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La punizione
di Salvatore Scalia
Pubblicato su SITO


Anno 2006- Marsilio
Prezzo € 11,00- 135pp.
ISBN 9788831788656

Una recensione di Rina Brundu Eustace
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La punizione

La punizione: en attendent Godot sui generis per Salvatore Scalia
                  
L’anno è il 1976. La città è Catania. Il quartiere è San Cristoforo dove “…a tredici anni sei già vaccinato. Esci la mattina per buscarti il pane… se hai l’occhio vivo riconosci a colpo i minchioni pieni d’acqua ed eviti chi ha le palle quadrate… se sei furbo, prudente, sfacciato, rispettoso… se impari in fretta, se conosci le regole… se sei svelto di mano… se sai distinguere… sei degno di campare… sai a chi la puoi mettere in culo, sai quando invece rischi di prenderla…sopravvivi solo se sei un perfetto figlio di iarrusa, altrimenti non meriti neanche l’aria che respiri” (La punizione, pagg. 104-105).
Il background presentato è dunque una dimensione reale ben individuata. Tuttavia, mercé un' indubbia capacità scritturale, è proprio dentro tale contesto factual che la storia raccontata in La Punizione dal giornalista Salvatore Scalia sa diventare momento dotato di qualità letteraria. Ed è sempre dentro questo contesto definito che una dolorosa vicenda di cronaca di mafia, come quella dei quattro ragazzi catanesi spariti nel nulla una trentina di anni fa, riesce infine a trasformarsi in exempla che è sintesi di esperienza universale.
La metamorfosi stilistica e di genere procede di pari passo con il divenire del plot e con il conseguente espandersi dell’universo di riferimento. C’è una vena verista, per esempio, nell’incipit descrittivo, popolato di personaggi colorati, mossi da ragioni istintive, dotati della felicità ancestrale dell’Essere che é vivo ed che fa dell’affermazione di questo esistere la prima necessità del quotidiano. Tutto accade in un presente angosciato ma da preferirsi comunque ad un futuro incerto, mentre gocce di ciò che è stato rivivono per lo più nella memoria prodigiosa di Ginetto, meravigliano, stupiscono, ma non prendono mai abbastanza.
L’ammirazione è dono da distribuire con parsimonia. Di sicuro la reclamano le capacità superiori di Pippo Pernacchia, la generosità dello Zio Strano, i seni acerbi di Agatina, “il rumore rauco delle marmitte truccate” delle Vespe che sfrecciano sulle strade sterrate di campagna, il flipper della sala giochi, le indubbie doti di Alfio il meccanico nel gestire le relazioni coi clienti, ma poco o null’altro. Invece, di calcio, donne e motori sono conditi anche i discorsi di almeno quattro dei carusi di San Cristoforo: Pinuccio, Gianni, Melo, Tano. Quei discorsi imprestati dagli adulti, che copiano l’idioletto ricamato di minchie e di buttane dei veri uomini d’onore e guardano al mondo con il loro stesso animo diffidente.
Conseguenza delle azioni e delle intenzioni che realizzano la trama è, sul piano ideale, un lento ma progressivo trasformarsi del romanzo in una sorta di testo teatrale sui generis. Meglio ancora La Punizione diventa un En Attendent Godot sui generis! Come un novello Beckett 1, Scalia è maestro nel creare l’impressione che i suoi characters vivano adesso liberati da ogni obsoleta costrizione narrativa e si muovano dotati di una più completa identità sul palcoscenico ricreato. Questa metamorfosi è in realtà dovuta e ha, tra gli altri, lo scopo di ricordarci che l’universo vagamente bucolico descritto nell’incipit è in realtà una dimensione reale-ombra che esiste in virtù delle ferree ed immutabili leggi cosmiche che la governano. Una dimensione dove “Ognuno deve stare al suo posto, con le buone o con le cattive” (La Punizione, pag. 119).
A trasfigurazione completata, gli stessi personaggi sono ormai diventati delle marionette, dei pupi nelle mani del deus ex machina di turno, ovvero di quel Grande Puparo che da questo momento in poi, sopprimendo ogni libero arbitrio, ne domerà anche l’intenzione vagamente accarezzata, suggerirà le battute e, in ultima analisi, deciderà del destino di ognuno. La farsa manieristica diviene tragedia nel momento stesso in cui l’illusione catartica è spezzata dall’intrusione irriverente dell’Io critico che non può fare a meno di ricordarsi di quell’altra storia-fotocopia del play rappresentato. Quella storia accaduta veramente. In quel di Catania. Nel quartiere di San Cristoforo. Trenta anni prima. Circa.
Fuor di metafora, ma senza svelare il dettaglio di un testo di cui si raccomanda la lettura, c’è da dire che, a differenza del famoso play beckettiano, La Punizione presenta un Godot perfettamente identificato, un Godot dotato di un nome ed un cognome che, il divenire del racconto lo dimostra, è salutare non dimenticare. Soprattutto, a differenza del play beckettiano, La Punizione presenta un Godot che arriva sempre, forse con il ritardo proprio della primadonna, ma non ci sono dubbi sul fatto che arriva sempre e che quel momento fatidico necessariamente coincida con il climax del narrato. Impossibile coltivare illusioni in merito! Così come è impossibile pensare di fuggire la sua giusta collera di dio turlupinato!
Infine, come in ogni palcoscenico che si rispetti, anche lo spazio teatrale presentato nel testo in esame, non manca dell’indispensabile botola. Nello specifico, una botola-pozzo anticamera dell’inferno che attende ogni peccatore che abbia anche solo osato pensare di scardinare le fondamenta di una dimensione cosmica altrimenti perfetta; una botola-pozzo capace di sanare, nel suo profondofondo, tra le pareti umide, che sanno di marcio, ogni offesa arrecata, ogni sgarro subito, in grado di reintegrare l’onore e quindi restituire dignità ad ogni Grande Puparo ingannato, ma pur anche ad ogni suo lontano parente; una botola-pozzo subdola nel suo tronfio tentativo di indurre l’astante a mettere in dubbio persino l’esistenza dei quattro carusi di cui si è già detto.
Ma anche una botola-pozzo che, nonostante tutto, auspichiamo, non possa mai diventare paravento davanti ai nostri occhi. Piuttosto, dovrebbe essere proprio la sua naturale ed inequivocabile infelicità ad invitarci ad andarla a sfidare. E a guardarla. Dentro.
 
Nota: 1 Samuel Beckett, (Dublino 1906 - Parigi 1989), drammaturgo, poeta e romanziere irlandese, massimo esponente, insieme a Eugène Ionesco, del cosiddetto Teatro dell’Assurdo.


Una recensione di Rina Brundu Eustace



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