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La vita incagliata
di Attilio Del Giudice
Pubblicato su SITO


Anno 2006- Editore Leconte
Prezzo € 15- 149pp.
ISBN 88361574

Una recensione di Sergio Sozi
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La vita incagliata

Di questi tempi, leggere la nuova narrativa italiana è come fare una scelta di campo, soprattutto dal punto di vista linguistico: o con l'abusato, sciatto, impersonale italiano medio di molti, o nelle intricate vie lessicali dei realisti – o di chi al realismo s'ispira in un modo o nell'altro. Pochi autori stanno fuori da questi due schieramenti o dimostrano acume interpretativo, pur restando nei ''correntoni'' attuali.
Dunque, sarà perché il sottoscritto (almeno come narratore) non riesce a soggiacere a questa banale miseria generalizzata; sarà per via di una simpatia istintiva che queste pagine inducono in me; o forse sarà a causa della mia convinzione secondo cui ogni opera contemporanea debba esser vagliata alla luce della Storia Letteraria italiana. Ne sia quel che ne sia il motivo di fondo, credo di non dire una sciocchezza a cuor leggero se ora dichiarerò la riuscita operazione drammaturgico-letteraria consistente nella quarta opera narrativa di Attilio Del Giudice, scrittore casertano prima in forza alla casa editrice romana minimum fax e ora pubblicato dalla, sempre capitolina, Laconte. E come mai rappresenterebbe un'operazione drammaturgico-letteraria, questo La vita incagliata, uscito pochi mesi fa? Diversi sono i motivi per vederlo cosí: l'aspetto drammaturgico sono i capitoli-sequenza, scritti nel proprio diario dalla voce narrante, il bambino campano Nino: dei quadretti di quotidiana sopravvivenza che tanto ci rimandano visivamente al neorealismo di Pasolini. L'aspetto strettamente letterario è l'accuratezza della scrittura, poiché resta chiara l'elaborazione letteraria dei termini dialettali campani, trascritti con le giuste regole segniche dell'elisione eccetera. Le forme espressive dialettali (largo uso dell'erroneo ausiliare ''avere'', del pronome personale ''ci'' per ''gli'', ecc.) sono veraci e credibili. Nel complesso ne risulta un italiano esteticamente vicino a quello di Gadda e Camilleri – mutatis mutandis naturalmente.
Ma il vero lato interessante di questa tristissima e commovente storia risiede nella violenza della quale è intrisa la vita di Nino, nove anni d'età (un bambino che sarebbe l'alter ego di Giamburrasca - tanto egli resta scanzonato e puro - se non gli fosse toccata la malaugurata sorte di aver un padre brutale e delinquente in un'Italia del Sud tremendamente novimillenaria): la violenza e le connesse perversioni qui divengono quasi una pagana accettazione della bruttura moderna, quasi come se l'incontro con uno schifoso riccone pedofilo (Al Mitreo, p. 67) fosse la rievocazione di un rito, appunto, concernente il dio Mitra. Il fondamentale particolare che, però, priva di fascino mitico la violenza serpeggiante in primo piano nel corpo di questi racconti, sta nella deficiente intelligenza del mondo in cui Nino, anima candidissima, nuota senza provarne disgusto: una provincia ottusamente autoreferenziale (direi autistica), depressa e affamata di spersonalizzazione e denaro, una provincia che non vede l'ora di dimenticare qualsiasi propria origine antica per buttarsi anima e corpo nella pomposa straniazione filo-americana. Niente di diverso rispetto alla provincia lombarda, umbra o sarda, dopotutto. Dunque niente di nuovo rispetto all'Italia post-bellica: violenza, sradicamento e solitudine di massa.
Dunque, in questo senso, La vita incagliata non straborda, per fortuna sua, nel mero ritratto della decadenza, processo spirituale e storico che purtroppo vediamo anche senza andarci a leggere dei libri che lo descrivano; appunto, il neorealismo che ne costituisce le fondamenta evita di cadere nella trappola dell'esagerazione e dell'iperbole ma ricorre piuttosto (secondo me salvificamente) alla letteraria tenerezza, alla poetica dolcezza con le quali Nino acquisisce il suo vero volto spirituale: quello, all'apparenza neutro come un foglio di carta bianco, che ci offre la soluzione per i mali italiani profondi e piú labirintici: resistere dentro, solo dentro di noi – nel limbo della nostra complessa, atavica semplicità – a questa brutale privazione del vissuto collettivo che ci costringe a rinunciare alla cura dell'infanzia (soprattutto a quella che abbiamo sempre viva nel cuore) in favore di una stonata idea della vita adulta.
E un indiretto manifesto della malsana crescita (degli altri, di molti altri italiani), questo romanzo-centonovelle dipinge, a veder bene, per mezzo della buona crescita che (alla faccia delle circostanze aberranti) il nostro Nino forse avrà. Anzi che sicuramente avrà, sempre che riesca a sopravvivere al padre insanus senex da cui è maltrattato e agli altri stolti. Molto plausibilmente noi tutti, gli adulti. Adulti solo nell'egoismo e nell'inciviltà.


Una recensione di Sergio Sozi



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