Veniamo istruite così. Anche chi ha la mamma più evoluta, che lavora, che sceglie di non lavorare, che ama cucinare, che odia mettersi ai fornelli. Ognuna di noi sa che per non deludere la propria, dovrà cercare un uomo che le metta la fede. Ed è in questo modo, in genere, che una donna perde le occasioni migliori.
È questa la premessa apposta dall’Autrice a un agile volume di testi in prosa, all’interno del quale quattro storie formano altrettanti distinti capitoli in cui, neanche a dirlo, è l’universo femminile a delineare grandi e piccoli mondi.
Daniela Montanari ha sempre prediletto, sino ad ora, raccontare le donne e la femminilità, mettendo questi due elementi – in un continuo confronto allo specchio – di fronte alle relazioni, alle storie d’amore, ai sentimenti in genere, al senso del tempo, alla famiglia, ai figli, alle necessità. Certo non è l’unica scrittrice al mondo a farlo e ad averlo fatto. Il rischio di ripetersi, quando si intraprendono percorsi già così profondamente segnati, è alto tanto quanto quello di finire per praticare una narrativa rosa tediosa e banale – e ciò va sempre tenuto in considerazione. La letteratura femminile odierna è infatti piena di stereotipi di questo genere, mentre al contrario la letteratura femminile classica (pensiamo solo a quella inglese Sette/Ottocentesca) è spesso guardata con diffidenza (grave errore di valutazione); questo comporta che i modelli e canoni di riferimento vadano via via impoverendosi…
In Donne senza fede, però, i personaggi spesso si delineano, felicemente, attraverso i sentimenti e il ricordo, quando non addirittura negli oggetti – che sono quasi sempre segni del mutamento delle relazioni intercorrenti tra due o più soggetti nella storia. Il ricordo dunque si sostanzia nelle cose più che nelle persone, come a voler dire che le persone nascono, s’incontrano, si amano e muoiono, tradiscono, generano, hanno segreti e mentono…, ma gli oggetti che hanno toccato, i letti su cui hanno dormito, le parole che hanno pronunciato, si impregnano di una concreta sostanza vitale, la quale, più di tutto, si tramanda oltre il profilo del tempo e delle azioni. Gli atti, a loro volta, prendono forma proprio attraverso cose che si possono tenere tra le mani, che siano lettere, diari, foto, cartoline…
I racconti contenuti in Donne senza fede, titolo che gioca sull’analogia fede (nuziale) e fede (sentimento), sono chiaramente incentrati sulla tematica dell’amore, ma al loro interno si differenziano per una lunga serie di particolari. L’Autrice è piuttosto brava a condurre la scrittura su quattro binari paralleli, senza perdere di vista né il percorso che intende compiere, né l’obiettivo finale. In lei il sentimento predominante è un amore materno e al tempo stesso filiale. Lo sguardo di ogni singolo Narratore e Narratario è ingentilito da una umanità viscerale, fragile e autentica. La componente fanciullesca, presa nella sua dimensione più concreta e innocente, è realistica, oltre che ponderata; l’elaborazione scritta dei testi è coerente e ben riuscita. Ammetto di aver provato autentico trasporto alla lettura.
In Lettere tra le mani abbiamo il racconto di un ragazzo alla soglia della maggiore età, che, diario alla mano – seppure provi vergogna ad avere un diario – ha deciso di raccontare la storia della sua famiglia. In parallelo scorrono le lettere d’amore dolcissime della nuova compagna del suo papà, o per meglio dire della sua ‘amante’, che conferiscono al dettato particolare armonia e bellezza, tratti di profonda sensualità e al contempo di elegante femminilità.
Cosa accadrebbe se aprendo il cassetto dell’ufficio di papà, saltassero fuori dei biglietti che non dovremmo leggere? E cosa capiterebbe, ancora, se a un certo punto le lettere cominciassero ad essere addirittura indirizzate a noi? Lettere tra le mani è in sostanza la storia dell’incontro di due mondi costretti a coesistere loro malgrado, legati dalla relazione con la medesima persona, e dunque costretti, in qualche modo, anche a conoscersi e capirsi. Doppia prova d’amore, insomma. Lei ama loro pur senza poter vivere alla luce del sole il suo sentimento; loro – nello specifico lui, il protagonista nonché Narratore – smette di odiarla e vederla come una nemica quando capisce che lei è davvero innamorata…
Ciao. È una cosa molto bella quella che mi hai chiesto l’altra sera: “Scrivi una cosa che io possa tenere”. Tutte le volte che ti ho scritto un biglietto sono sempre stata titubante, perché sapere che tu strapperai i miei ti amo o che me li renderai indietro mi impietrisce. Se davvero vorrai custodire i miei ti amo sarà per me una grande festa. Seppelliscili in fondo al cuore, cosicché potrai sempre sentire le mie mani che ti accarezzano la nuca, e i brividi ti coglieranno di sorpresa – come la foglia che troverai sul parabrezza; come la ciocca di capelli neri e lunghi, le risate che stai imparando a rubarmi, o le occhiate furtive dal vetro quando passi e il cuore mi balza in gola
Si cela nel mio profondo, un amore delicato che sbircia in punta di piedi le vostre vite. Vi immagina sbuffanti a scuola quando il solito prof fa la predica; oppure, sempre sul banco di scuola, che lottate fra lo stare attenti e una gran voglia di correre. E i vostri giochi, i vostri amici, i vostri dialoghi, le vostre cene, i litigi… e io che non sono tra voi.
Il secondo racconto, Un nuovo rosso, vede protagonisti Anna e Francesco, madre e figlio; un letto d’ospedale, un intervento chirurgico che rimuove dalla donna l’alveo della fertilità. E poi Ilenia, la guarigione; il padre di Anna, l’agenda rossa, il rosso della bandiera comunista; la convinzione che a un certo punto ci ammaliamo perché qualcosa dentro di noi non funziona più come dovrebbe, ovvero perché un evento scatenante che abbiamo poi rimosso, pesa così tanto sull’animo da influire sulla salute del corpo – fino agli estremi – e sulle relazioni umane primarie.
Anna è sulla sua agenda che lascia fluire verso il figlio non ancora maggiorenne, le parole che non gli ha ancora detto, quelle che non riesce a dire a voce alta e ferma; poi l’incontro significativo con Ilenia, che per la prima volta le parla di ‘guarigione’, e la introduce in un percorso di rivisitazione del proprio passato. Una volta dimessa, Anna decide che è tempo di parlare a suo figlio, e lo fa partendo dagli albori, da quando venne diagnosticata come menopausa alla madre quarantaquattrenne… Ripercorrendo dunque le strade di una vita difficile sostenuta dall’amore dei genitori, Anna arriva ad ammettere di fronte a Francesco perché ha smesso di parlargli, in sostanza di amarlo… Lui vota a rovescio, a quattordici anni giocava a fare il fascista con gli amici, e lei quel colore non poteva proprio vederlo; sapeva, perché l’aveva vissuto, cosa vuol dire essere schiacciati dalla dittatura, perché i nonni di Francesco l’avevano vissuta, e il suo amor proprio, orrendamente ferito da un gesto perlopiù superficiale, la fa precipitare in un abisso di autoimposto isolamento. Trent’anni la separano dal figlio, ma infinita è la scissione del suo Io infantile – restio a lasciare le redini del tempo, a porre una netta separazione tra la sua figura di figlia e quella di madre – con quello attuale.
La Montanari in sostanza racconta la tridimensionalità della figura femminile e la complessità della gestione degli eventuali Io di riferimento. La Figlia, la Donna e la Madre, spesso sono in totale antitesi tra loro, e quel che è peggio, trasmettono, persino più della figura maschile (e per ovvie ragioni), questo senso di fatica ed estraniamento proprio alla prole, la quale, irresponsabile, reagisce di conseguenza, con quello che ha in mano, e anche rispetto a ciò che ha intorno.
Il tracciato è meno elegante e coinvolgente del primo racconto, ma siamo comunque ancora di fronte a un testo ben svolto, senza particolari sbavature o incoerenze discorsive e/o narrative.
Francesco, non va bene niente nella mia vita, non mi è andato bene il matrimonio, non va bene la salute, non mi vai bene neanche tu. Scusami, volevo dire che non mi va bene il modo in cui ti amo, che non riesce a farci avere un rapporto sereno. Le tue manie di diventare un giustiziere della notte, di rivoluzionare il sistema politico, di mettere a soqquadro sanità e scuola, non riesco a prenderle come necessità di sentirti adulto. Lo sai, ormai, un po’ per vizio, prendo tutto come un affronto.
Ti devo parlare Francesco, ti devo raccontare perché mi sono ammalata. Perché a un certo punto non ho retto. Perché non riusciamo più ad avere un dialogo. Perché ci siamo perduti. Perché non sono più sposata con tuo padre. Perché non ti ho mai raccontato di tuo nonno.
Ne La sensitiva, terzo racconto della serie, siamo alle prese con Elisa Morini, un’arringa in tribunale, il post-it giallo con cui viene lasciata dal fidanzato (vedi Sex and the City), un golden retriever che si aggira tra i cristalli di casa, una maga di nome Gina.
Un racconto dalle sfumature ironiche sulla ricerca dell’amore a tutti i costi e la mancata conoscenza di sé. Elisa, infatti, è il perfetto prototipo della donna innamorata dell’amore, tant’è che ricorre ai tarocchi della Maga per sapere se il suo ex lui tornerà mai sui propri passi o se qualcun altro ha già preso per quella strada. I tratti distintivi di questo brano sono i dialoghi e le meravigliose descrizioni di Roma, la Roma vera, quella di Piazza Navona quando ci sono i mimi, e dei mangiatori di fuoco. La Maga in realtà non fa che spiegare, attraverso il ricorso ai Tarocchi, cosa realmente manca nella vita di Elisa e cosa lei stessa deve fare per la Elisa che si dichiara aperta all’amore ma corre solo dietro a chi non la vuole.
Anche qui l’Autrice pone l’accento su un’età in particolare e su un difetto, e lo fa con innocenza, senza false retoriche e patetismi di alcun tipo.
Chiude la raccolta il racconto meglio riuscito: La lucciola.
In quest’ultima novella l’Autrice raccoglie il racconto di una bambina ormai donna e dei suoi ricordi della Casina sull’Appennino Tosco-Emiliano, in cui, nel tempo si sono succedute generazioni di amici, parenti e famigliari; sono nati e finiti amori, i figli sono divenuti genitori e i genitori nonni e di anno in anno si è rinnovato il rito delle vacanze e la scoperta dei monti. Molto ricche appaiono le descrizioni dei luoghi, dall’ambiente casalingo a quello naturale, e il dettato risulta musicale, armonico, piacevole da leggere e da ascoltare. Per quanto dunque i racconti siano piuttosto succinti, nell’insieme, tanto a livello tematico che stilistico, Donne senza fede è a mio avviso un lavoro ben riuscito.
Esistono uomini di fede, che la fede la portano al dito ma non ne hanno.
Altri che la portano appesa alla catenina, poggiata rozzamente sul petto, sotto la camicia aperta.
Altri ancora che hanno la fede ma non pregano.
pregano ma non hanno anelli al dito.
uomini che se la tolgono quando escono di casa.
che la sfoggiano perché suscita interesse.
Uomini che non la indossano ma che amano soltanto una volta nella loro vita.
E uomini che non si sposano, che non pregano, ma che hanno una fede infinita.