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Il Barone
di Giuseppe Antonio Martino
Pubblicato su SITO


Anno 2019- Vincenzo D’Amico
Prezzo € 15- 283pp.
ISBN 9788899821579

Una recensione di Giuseppe Tripodi
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Il Barone

C’è una crisi del mestiere di storico in Calabria; essa si riflette in molteplici libri che provengono da autori inseriti in contesti apicali della politica, della magistratura e di accademie più o meno autorevoli che, però, con la Musa Clio non hanno niente a che fare.

Da ciò ricostruzioni che puzzano di improvvisazione lontano un miglio, da ciò la scarsa dimestichezza con discipline che da sempre fanno parte dell’officina dello storico (sociologia, filologia, letteratura, archivistica, scienze dell’uomo e naturali) e che vengono ignorate per lasciare campo ai lessici, alle tecniche, alle idiosincrasie del mestiere di provenienza dell’autore.

Nel 1985 Piero Bevilacqua e Augusto Placanica, coadiuvati da una squadra di collaboratori di prima scelta, pubblicarono presso Einaudi una storia della Calabria di ben mille pagine senza fare posto alla storia della criminalità; da alcuni decenni non esiste sintesi di storia calabra che non sia zeppa di inserti ’ndranghetologici e diverse sono le opere che parlano solo di criminalità organizzata con l’occhio del magistrato inquirente o del capitano dei carabinieri, applicando a ritroso i molto discutibili paradigmi derivati dalla vita professionale.

Così siamo stati sorpresi, nella Storia segreta della ’ndrangheta (1860-2018) di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso pubblicata lo scorso anno da Mondadori, di trovare attribuita al commissario di polizia Vincenzo Mangione, a p. 55 senza alcuna indicazione di fonti, la notizia che a provocare lo scontro tra Vincenzo Zoccoli e Giuseppe Musolino (che poi diede luogo alle condanna di quest’ultimo e alla successiva fuga con le conseguenti vendette) e a dare la stura alla rissa «sarebbe stata la decisione di Zoccoli di lasciare la picciotteria» perché invaso dal timore di essere tosto o tardi colpito dalla legge».

Ora, a parte l’uso del condizionale (tempo verbale che dovrebbe essere tabuizzato per lo storico) e delle virgolette alte per delimitare un inciso di cui non viene indicata la provenienza, non è chi non veda in controluce il paradigma pentito sol - contro associati impenitenti che gronda da molte ricostruzioni di magistrati inquirenti nonché da altrettante pronunce giudiziali nei maxi-processi alla criminalità organizzata degli ultimi quarant’anni.

E la vicenda di Musolino, per lungo tempo sopita nell’opinione pubblica e nelle attività degli storici, è stata richiamata da qualche tempo nelle pagine di pubblicisti che mirano a includerlo tra gli affiliati alla ’picciotteria’, forse antenata della moderna criminalità organizzata calabrese.

La tesi è insostenibile. Musolino si difese con veemenza da questa infamia al processo di Lucca e, più di cinquant’anni dopo, rispondendo alla domanda se fosse stato o meno affiliato all’associazione criminale, diede una risposta ormai assolutamente disinteressata e molto verosimile: «Loro a me mi volevano per la questione dell’onore, ma io non ci volli andare perché lì dentro ci sono troppe infamità» (CD Elca Sound-2002 Il brigante Musolino con la voce autentica di Musolino registrata nello studio del Prof. Neri all’Ospedale Psichiatrico di Reggio Calabria).

Questa lunga premessa aiuta a recensire il romanzo storico IL BARONE di Giuseppe Antonio Martino (D’amico Editore, Nocera Inferiore 2019) avente ad oggetto la vicenda di Fortunato Pellicanò (1875-1900), bracciante di Melicuccà (Reggio Calabria) che «si vantava di non avere padroni e se la prendeva con quelli che si sentivano ’gnuri’, specialmente con chi era stato prima borbonico e da quando non aveva più il vecchio padrone, ..., si era messo a culo a ponte con i piemontesi ... che avevano mandato il generale Cialdini per tappare la bocca , ..., a quei poveracci che loro chiamavano briganti e che cercavano lavoro e pane ...»(p. 77)

A un nobile di Melicuccà, che approfittando della miseria generalizzata abusava delle povere braccianti che lavoravano nelle sue terre, il Pellicanò aveva mandato la seguente imbasciata: «Digli al cavaliere di chiamare chi vuole nella casetta, ma se guarda a mia sorella gli taglio la testa di netto a netto e non gli do il tempo di dire Cristo aiutami»(p. 71).

Per quella minaccia il giovane venne proscritto dalle attività lavorative di Melicuccà, governate dal minacciato e dai suoi scherani, e fu costretto ad andare a lavorare in una segheria in agro di Sant’Eufemia in Aspromonte; lì, in una delle lunghe notte invernali, bussò alla sua baracca Giuseppe Musolino nel pieno della sua latitanza: « I ricchi lo chiamavano brigante, ma i poveracci di tutti i paesi dell’Aspromonte raccontavano grandezze di lui, dicevano che in tante occasioni aveva fatto del bene a tutti» (p. 91).

L’autore, diversamente dagli pseudo-storici menzionati sopra, ha ben chiara la differenza tra la picciotteria e il brigante stesso che così parla: «Quei giudici ... si sono messi d’accordo con gli altri

ladri che stanno al governo e sopra alla mia testa hanno messo una taglia di cinquemila lire ... ora pure gli ndranghetisti, che in certi momenti mi hanno chiamato fratello perché gli conveniva, mi tengono buono e forse sono pronti a vendermi per trenta denari» (pp. 89-90).

Nella trama successiva il segantino si apprestava a favoreggiare il brigante trovandogli un nascondiglio nelle campagne del suo paese quando i mafiosi al servizio del cavaliere lo tradirono e lo fecero arrestare; mal difeso, in una procedura per direttissima che solo eufemisticamente poteva definirsi «sommaria», Fortunato Pellicanò venne condannato ad una pena ultraventennale.

Poi una evasione durata alcune settimane e un nuovo arresto durante il quale egli venne torturato e ucciso da militari e secondini che avevano il dente avvelenato per non aver potuto arrestare il brigante Musolino; sull’ultima di copertina l’autore riproduce un appunto, redatto il 6 novembre 1900 «ad futuram rei memoria» dal sacerdote Carmelo Genova, in cui si parla di suicidio ma i parenti furono convinti da subito che questa versione era priva di fondamento: «Frati, fraticeju meu ... t’ammazzaru ... Quale cinta dei pantaloni ... se quel pezzo di corda che aveva legato alla vita, è sicuro, gliela avevano presa con i lacci delle scarpe, prima di farlo entrare in carcere? Mia mamma mi ha detto che quando lo ha visto si teneva i pantaloni con le mani ... » (p. 273)

A supporto della tesi enunciata nel pianto della sorella, l’autore riproduce (pp. 282-283) il certificato di morte redatto dall’ufficiale d’anagrafe del comune di Oppido Mamertina in cui non si parla punto di suicidio.

La diegesi del romanzo risulta di buon livello mentre la lingua è impreziosita da riferimenti lessicali dialettali relativi alla raccolta e alla molitura delle olive (non per nulla l’autore ha pubblicato nel 2010 un monumentale Dizionario dei dialetti della Calabria meridionale).

Interessante il back-ground culturale dell’autore che, diversamente dall’editore in forte odore di tradizionalismo, è stato in lunga dimestichezza con uno dei cenacoli più vivaci della cultura novecentesca calabrese: il circolo Gaetano Salvemini di Vibo Valentia, animato da Francesco Tassone e Nicola Zitara già negli anni sessanta del secolo scorso, nonché la rivista Quaderni calabresi con le edizioni «Qualecultura» che ne sono state dirette emanazione nei decenni successivi.

Le edizioni «Qualecultura» hanno infatti ospitato diverse pubblicazioni di Giuseppe Antonio Martino ed egli figura nella redazione dei Quaderni del Sud-Quaderni calabresi che per molti anni erano stati Quaderni Calabresi-Quaderni del Mezzogiorno e delle isole (con la partecipazione del Circolo «Città – Campagna» di Cagliari e di cospicui lacerti del sardismo eterodosso).

Quindi, ad avviso del recensore, ascendenti discreti del romanzo non sono tanto le teorie neoborboniche, oggi così di moda, quanto gli scritti di Nicola Zitara che interpretavano la questione meridionale come una conseguenza della conquista coloniale del Sud da parte dei piemontesi: L’Unità d’Italia Nascita di una colonia si intitola il più importante scritto teorico dell’economista sidernese ancora oggi ristampato dall’editrice «Jaca Book» che aveva diffuso in Italia le teorie del faro dell’anticolonialismo, il sudafricano Hosea Jaffe.


Una recensione di Giuseppe Tripodi



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