Il ponte può essere sia un’opera architettonica generata spontaneamente da madre natura che una costruzione edificata dall’ingegno dell’uomo per congiungere due luoghi altrimenti separati per cause diverse quali un fiume, una gola tra due montagne, uno strapiombo tra due lembi di terra. Parimenti, il ponte può essere una proiezione virtuale che la mente elabora per superare gli ostacoli che si affacciano quotidianamente nell’esistenza umana. Il ponte, insomma, sia in senso reale che figurato, rappresenta l’andare avanti, il superamento delle difficoltà, il proseguire oltre nonostante tutto…
E IL PONTE DELLE VIVENE, opera di esordio del promettente autore Davide Dotto, rispecchia egregiamente le funzioni reali e immaginarie appena illustrate.
Nell’ambientazione del romanzo, il ponte è fisicamente esistente: fatto di corda, si protende, nascosto da un vecchio maniero, su un profondo precipizio nell’amena località di Valchiusa nel Trentino. Una natura rigogliosa, padrona incontrastata e incontaminata, avvolge le due opposte sponde, da esso collegate.
Proprio tale vetusto e precario ponte è testimone e complice, al contempo, della nascita della leggenda delle Vivene da cui prenderà il nome.
La Vivena, infatti, entità dal carattere vendicativo, volubile e irrequieto tesserà la trama del romanzo e con i suoi capricci, le sue ostinazioni e i suoi imprevedibili slanci d’amore (non del tutto disinteressati…), sedurrà il lettore.
L’inserimento di tale figura sovrannaturale, propria della migliore mitologia classica, è l’apporto qualitativo che Davide Dotto ha scelto per donare forza e originalità al suo romanzo.
Non una fata, un elfo o una ninfa che trasformerebbero IL PONTE DELLE VIVENE in un’opera fantasy ma un vero e proprio romanzo storico perché l’essenza o per meglio dire lo spirito di cui è composta la Vivena, che per “umanizzarsi” ha bisogno di rinchiudersi in un corpo femminile, cavalcherà vari secoli svelando usanze, costumi, riti, odori, sapori, antagonismi, amenità, sogni, speranze e angosce, nonché i conflitti sociali e le frustrazioni personali dei nativi e del loro territorio di cui è padrona incontrastata.
Secoli bui in cui l’umana esistenza è indissolubilmente vincolata ai cicli e alle leggi della natura madre amorosa e prodiga, ma, ancor più spesso, matrigna egoista e spietata.
Secoli lugubri in cui la guerra avvolge nel suo nero sudario l’Europa intera.
In un periodo in cui il valore della vita raggiunge il suo punto più basso, la Vivena, come il genio della lampada, può esaudire i desideri di chi la invoca. La differenza sostanziale con la nota favola di Aladino è che la Vivena pretende una contropartita con interessi assai esosi quale compenso per i favori concessi.
Terribile Erinni greca, dunque, o compassionevole Hathor egizia? Al lettore la fatidica “ardua sentenza”!
“«Qualcuno l’ha fatta grossa» cominciò a dire [Marterus], «le han mancato di rispetto ed ecco che la Vivena se la prende con il paese.»
«Sei tu che le hai mancato di rispetto? È te che dobbiamo ringraziare per questo tempo da lupi? Sei tu, in fondo, quello che ha maggiori probabilità di incontrarla» disse di rimando l’oste, prendendolo in giro.
Marteus sorrise.
«Certo, bisogna prestare attenzione. Quanto si domanda lo prende alla lettera. In passato coloro che vi ebbero a che fare sarebbe meglio fossero nati muti. Mio nonno, per esempio, prima della Rivoluzione, aiutò una ragazza a sciogliere i capelli da un intrico di ramaglie. Lei, riconoscente, gli chiese se avesse una grazia da domandare, al che lui rispose scherzando: ‘Vecchio e malandato come sono, chiedo di vivere serenamente e in salute almeno l’anno che viene’. Lo disse così per dire, un suo intercalare famoso, un modo di allungarsi la vita… la donna lo prese sul serio. Il vecchio non stava poi tanto male, aveva poco più di cinquant’anni, acciacchi lievi. Visse un anno in perfetta salute… Sbrigò il lavoro di sempre con nuovo vigore e buona lena. Dopo un anno esatto morì, senza accorgersene, davanti al fuoco. E dire che di anni poteva camparne altri venti o trenta.»
Poi, in attesa che la tormenta si sfogasse, raccontò un secondo aneddoto.
La Vivena, avendo scorto un fiaccheraio che procedeva per la sua strada, lo fermò con un cenno della mano.
Lui le domandò se avesse di che pagare. La Vivena vestiva del suo liso manto scuro ed era priva di bagagli. Levò il cappuccio, rivelandogli il volto. Non fece in tempo a pronunciare una parola che il vetturino bofonchiò: «Salite, prima che cambi idea!»
Non le domandò chi fosse, da dove venisse e questo la colpì.
Seduta sul retro e silenziosa, la donna percorse la strada fino al paese a bordo di un ballonzolante barroccio, il quale arrancava tra stradine strette e il terreno scabro, con i cerchi fuori dalla carreggiata,
Il fiaccheraio, poco loquace nel corso del tragitto, le confidò che riteneva sorprendente che i cavalli, durante il cammino incidentato, non si fossero agitati e che le ruote non fossero uscite dal loro asse. Eppure il terreno era fradicio e franoso a causa delle recenti piogge, più sconnesso che in precedenti occasioni.
«Mi avete portato fortuna, signora. Non è da tutti rabbonire le mie bestiole. Ora potete scendere, oltre non vi posso accompagnare.»
«Qual è il vostro più grande desiderio?» gli domandò lei, volendo ricompensare la cortesia.
«Semplice», le rispose diffidente, «ho da tornare sano e salvo dalla mia bella e ho ad attendermi il mio bicchiere di rosso. Altro non ho da cercare».
«Bene, accettate il mio consiglio. L’avete detto pure voi che ieri sera ha piovuto così tanto che è destino che le colline franino. Ma non sapete che le più pericolose e prossime a smottare appartengono al promontorio del Nord. Vi conviene evitarle e imboccare l’opposto versante. La strada è scomoda e lunga, ma non insidiosa. Procedete lentamente, non sforzate troppo i cavalli e vedrete che stasera, come avete domandato, giungerete sano e salvo dalla vostra famiglia e dal meritato bicchiere di vino.»
«… che berrò alla vostra salute» rispose lui.
Solo allora l’uomo comprese chi avesse davanti. Sbiancò nel considerare che se non l’avesse fatta salire… No, il buon uomo non ci voleva pensare. La Vivena non gli rivelò quindi che se le avesse domandato la ricchezza, gli avrebbe consentito di scovare dell’oro in gran quantità. Ne conservava una buona scorta proprio là, tra i poggi intrisi d’acqua più di una spugna, nei promontori del Nord.”
Ineluttabilità, predestinazione, pathos, simbolismo, morale sono gli ulteriori ingredienti che fanno de IL PONTE DELLE VIVENE un ottimo romanzo dalla lettura scorrevole e dal ritmo serrato e incalzante.
Ma cos’è la Vivena in realtà? Questo essere il cui sguardo è senza tempo e al cui cospetto ci si scopre piccoli e nudi? È la sorte, il destino, il fato nella loro accezione più classica?
A mio avviso è l’unione dell’immanente con il trascendente, il D.N.A dell’universo, i corsi e i ricorsi della storia, il valicare l’invalicabile, l’essenza stessa dell’umana esistenza… in una parola: è il mistero della vita e ritengo che proprio su un così sconfinato ed alto concetto, Davide Dotto attraverso IL PONTE DELLE VIVENE, ci invita a riflettere.