Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie,
Vers le but où le sort dirigera mes pas,
Sans violence, sans remords et sans envie:
Ce sera le devoir heureux aux gais combats.
(Paul Verlaine, Puisque l'aube grandit, puisque voici l'aurore, la Bonne Chanson 1870)
L'effimero della passione, l'incertezza della vita e la paura dell'abbandono, sono già questi ingredienti sufficienti per un poeta che “deve” partorire la poesia più dura, la sua poesia più dura e mettere allo scoperto le cicatrici. Questa è stata la prima impressione che ho avuto leggendo L’abbecedario di Verlaine di Pierino Gallo (LietoColle 2012).
Già il titolo allude ad un’esperienza di nuova creazione, ad un elementarità del vivere e del fare poesia, che sottintende inevitabilmente un lungo tempo di attesa, un tardare volontariamente prima di lanciare tra indugi e apparenze il volo del Verbo. La partenza è possibile solo dopo tale gestazione e necessaria tensione.
Abbandonarsi al sintomo di questa agitazione non significa perdersi, ma anzi prendere consapevolezza di doversi rispecchiare nella parola tra rimandi e richiami testuali reali e immaginari, per dare volto a quel piccolo stralcio di verità che ciascuno di noi possiede.
Pierino Gallo c’è l’ha una verità e anche un “destinatario” di versi – A te/i miei narcisistici poemi – che è colui che vide, ora ricostruito poeticamente e razionalmente In un tremito/d'ali/riallaccio/quel riquadro/di luce.
Come anticipa abilmente nella prefazione Giada Diano, l’abbecedario è uno spazio di mezzo, dove si sfumano i confini tra racconto poetico e “confessione” privata in un intricato groviglio che intreccia vita e rimando intertestuale.
Il dolore di un amore finito lascia inevitabili ferite, che fungono da collante per avvicinarsi e assaporare nel profondo la poesia di Pierino Gallo, Come/si assaggia/il mare/al ventre/dei gabbiani
di me/resterà/altrove.
Così, quasi spontaneamente scorrono immagini di luce e buio in una notte lunga d’inverno, dove la sete d'amore è trattenuta da un continuo lamento e dalla proiezione di un altrove migliore, di là/oltre le tende/di luce e ghiaccio/dove/possiamo “andare”. I luoghi evocati sono le vie di Parigi e di Bruxelles, ma anche lo scenario del mare del suo paese di origine.
Attraversando fisicamente e poeticamente questi luoghi ne viene fuori una poesia di autentica musicalità e il suo ritmo è scandito dall’esperienza dell'amore, è arduo/capire/cosa/non t'assomigli. Sono l’evidente ostentazione dell'attesa incerta e l’esperienza vissuta come una litania che si consuma a fare assomigliare la poesia di Pierino Gallo ad un fiore perenne che fiorisce e riaffiora stagione dopo stagione: è lo stesso fiore, ma mai uguale: rinnego/il banale/esser sempre/me stesso. Il poeta, dunque, avendo radici profonde nel suo essere, basta a se stesso: morire/ormai/non mi appartiene.
I riferimenti intertestuali di Rimbaud, Verlaine e Neruda, oltre a testimoniare la conoscenza professionale dell’autore, sono in realtà intimi punti di riferimento che non turbano affatto il suo poetare. L’autore non alimenta volutamente la loro eco, così importante e ingombrante, ma percepisce la loro presenza come anime guida che stanno lì, nel suo profondo, anticipando il bisogno di non farsi distrarre da queste care figure e di dar voce ad una propria esperienza poetica autentica, pur umanamente simile ad altre.
Nulla può impedire il fluire della poesia, anzi il bisogno di re-inventare la realtà e re-inventarsi urge e fa da leva per poter uscire dallo stallo di una società che non appaga: Per te/voglio/inventare/un Cristo/e piangerlo/negli attimi/sinceri.
Il mondo del poeta è avaro e la poesia rimane l’unica casa dove si può specchiare e da lì trarre quelle parti di verità che meritano organizzazione e protezione. Nel suo sentirsi estraneo e alienato, egli è allo stesso tempo radicato nel Verbo (E torno/pura realtà/a ridisegnarmi/ora posso difenderti/luce/ora posso odorarti) e con convinta ingenuità percorre i misteriosi sentieri, forse gli stessi compiuti dall'anima per incontrare il mondo.
In questo senso l’Abbecedario è un opera di ricostruzione dell'unità tra anima e mondo; è la sua coscienza esistenziale a dare forma al pensiero trasformando l'esperienza personale in universale. Solo così il suo abbecedario tanto atteso, osservato, vissuto, sofferto, può essere condiviso con il lettore che si vede “costretto” a giocare tra specchi chiari e annebbiati, fino a dover sentire il suono autentico del puro cristallo. Ciò che appare è solo esitazione, il vero aspetto delle cose va ricercato, intuito, tastato con tutti i sensi.
Non appena termina la danza della sua finzione, l’amore svanisce, il dolore diventa l'unico sentiero da percorrere e dall'unica immutata certezza dell'assenza (quella,/sapevo già/che avrebbe punto/a fondo) nasce la poesia più sincera.