(...) Alla fine del libro di Sorrentino, che si è sciolto tra le mani per precaria rilegatura, mi chiedo se la stessa sorte toccherà al volumetto di Giuseppe Bufera (un agrigentino che vive in Brasile), imponendomi una ulteriore pratica ricompositiva. Il presentimento si avvera e anche La mia Landau finisce in pezzi di carta come finisce in pezzi di vetro la bolla alla fine dell’opera. E’ un progetto segreto dell’editore che ha voluto stampare opere “usa e getta”, oppure il fatto assume qualche significato simbolico che non riesco al momento ad afferrare? Dopo aver raccolto le pagine che un soffio di vento ha sparpagliato nel patio, armeggio pazientemente per rimetterle nell’ordine prestabilito, anche se sono tentato a fare uno scherzo all’autore assemblando i fogli alla rinfusa e scrivendo la recensione sulla base dei contenuti scaturiti dall’occasionale montaggio.
La mia Landau non ha niente a che vedere con il realismo magico che caratterizza i racconti di Sorrentino e non mi sembra neppure che l’opera possa essere ricompresa nel genere fantastico. Si tratta a mio avviso di un’opera letteraria a base realistica, lievitata da una ben calibrata dose di ironia e di felice fantasia ri-creativa. Una ironia che salva l’autore dalla vita (forse) e l’opera dalla falsa letteratura (di certo). Il vero carburante che fa muovere la stupefacente “balenottera” azzurra è la voglia di viaggiare e di divertirsi del protagonista in cui l’autore si identifica, passando da una donna all’altra, da una avventura più o meno rischiosa all’altra, attraverso l’assunzione di un comportamento apparentemente disimpegnato come se non avesse niente d’importante da raccontare. In tal senso il comportamento di Bufera è opposto a quello di Sorrentino, che invece ha la tendenza a dire molto, forse troppo. La scrittura di Bufera è un flusso di parole combinate con sapienza secondo una strategia non sapienziale. E’ ricca di odori, colori, immagini e suoni significativi, che si fanno percepire, vedere e ascoltare più che leggere. Sì, la letteratura di Bufera è una letteratura della visione e dell’ascolto, più che della lettura.
E’ significativo che l’autore alla fine ci dica – anche se con maliziosa compiacenza - di aver raccontato “un mucchio di fandonie”. Noi sappiamo che spesso le fandonie sono più vere della realtà e che la verità sta radicata nella falsità dell’arte. Il racconto che ha per protagonista la stupefacente Landau azzurra non è suffragato dal ricordo e dalla nostalgia del passato, tant’è vero che Butera - come il gattone del racconto di Borges El Sur - vive nella “eternità del presente”. Il racconto è memoria sottoposta a dimenticanza, e dunque ri-creata, ri-generata in forma nuova. E’ esercizio di pensiero, essendo il pensiero non il pensiero della esistenza, ma “l’esistenza stessa”. E’ sogno in altre parole, pratica di vita come sogno.
E allora che resta? Restano le tracce di un viaggio a bordo di una Landau “forte e solenne”, attraverso l’Argentina, il Paraguay, la foresta amazzonica, e poi “lungo la rotta tracciata dall’imponderabile leggerezza della memoria” che si fa sogno attraverso i “paradisiaci Yungas”, la miniera di Chojlla, il Titikaka che “giace azzurro terso orizzontale, fra le braccia di colline lunghe calve grigie stanche di essere sempre le stesse”. E poi, ancora, attraverso Parigi, Bruxelles, Brema, Colonia, e finalmente attraverso gli Appennini, e poi attraverso le Madonìe per costeggiare l’Etna, per sfilare a Catania in via Rapisardi con la Landau fantasmagorica, - come avevano fatto gli emigrati provenienti dal Venezuela con i loro simboli di potere e di successo -, e per arrivare infine ad Agrigento, che fu sua, che “fu Girgenti a Pirandello, Keskent ai mansueti arabi ancestrali, Agrigentum ai Romani campagnoli, Akragas ai romantici greci”. Ma per fare cosa? Per sostare davanti al vecchio bar Gambrinus, per chiedere una brioscia di granita e per vedere un disgraziatissimo barman che fa cadere “l’unica burnia esistente”. In quel preciso momento il protagonista di quel lungo viaggio “si volge fanciullo”, e “la boccia di vetro assurge a simbolo”. Quella bolla di cristallo era piena di sogni e di desideri, “degli odori e sospiri e amori di una intera vita”, e ora è ridotta in mille pezzi. Nella “immobilità dell’istante” il viaggiatore cede la sua Landau azzurra “in cambio di quel pugno di vetri rotti”.
E ora cosa resta? Il gesto dell’autore, viaggiatore ed esule, che butta “i cocci di vetro nella pattumiera” e continua a vivere nel fluire del tempo presente come il gattone di Dahlmann.