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In “Davanti all’immagine”, diviso in tre sezioni a sé stanti, Vittorio Sgarbi, storico e critico d’arte meritatamente noto, opera una originale scelta di artisti italiani e stranieri, dal basso medioevo ai giorni nostri, confessando subito di aver iniziato ad amare le arti figurative da quando per la prima volta vide “nella pietra qualcosa di simile alle parole” e riconobbe la possibilità ad un’immagine di “celarsi nel marmo e riscaldarlo come fosse carne”. Fu allora che s’innamorò di “Ilaria”, creatura viva nel marmo del sarcofago scolpito da Jacopo della Quercia. “Avessi mai pensato, nella mia mente astratta, che la bellezza si poteva calare in una pietra, o fissarsi in un velo di colore; avessi potuto credere che si era costituito un mondo parallelo popolato di simulacri più vivi e animati degli uomini; avessi veramente creduto che i musei non erano cimiteri ma luoghi pieni di sorprese e fonti di delizie (e, per gli innumerevoli ignari, minacciosi di insidie e trabocchetti). Per me la bellezza stava soltanto nella parola”.
L’autore prende in esame quadri, sculture, miniature, libri, fornisce informazioni biografiche, storiche, ecc., correda il saggio, vincitore del premio Bancarella, di suggestive riproduzioni, conduce il suo studio con l’acume critico, la spigliatezza discorsiva e la straordinaria apertura concettuale che lo caratterizzano, con sicurezza e dovizia di conoscenze e di riferimenti qualificati alla letteratura italiana, da Dante a D’Annunzio, alla storia della filosofia e alla storia dell’arte (da Argan a Rosemberg), con accostamenti dotti (Michelangelo-Brune Jones), notizie sull’esecuzione delle opere, in genere trascurate dalla critica tradizionale, paralleli arditi tra letteratura, pittura e scultura, mostrando equilibrato compiacimento, prendendosi il giusto merito di non aver “mai dubitato” del primato di De Chirico, creando nel lettore l’ansia di conoscere ciò che viene dopo, divertendo, incuriosendo, senza mai stancare. E se, da una parte, sembra ricordare ai lettori che solcano “in piccioletta barca” un vasto mare di conoscenze, dall’altra offre loro la possibilità di seguirlo tranquillamente nel suo filosofare pacato, ma denso di passione, nelle sue idee sull’arte, prima fra tutte quella secondo cui essa “possa consentire quello che la morte non vuole” e sui compiti del critico d’arte, nelle originali interpretazioni delle presenze, nei quadri, di animali (il gatto), fiori e cose, nelle sue interpretazioni sociologiche, psicologiche. Indubbia la sua paterna premura per il patrimonio artistico e letterario italiano (scrivendo, a proposito di “Genealogia del fuoco” di Aurelio Pes: “Caro lettore, proteggi e difendi questo libro anche da te”).
Il lettore si convince che l’immagine è dotata di parola, che deve essere vista e toccata, partecipa composto al convito dello stupore, del piacere, delle emozioni, degli aneddoti, della storia del gusto e del costume, s’interessa alla disputa sui rapporti tra artista e mercante d’arte, su falsi e falsari, condivide con fervore la forte e inequivocabile denuncia contro la confusione che regna nel presente, contro l’oblio fatto cadere su alcuni artisti, contro i vandalismi ufficiali di chi distrugge le città con nuovi allestimenti, trova giusta la rivalutazione doverosa del “grandioso fregio di Sartorio”.
Così, Sgarbi coinvolge, non è una novità, dà vita ad un mondo tenuto in ibernazione, fatto osservare da lontano, ora oggetto d’indifferenza, ora circonfuso di timor sacro, dalle mille sfaccettature, a volte contraddittorie; stimola a riflettere sull’opera d’arte, ad oltrepassare il “velame” dell’apparenza, a non far correre la parola più veloce del pensiero, perché, altrimenti, si rimarrebbe offuscati, disorientati, come quando, dopo essere stati a lungo al buio, si è investiti da meridiana luce. “Non andate a cercare l’anima nelle velate, prevedibili, notturne apparizioni della pittura simbolista; non siate contenti delle sue spoglie, delle sue esterne facce. L’anima non ha volto, e non è neppure indicibile: essa si rivela quando comunica un’emozione, quando convoca la sua compagnia che è in noi. Tutte le forme più alte dell’arte hanno cercato di riconoscere in un viso, in un moto del corpo, in uno sguardo levato al cielo, la chiara impronta dell’anima e soltanto in questo sforzo di trasumanazione hanno raggiunto il loro fine”.
Con Sgarbi l’immagine diviene pensiero, si anima, tira fuori un che di poetico e, come riteneva Godard, esprime il suo messaggio. E’ una conversazione quella che si instaura tra noi e l’immagine, “Le opere d’arte aprono lunghissimi e mai conclusi dialoghi dell’autore con l’immagine conquistata, ma anche di un testimone, di un sopravvissuto che, attraverso l’artista, attribuisce i suoi sentimenti, le sue passioni, i suoi ricordi e la memoria viva di ciò che è stato, del proprio mito, a un simulacro di pietra o di legno che continua a parlare”. In conclusione Sgarbi intende l’immagine come “immagine-percezione”, “immagine-affezione”, “immagine-pulsione”, “immagine-azione”, “immagine-tempo”, alla stregua di Gilles Deleuze, che, in “L’immagine-tempo”, così scrive: “E’ l’immagine che muove se stessa in se stessa. In questo senso non è dunque né figurativa, né astratta. Si dirà che questo era già vero per tutte le immagini artistiche; Ejzestejn infatti continua a analizzare i quadri di Leonardo da Vinci, del Greco, come fossero immagini cinematografiche (la stessa cosa fa Elie Faure con il Tintoretto)”.
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