Gianluca Liguori è uno scrittore vero. Me ne sono reso conto leggendo il suo racconto di apertura contenuto nell’antologia collettiva Il cagnolino ride, edita da Tespi. Il breve testo, molto autobiografico, tipico dello scrittore che vuole solo di raccontare se stesso e il mondo che ruota attorno alla sua esigenza creativa, mi ha fatto venir voglia di approfondire la conoscenza del giovane autore. Ho scritto a Nicola Pesce e mi sono fatto mandare Dio è distratto, felice romanzo d’esordio che Liguori scrive a soli ventidue anni. La sola cosa sbagliata del libro è la postfazione di Vincenzo Sparagna che avrei evitato di pubblicare. Il fondatore di Frigidaire - che non finiremo mai di ringraziare per l’originalità della sua opera - è un autore importante per Liguori, ma Sparagna invece di mettere in luce le cose buone del romanzo, elenca soltanto i difetti. Non è certo il modo migliore per incoraggiare un giovane di talento.
Dio è distratto ci presenta un autore che può fare grandi cose se riuscirà a liberarsi della voglia estrema di raccontare solo se stesso e se comincerà a lavorare su trame e soggetti. Non voglio fare di Liguori un narratore di genere, ce ne sono fin troppi e onestamente credo che servano a poco. Vorrei soltanto vederlo all’opera con un racconto che abbia uno sviluppo logico e che sia impostato per narrare una storia. Credo proprio che questo ragazzo potrebbe darci delle sorprese.
Veniamo al non romanzo d’esordio, che Liguori scrive - e questo mi fa un grande piacere! - in contrasto a ogni regola di scrittura creativa, mettendo un se stesso scrittore nei panni del protagonista. Da ogni pagina debordano i suoi miti letterari: Bukowski, Fante, Celine, Pasolini, Kerouac, Rimbaud, Baudelaire, ma anche le canzoni di Rino Gaetano e di Fabrizio de Andrè. Mi stupisco soltanto nel rendermi conto che si tratta dei miti della mia generazione. Cos’è accaduto negli anni Ottanta, se i ragazzi del 2000 sognano ancora tuffandosi nel passato e accarezzando i nostri stessi sogni?
I racconti di Liguori non sono legati da un filo logico coerente, ma le cose migliori vengono fuori quando meno te le aspetti, tra una sbronza e l’altra, tra un amore fallito e una speranza che sboccia, in un sottofondo composto da istanze di suicidio e voglia di rassegnazione. Scrivere è la sola cosa che conta. Tutto il resto è inutile. Liguori crede nel potere salvifico della letteratura, vista come resistenza e come vita vera contrapposta alla non vita della televisione e dei falsi miti contemporanei. Ore ammazzate davanti al televisore, il verbo è apparire: la scatola è verità sacrosanta, verità assoluta. Non esiste sostanza, non esiste individuo. Si lavora, si mangia, si guarda la televisione, si fanno i figli e si muore. Mica è poco. Vorrei far leggere Dio è distratto ai soloni che pontificano sulla leggerezza dei giovani, sui bamboccioni e sulla generazione allo sbando. Voi siete allo sbando, signori. Voi che siete rimasti senza ideali e che vivete per comprare il prossimo paio di Nike. Non i giovani. Non tutti i giovani. E ancora: C’è chi dovrebbe riflettere di più e chi di meno, non c’è alcun giusto equilibrio; quelli che capiscono e pensano sono sempre di numero inferiore, mentre è straripante la stupidità della massa informe, la massa identica che lavora, guarda la televisione e muore. Concludo citando una stupenda descrizione sentimentale di Roma, città di arrivo per Liguori, che trova lungo antiche strade il luogo adatto per dare via libera alla scrittura. Faceva caldo, il Tevere verde scorreva tacito come da millenni di storia verso il mare, verso dio, verso l’infinito. Roma quasi abbandonata, Roma troppo bella. Roma colpevole di alcuni miei peccati, Roma avara di felicità. Roma che giudica, Roma che disperde. Roma che fa male, Roma che si ama. Roma… chissà. Mi fermo perché c’è così tanta poesia nel libro di Liguori che mi verrebbe voglia di citarlo tutto. Tenete presente che Dio è distratto è un romanzo importante non tanto per le cose che dice, ma per come le dice. Il significante supera il significato, una volta tanto. Ed è bellissimo perdersi dietro le parole di uno scrittore che vuole scrivere solo di dolori, paure, sconfitte, canti disperati, pene, patimenti e tribolazioni. Plauso finale per il piccolo editore. Il libro non presenta refusi di sorta, è stampato in ottima veste tipografica e viene venduto al prezzo stracciato di dieci euro. Al posto dell’ultima boiata di Faletti o dell’ennesimo inutile Premio Strega pompato dai media, leggete Liguori. Risparmiate denaro e vi resta dentro qualcosa.