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Il Paradiso Perduto
di Carmelo Viola
Pubblicato su SITO


Anno 2008- centro studi biologia sociale
Prezzo € f.c.- 227pp.
ISBN N/A

Una recensione di Nicola Lo Bianco
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Il Paradiso Perduto

UN DOCUMENTO UMANO

A Giovanni Verga, conterraneo dell’Autore, questo libro sarebbe piaciuto e lo avrebbe catalogato come un bell’esempio di “documento umano”.

Carmelo Viola, è un sociologo, il fondatore della BIOLOGIA SOCIALE, un uomo che ha dedicato la sua vita all’elaborazione di un pensiero originale nella prospettiva di un superamento “globale”, umano etico intellettuale, del “medioevo tecnologico” entro cui ancora ci costringe il cosiddetto “neoliberismo”.

Di questo suo libro di ricordi adolescienziali mi compiaccio molto, perché, tra l’altro, il C.Viola lucido pensatore e scrittore “razionale”, mostra qui apertamente e pienamente ciò che negli altri suoi scritti deve cogliersi tra le righe:la faccia dell’uomo che si intenerisce, quella delle emozioni, che ritrae l’incanto dell’ignoranza(direbbe Zavattini) o la semplice e istintiva fede religiosa dei personaggi che ritrae.

Sono i ricordi di Melo, un anno tra il 1940/41, trascorso in un piccolo paesino alle falde dell’Etna, in campagna coi nonni materni, contadini poveri, il “paradiso” per un ragazzo che va scoprendo se stesso dialogando con la natura, con la silenziosa saggezza dei nonni, con il proprio corpo che avverte le incipienti pulsioni sessuali.

Una specie di breve “romanzo di formazione”, che sarebbe potuto rimanere un semplice ricordo di famiglia, ma che invece si offre come uno spaccato di vita contadina sotto il fascismo non ancora debellato.

Modi di pensare, tipi di coltivazione, oggetti di uso quotidiano, sentimenti e stati d’animo:un “reperto”, diciamo così, antropologico, di grande interesse, perché vissuto emotivamente, come nativo di quel piccolo mondo, scrutato con gli occhi intelligenti, ma non ancora disincantati di un bambino.

La rappresentazione viva di un’umanità ormai “perduta”, inconcepibile oggigiorno, quasi del tutto sconosciuta, ma che, sembra dirci l’Autore, avrebbe ancora qualcosa da insegnarci: ad es., la sobrietà e il rispetto per tutto ciò di cui ci serviamo o con cui entriamo in relazione, dal ciuffo d’erba, al pane che mangiamo, alla vecchiaia di chi ci ha preceduti, di chi ha reso possibile il nostro stesso esistere.

Un’umanità intrinseca all’ambiente, alla terra, dalla quale dipendeva e (ma molti non se ne accorgono) dipende la sopravvivenza, un’umanità che ben conosceva il valore del cibo, del riposo, del sonno ristoratore, della parola anche che non era mai “chiacchiera” per far passare il tempo.

La miseria, la fame spesso, l’analfabetismo(ma non l’ignoranza, si badi bene!), la fatica senza adeguata ricompensa, ma erano gli occhi di un bambino per il quale il mondo si spoglia della durezza della concreta realtà:non era un mondo idillico, lo sappiamo, ma per il piccolo Melo, amato e accudito dai nonni, era il “luogo senza confini”, dove poter scorrazzare ad osservare la meraviglia dei frutti che crescono,dell’albero amico nei momenti di pensosità o compagno impareggiabile nei giochi, l’acqua preziosa, quella piovana che si tirava dal pozzo, la scoperta della femminilità nelle ragazze/cugine gia signorinelle un po’ più smaliziate, e i primi turbamenti amorosi.

L’amore che il ragazzo sente crescere dentro di sé è anche quello per la terra, per gli uomini che la vivono, per la misura morale e spirituale che essa trasmette.

Che cosa quel microcosmo abbia rappresentato lo lasciamo dire direttamente all’Autore:"Io ho la sensazione di essere nato dalla terra.I miei ricordi più vivi e più coinvolgenti…sono legati alla terra…Mio nonno Michele e mia nonna Peppina vivevano per la terra e della terra…Non dovevo avere ancora tre anni… quando ero già inconsciamente felice di trovarmi a contatto con la terra".

Il segno inconfondibile di quanto quell’amore sia cresciuto insieme all’uomo e allo scrittore, lo ritroviamo anche nel modo di raccontare:essenziale, sobrio, un racconto fatto di “cose”, dove i sentimenti si colgono negli atti e nei comportamenti, schivo nel proclamare gli stati d’animo, com’era proprio di un’umanità per la quale le parole non erano “flatus vocis”, ma corpo e sostanza degli oggetti e degli affetti.

La gratitudine e la felicità per quei giorni e quei luoghi nascono da una descrizione accurata e quasi puntigliosa dell’ambiente, come una carezza, quasi a voler rivivere fisicamente quegli spazi.O anche attraverso il muto riconoscimento della fatica, della generosità, della disponibilità che non attende ricompensa, come è il caso dell’indimenticabile figura dello zio Turiddu, il papà di Razziedda che sarà poi sposa devotamente amata dello scrittore.

Come indimenticabile è il racconto del giorno della fattura del pane che scaturisce dalle sapienti mani della nonna Peppina come un “miracolo”, l’accensione del forno, il profumo, il valore di quel pane, quasi un rito e un simbolo di quella vita.

Pur sotto lo sguardo, peraltro discreto, del C. Viola sociologo, questo “Paradiso Perduto” è a tutti gli effetti “un bel racconto”.

La lettura è piacevole, incuriosisce, spinge ad andare avanti, anche perché il racconto è dettato dalla semplicità, dalla genuinità dell’argomento, non ha incombenti pretese letterarie, ma risente certo della mano esperta dello scrittore di lungo corso.

Questo libro dovrebbe circolare tra i giovani, e anche tra i meno giovani, non solo per la conoscenza di un tempo per loro inimmaginabile, ma anche perché potrebbero meglio riflettere, a paragone, sull’ “universo orrendo” entro il quale, più o meno consapevolmente tutti quanti ci dibattiamo.

In questo senso, potremmo prendere nota del fervido invito di questo “combattente” scrittore a ritrovare un rapporto intrinseco con la terra:come dire, è possibile recuperare quella pienezza, quella stoffa di uomo, quella consistenza umana liberata infine dalla miseria, dal rischio della fame, dalla violenza distruttiva?

E’ possibile riportare l’umanità e coloro che ne guidano il cammino al senso del dovere e della responsabilità sociale, che sono poi gli insegnamenti primari che quegli uomini “analfabeti” hanno trasmesso al piccolo Melo?

Lasciamo l’ultima parola allo scrittore:"Chi dice che la tecnologia sia il filo conduttore e la misura del progresso -ovvero della crescita della civiltà e della felicità- delira".


Una recensione di Nicola Lo Bianco



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