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Vies minuscules
di Pierre Michon
Pubblicato su SITO


Anno 2007- Gallimard
249pp.

Una recensione di Paolo Mantioni
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Questo libro è un capolavoro.

La buona creanza letteraria dovrebbe indurre ad evitare affermazioni perentorie di valore o disvalore, ma sulla assoluta convinzione che quest’opera narrativa di Pierre Michon sia un capolavoro indiscutibile scommetto tutto il mio sapere e il mio gusto letterario, poco o tanto che sia.

Dello scrittore e del libro, Pierre Michon e Vies minuscules, circolano in Italia scarne informazioni. A tutt’oggi, di Pierre Michon è stato tradotto in italiano solo Padroni e servitori (Maître et serviteurs), per i tipi di Guanda e la traduzione di Roberto Carifi. Testo cronologicamente successivo a Vies minuscules, ma simile, per impostazione, ispirazione e resa letteraria al testo precedente (Vies minuscules fu pubblicato nel 1984 mentre Padroni e servitori nel 1988), ma decisamente meno personale, meno lievitato.

Viceversa, Pierre Michon e Vies minuscules godono in patria di un indiscusso prestigio, perciò l’assenza nel panorama dell’offerta culturale del mercato editoriale italiano è, per me, assolutamente inspiegabile. Ma tant’è, mi rassegno all’inconoscibile.

Vies minuscoles si compone di spezzoni narrativi dedicati a personaggi, per così dire, minori, che hanno incrociato o sfiorato la vita del protagonista che è lo scrittore stesso. Il racconto delle “vite minuscole” mette il lettore in condizione di poter guardare con “la coda dell’occhio” alla vita del protagonista.  E’ un libro costruito su due assenze: quella dello stesso protagonista e quella del padre. Un testo autobiografico che fonda la sua ragione d’essere sull’assenza di se stesso? Il personaggio che racconta e il personaggio di cui si racconta sono come spaiati, distanziati. Proprio perché il personaggio che racconta non può che guardarsi di scorcio, in lontananza, non può che costruirsi in assenza, sua e del padre.  Tutto ciò che è intorno a queste due assenze è oggetto di una narrazione avvolgente, a cerchi concentrici. Parte da lontano e, attraverso una prosa calibrata e affettivamente intensa, arriva sempre vicino, senza mai indicarlo risolutamente, al punto nevralgico di ogni discorso: il vuoto.

Come se solo la continuità filogenetica possa dare un senso al nostro attraversamento del mondo. La rottura della quale, costringe ad una ricerca fallimentare di senso, lasciandoci in un vuoto incolmabile.

Quella di Michon è una scrittura accattivante, coinvolgente. Invita il lettore alla pazienza, al godimento dell’esistente, ben bene sistemato e spimacciato intorno ai crateri del vuoto e del non senso. Affidando alla affabulazione, alla parola e alla letteratura il ruolo del riempimento, della ricerca del senso.


Una recensione di Paolo Mantioni



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