Sin dai primordi, in letteratura il sentimento per eccellenza è stato l’Amore. L’Amore analizzato, raccontato, urlato, pianto, sorriso, bestemmiato, rinnegato, vissuto, consumato, principiato, durato, finito… Una scelta poco casuale, se pensiamo che l’Amore, nella sua accezione più onnicomprensiva e totalizzante, è il motore del mondo; che si tratti del primo invaghimento che imporpora le guance di una vergine, del moto tempestoso che sconvolge l’anima in petto a un uomo, della compassione di una madre per il figlio morto in croce. Dante, per definire Dio, lo chiama, con una perifrasi: “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”, e ciò dà ancora più senso e credito al fatto che in letteratura si trasfonde solo ciò che percuote profondamente il cuore delle civiltà, e il sentimento amoroso è senza dubbio una di queste cose.
Tu non sei bionda, primo numero della collana Echi da Internet – feelings, affronta il tema dell’amore in maniera molto attuale, lontano però dai racconti in salsa rosa (molto in voga oggi – francamente fin troppo), facendo parlare i protagonisti, è chiaro, ma facendolo in un modo fuori dal consueto.
Spiando le intenzioni dei parlanti, tanto per cominciare; rubando loro in certo senso le missive, e, a sorpresa, ricevendole proprio dalle loro mani… Sì perché il libro è scritto a quattro mani (Lupo77 e Desta83 non sono due figure immaginarie, astratte, ma due persone, un uomo e una donna che realmente si sono attratti e respinti lungamente…), e per quanto possa apparire il frutto di un elaborato sforzo finzionale, a metà tra il diario personale e il copione teatrale, romanzato con chissà quale affascinante tecnica affabulatoria, in verità la storia che dà colore al libro, raccontata attraverso il vissuto e i soli dialoghi dei protagonisti, è il frutto di un vero amore nato virtualmente e poi chissà, consumato nella realtà. Il finale di questa strana, romantica, sdolcinata, sboccata, triste e improbabile love story, ci è stato precluso in quanto il carteggio virtuale termina con un finale che non ci svela nulla più sulle vicende di Elena e Andrea, quasi a voler preservare la realtà, forse il meglio della realtà, dal possibile inganno della realtà virtuale.
Sono proprio Elena e Andrea a celarsi rispettivamente dietro ai nickname Desta83 e Lupo77; un ragazzo e una ragazza che per caso si trovano a scrivere in chat e tra alti e bassi non riescono più a fare a meno l’uno dell’altra. Non nuove sono le dipendenze affettive da schermo, ma qui forse c’è dell’altro.
Il volume è atipico, non rispetta molte regole quanto a questioni strettamente letterarie e narrative – in quanto non ne ha, né ne ha bisogno, e il suo contenuto spicca più nettamente rispetto ad esigenze di altra natura – quindi è inquadrabile piuttosto come un canovaccio che un romanzo, proprio in quanto a questa sua struttura. Si articola in cinque capitoli e in ognuno di essi troviamo un vero e proprio concentrato di fragilità umane, intimità, sogni, speranze, delusioni, incertezze legate al Sé e al Noi (realizzati, irrealizzabili, da realizzare).
In sostanza, Tu non sei bionda è l’incontro su una finestra di chat di due sconosciuti alle prese con una giornata storta. Elena è appena stata lasciata dal fidanzato, Andrea è alquanto misterioso sul suo passato ma pare vivere perennemente in modalità sarcasmo on, nascondendo chissà cosa, e soprattutto senza mascherare l’intento di provocare Elena fino al parossismo – non immaginando, invece, di aver scovato, nell’immenso universo di Internet, una perla piuttosto rara.
Ne L’esordio abbiamo infatti la strana modalità di approccio dei due. Tutto parte da una frase di Elena, il suo “status” nella chat in cui si è da poco iscritta; una vera dichiarazione di guerra all’umanità. Lui, da parte sua, curioso per natura (pur ammantandosi di un onnipresente scetticismo), non può fare a meno di sbirciarne il profilo, riuscendo a cogliere, nonostante la foto buia e proprio scherzando su di essa, il chiarore emanato dall’anima di lei, trovandone conferma nelle parole che come coltelli affilati piano piano cominciano a lanciarsi.
È su questo spunto che poi si sente la “necessità di leggersi ancora” (terzo capitolo), perché entrambi vogliono andare oltre le apparenze, pur consapevoli del rischio, alla ricerca, seppure attraverso un mezzo freddo come il personal computer, dei significati simbolici e non, insiti nel cuore della persona dall’altra parte dello schermo. La conoscenza (secondo capitolo) non è scevra, specie a fronte del medium usato per principiarla e approfondirla, di frizioni e fraintendimenti. Lui fa il cinico e lei risponde per le rime. A un certo punto si ha la sensazione che la conversazione sia del tutto compromessa e dunque lì lì per interrompersi.
Quando ci si siede dietro a una tastiera non è vero che si mente; spesso si è così “stupidi” – come diranno nel libro – da dirsi le verità più vere perché non si riesce proprio a mentire, si è come di fronte a uno specchio; si è svincolati dalle maschere del presente. Certo loro non se la mandano a dire; sono sfacciati e duri nei commenti, ma per qualche motivo non si sottraggono, da cosa nasce cosa; ci sono molta poesia e molti desideri inespressi nelle loro parole. Il pensiero si arrampica facilmente per le vie del turbamento, ed ecco che vengono meno le difese, anche se è tutto un rinfacciarsi, un affrontarsi, un mettersi a nudo per poi ricoprirsi.
Da subito è attrazione cerebrale, poi sessuale, infine attrazione emotiva, quasi un sentimento d’amore inusuale e pericoloso nella sua apparente grandezza. D’amore sì, perché è possibile provare grandi sentimenti anche a grandi distanze, perfino con l’evidente handicap della non conoscenza, perché spesso le anime si riconoscono prima delle abitudini e del resto. E laddove affiora l’intento sincero, la parola si fa bella, par addirittura letteraria tant’è sentita.
Conoscere l’altro da sé, in fondo, non vuol dire solo avere la vita in comune e da lì partire per incrementare un ipotetico legame. Conoscere è accogliere l’altro da sé, e probabilmente alcuni “esseri” riescono a connettersi più di altri. Connessione, una parola chiave in questo discorso. Verrebbe da chiedersi quand’è che si è veramente connessi con qualcuno, e la cosa brutta è che pochi, pochissimi, possono affermare senza problema di smentita, di esser connessi al proprio partner o anche solo al proprio quotidiano. Con Lupo e Desta invece affrontiamo la connessione con un approccio più approfondito, che esce presto fuor di metafora: la loro è vera connessione e ha bisogno sì di un mero collegamento telefonico, per mettere in comunicazione due cuori, due esistenze, milioni di pensieri, la probabilità dell’esistenza.
Approcciarsi, vedersi, parlarsi, scriversi, sono solo alcune delle cose che esperiscono Andrea ed Elena all’interno della chat, il loro piccolo privilegiato universo in cui un cuore è intoccabile di fronte a un altro cuore; in cui è facile essere delusi più da se stessi che dagli altri, perché piacersi è relativamente facile, confrontarsi è molto più dura.
Il momento critico ci sarà quando Elena sparisce da Internet per qualche giorno perché è a Roma per lavoro, la città di lui, e a seguito di un equivoco – o presunto tale – lui pur sapendolo non la chiama né le scrive un sms per dirle di incontrarsi. Lei per non sentirsi umiliata da un possibile rifiuto fa altrettanto, l’insicurezza ha la meglio; Andrea, invece, al ritorno di lei davanti alla finestra di instant messaging, contro ogni previsione, la rimprovera. La rimprovera per la lontananza ingiustificata. Spento un monitor, si dicevano, è come se non esistessero; l’assenza di Elena corrisponde dunque a un disaffermare la propria identità (disattendi chi sei nella virtualità dunque chi sei nella realtà ha mentito), di conseguenza la propria esistenza. Lui si pensa ingannato, perché su Internet è facile prendere grossi abbagli e fare la figura degli imbecilli a innamorarsi di un’estranea o dell’immagine di lei che si riesce a estrapolare dal contesto (si ama sempre l’insieme, ciò che è funzionale alla rappresentazione del concetto di persona, che sia faccia a faccia o via cavo ethernet).
La compagnia che si fanno è un tipo di intrattenimento virtuale, non fisico, e di fatto la “vicinanza” non si avvera a pc spento; non avviene in compresenza. Il bisogno di sentirsi va oltre quello di appartenersi, ma è anche bisogno di trovarsi forse unicamente lì, dov’è nato tutto e dove le cose sono destinate a restare tali “per sempre”, come se davvero si stesse rispondendo più a un copione che a una probabile iniziativa di vita. Per quanto fragile, un rapporto di siffatta natura risponde a esigenze probabilmente intraducibili altrove. È tutto troppo forte. Troppo alto. Troppo grande. Come si può tradurre una tale sete nel concreto? Le anime si appartengono anche attraverso i corpi, o si possono bastare, o si giustificano così, vicendevolmente, le probabili debolezze? L’incapacità di avere il coraggio dei propri sentimenti… Forse Andrea e Elena esperiscono cosa vuol dire “sentire” ad un livello così alto e senza rete che la paura di sfracellarsi vince la spinta alla passione. Lui è pessimista, lei crede ancora nei colpi di reni dei velocisti e insieme non se ne viene a capo.
La realtà, il quotidiano, si sa, tolgono poeticità ma anche sostanza, a certi sentimenti nati sull’onda di un trasporto inconsueto.
Elena e Andrea sono vittime di se stessi, ma contro ogni probabilità di riuscita non smettono di cercarsi pur facendosi male a vicenda, perché in loro persiste immutato un sentimento più pervicace: la paura del rimpianto; il doverselo ripetere all’infinito, che si è stati dei codardi. Quando si ha a che fare con del materiale umano è molto facile sbagliare rotta, ma persisterà ugualmente in coloro che hanno provato quel “qualcosa” che non si può così facilmente classificare, la necessità di curarsi (quarto capitolo), ricominciare (quinto capitolo). Leggersi ancora, perché leggersi è ciò che le persone smettono di fare pensando di conoscersi davvero, quando in verità, il più delle volte, chiudono libri diventati obsoleti col tempo.