bellezza originaria. Con la morte, attraverso il fuoco purificatore, sull’isola si perpetua il ciclo dell’eterna lotta tra spirito e materia. L’autore dà una particolare e intelligente interpretazione del mondo fenomenico e del mondo delle idee di Platone. Tra il fantasy, l’horror e il grottesco, coordinati da un delicato e costante bilanciamento delle parti, domina il sentimento materno della protagonista per Tabbi, “L’opera d’arte di Misty. Sua figlia”. Lo scrittore fa esplicitamente riferimento, rinviando a La psicologia dell’inconscio, a Carl Jung, il grande studioso che per primo ipotizzò l’esistenza di un inconscio collettivo. Diary è un penetrare nell’io per tirar fuori, come in seduta psicanalitica, le motivazioni del comportamento dei personaggi e, quindi, l’ossatura della stessa trama, “tutto ciò che facciamo è un autoritratto…, sei condannato ad essere te stesso”. Angel Delaport, il grafologo, un deus ex machina fallito, esamina la scrittura (una serie di minacce e avvertimenti non chiari che fanno paura) di Peter Wilmott apparsa sui muri delle abitazioni da lui ristrutturate, sui muri delle stanze che scompaiono. Dalla grafia si risale al carattere; se la si ricalca con un dito, dice Angel a Misty, si conosceranno il pensiero e le sensazioni di chi ha scritto. Lo stile di Palahnuk sprigiona energia; scientifico, asciutto, privo di fronzoli, simile a quello di scrittori come Breat Easton Ellis, Irvine Welsh e Douglas Coupland.
L’autore manifesta con originalità il suo pensiero sull’universalità e sulla continuità nel tempo dell’Arte: l’Arte ha un’anima che s’incarna di generazione in generazione; la sua spiritualità, il suo amore per le varie forme della Bellezza operano una palingenesi, una rinascita, una catarsi nel fruitore. Lo scrittore ribadisce, altresì, la naturalità del genio portato all’Arte e la spontaneità dell’Arte stessa, tanto cara al Romanticismo. Grace Wilmot tiene un diario. Dice che è di Misty. In realtà, è, anche, di tutte le artisti che l’hanno preceduta e che facevano anch’esse parte della leggenda dell’isola, ”ogni cosa è un diario”. E’ il diario che Misty scrive a Peter in coma, nella speranza che si risvegli, e che stiamo leggendo noi? La tecnica del diario nel diario richiama alla mente la tecnica pirandelliana del teatro nel teatro.
Una volta terminato di leggere il romanzo, osserviamo, sul retro della copertina, la fotografia di Chuck Palahniuk: sembra raccontarci di suo nonno che uccise la moglie a colpi di pistola e, poi, si tolse la vita, e di suo padre che fu ucciso da una donna conosciuta con un annuncio sul giornale; “la sofferenza è la chiave dell’ispirazione”.
Una recensione di Simonetta De Bartolo
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