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Io confesso
di Fortuna Della Porta
Pubblicato su SITO


Anno 2006- Lepisma
Prezzo € 14- 125pp.

Una recensione di Giorgio Linguaglossa
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 Io confesso

Il mondo della fin de siècle ci appare oggi più remoto del mondo di Shelley e di Leopardi. Perché? Quel mondo ci sembra, ad un tempo, irreale e familiare. Il liberty e il neoclassicismo sono ancora in nuce.
Apparentemente, il mondo sembra immerso nel sonno del tardo Ottocento. L’arte e la letteratura degli anni Novanta del secolo XIX si presentano come un prodotto di scarsa rilevanza rispetto agli inizi del medesimo secolo segnati dalla grande rivoluzione napoleonica.
Similmente, l’arte e la letteratura europea degli anni Novanta del Novecento sembrano segnare il passo di una lenta e inarrestabile crisi della grande cultura novecentesca; in una parola l’arte dell’ultima decade del ‘900 sembra avviluppata in una inarrestabile deriva epigonica delle grandi direttrici della cultura novecentesca. Si appalesa una crisi di identità di una cultura, determinata anche dal dato di fatto della scomparsa del limen, della divisione in due parti dell’Europa, che in qualche modo contribuiva a tenere in vita una certa belligeranza politica, etica ed estetica nello scontro tra due blocchi.
Oggi, noi non possiamo comprendere la crisi della cultura epigonica del minimalismo senza gettare lo sguardo al di là di essa, a quegli sviluppi dell’arte contemporanea che sembrano prefigurare uno sbocco, una via di uscita dall’arte dei minimalia.
Credo che la poesia di Fortuna Della Porta debba essere catalogata in questo quadro problematico, in quelle linee di forza che si dispiegano all’interno del minimalismo, producendone un’implosione tematica e stilistica, e all’esterno di esso una invasione di elementi allotrii quali le istanze morali, esistenziali e le istanze critiche. Il pensiero poetante riceve così una sorta di “inquinamento” e di “impurità”, con la conseguenza che gli esiti poetici vengono contrassegnati da un mix di elementi spuri e allogeni. La poesia contemporanea diventa così il luogo dove si incontra una mixture di prosa e poesia, di poesia e filosofia, poesia e reperti di esistenzialismo. Il luogo della poesia diventa una zona “contaminata” da linee di forze stilistiche eterogenee e contraddittorie. L’esperienza vissuta si incontra con l’esperienza virtuale e gli esiti stilistici si ramificano e si perdono in una rete di altre direzioni di ricerca che restano ancorate saldamente al principio di indeterminazione e al principio di casualità che reggono l’impianto gnoseologico della moderna fisica posteinsteiniana. Nella poesia di F. D. P. le esperienze biografiche si trovano in una zona di diretta contiguità con le esperienze “astratte” còlte come un flash sullo schermo bianco dell’esistenza:

Dal nitore della mia bocca
Nel baccello infinito-assenza
Dal sottomondo incoscienza-mortificanza
Dall’orbo delle ginocchia il gran cimento
Mi sveglierò da morta. Finalmente.

Si tratta del genere di poesia che comunemente viene indicato come poesia-confessione, il titolo del libro è inequivoco. Ma è il trattamento stilistico l’aspetto saliente di questa poesia: la “impoesia” come la definisce l’autrice. Basta scorrere certo verseggiare di Della Porta per accorgersi che il metaforeggiare è sempre condotto in modo sbilenco, trapezoidale, voglio dire che le metafore sono collegate più da una forza repellente che non da un coagulante, ed anche i verbi, apparentemente, congrui alla declinazione delle metafore, in realtà rendono ancora più sghemba la disseminazione delle metafore e, di conseguenza, l’intera composizione risulta scentrata rispetto al proprio baricentro metaforico, così come certi composti verbali, che sono ottimizzati in funzione rafforzativa e aggettante (Per tutto discendere come acqua a smeraldo /Poesia senza parole. Piattovuoto vuotocristallo/intenzione senza funzione/ Concepisco apoteosi di menteimmagine/ Negazioni microrepellenti…’), hanno l’effetto di accentuare il carattere di disequilibrio dell’intera struttura poetica.
Come è noto la grande difficoltà di questo genere risiede proprio nella enorme problematicità di costruire un linguaggio idoneo alla “rappresentazione” delle proprie confessioni; come ciascuno sa per proprio conto, una cosa è la confessione davanti al confessore e un’altra è la confessione letteraria, dove un ruolo preponderante viene svolto dal filtro della tradizione e dal filtro della coscienza estetica con la conseguenza che l’autenticità della “confessione” viene quasi sempre diffratta e disseminata.
Nella poesia di Della Porta il linguaggio del quotidiano viene ad essere contaminato da sintagmi “alti” a carattere metaforico-iperbolico, da una sorta di “deformazione prospettica”, come la definisce la stessa autrice: Ha preso in prestito/ il solfeggio di un utero. Il “Tempus tacendi” (dizione dell’autrice), per essere nominato richiede appunto l’impiego di un sofisticato congegno, per così dire di antiorologeria così preciso da rintoccare i secondi, i minuti e le ore all’incontrario. E così il meccanismo linguistico messo in piedi da Della Porta lo si può definire, con un po’ di approssimazione, una apparecchiatura a carattere logico-scettico dove la funzione gnoseologica centrale viene svolta dal dubbio post-cartesiano, anzi wittgensteiniano, sulla capacità-possibilità che la parola poetica ha di farsi carico della sua funzione denotativo-iconica: E tu parola quanto pesi / e quanto sei leggera/ parola barattata/ torturata/ parola incapace/ che arranchi/ tra me e il mondo/ tra me e il dubbio/scorticata/ messa a nudo. / Inutile/ parola piagata/ dalla responsabilità /delle mie ossessioni /inadeguata/ vituperata/ alla fine taciuta: / parola, mia parola/ tu che sei altro/ persino da un fiore/ come puoi dirmi/ quanto costa un dolore.
Nella misura in cui la poesia di Fortuna Della Porta si emancipa dalla lingua di albacolomba, tende a ricadere sul piano “alto” del finto-sublime attraverso la mediazione di uno stile “contaminato” fondato sulla paratassi, sullo scarto semantico e sull’agglutinazione lessicale. Ed è nella direzione di uno sperimentalismo privato che questa poesia attinge gli esiti migliori come nella serie di “sonetti napoletani” che rivelano una felicissima ispirazione e un linguaggio in dialetto dall’intensa combustione semantica.
Non più ancorata alla solidità della cultura tecnologica dell’experimentum, la poesia di Fortuna Della Porta è così costretta ad accogliere la solitudine stilistica quale legato testamentario di una civiltà letteraria ormai tramontata e non più attingibile.

Per gentile concessione di Fortuna Dalla Porta


Una recensione di Giorgio Linguaglossa



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