Non conoscevo Vikram Seth. Cioè, diciamolo meglio: sapevo chi era ma non avevo mai letto niente di suo. Un’amica tedesca che ho incontrato casualmente sulla rete e con cui è nata una piacevole amicizia, scaturita da un magico Lied di Schubert, un giorno mi ha fatto una sorpresa. Mi ha inviato un libro di Seth, An Equal Music, che è stato tradotto in italiano col titolo Una musica costante vent’anni fa. Ci teneva che lo leggessi perché vi si parlava molto di Schubert e di come la musica fluisse continuamente nelle nostre vite, di cosa fosse la musica, uno strumento, di come si facesse la musica insieme agli altri, di una malattia che colpiva un musicista, come fossero le vite di chi vive di musica, eccetera. Per me che musicista lo sono avrebbe potuto essere anche un approfondimento interessante. Dopo avere aperto il pacchetto con gioia e sorpresa, dopo qualche ora iniziai a leggerlo, un po’ perplesso all’inizio, perché era in inglese e perché, nonostante lo capisca e lo parli e lo traduca, non è un idioma che ami particolarmente per la letteratura. Certo, davanti a Shakespeare, Dryden, Donne, Dickens, butto le mie riserve in cantina e ne riconosco l’immensità, ma faccio lo stesso un po’ fatica a leggerlo. Eppure An Equal Music aveva già dall’inizio qualcosa di speciale: era un romanzo però aveva una colonna sonora nel sottofondo, la musica fluiva tra le parole, io conoscevo molti di quei brani di cui Seth parlava e tra i quali si muovevano i personaggi, era come vivere tra loro, prendendo le parti ora di questo ora di quell’altro, condividendo aspirazioni, sentimenti, gusti... Mi immersi.
Fin dall’inizio si intravede il rapporto speciale che lega il protagonista narrante, Michael Holme, secondo violino di un famoso quartetto d’archi londinese, al suo strumento, un prezioso violino italiano del Settecento, un Tononi. Chi non sa che un musicista è anche il suo strumento non può capire fino in fondo il rapporto strettissimo che li lega e, in generale, cos’è un’esecuzione musicale dal suo punto di vista. Uno strumento forma fin dalla più tenera età il suono di un artista, la sua particolare maniera di comunicare attraverso le note che riesce a trarre da quello strumento, le vibrazioni che lo strumento produce nell’aria, i fraseggi che l’artista riesce a fare in quel modo solo su quello strumento e non su altri. Determina, in sostanza, il linguaggio proprio di quell’artista. E questo vale per i violini come per i violoncelli, per i flauti come per le chitarre, per gli oboi come per i pianoforti. Cambia, se si usano corde di budello o corde di metallo, cambia, se si usa un’accordatura oppure un’altra, cambia, se viene usato un legno invece che un altro... Anche un fantino, se cambia il cavallo con cui si allena, non ha lo stesso risultato, così un motociclista o un automobilista coi loro mezzi, così uno scultore che abbia uno scalpello che meglio risponde alle sue esigenze, un cuoco che si porti dietro tutti i suoi tegami di rame e disdegni quelli in inox. Beethoven, Liszt, Chopin e molti altri richiedevano strumenti speciali per inventare la loro musica e, se non avessero avuto certi strumenti, le loro opere non sarebbero esistite così come le conosciamo, essi stessi proponevano modifiche ai costruttori ed è a loro che dobbiamo l’evoluzione dei moderni pianoforti.
Il violino del protagonista del romanzo, seppure suonato da lui fin da quando era bambino, in realtà non gli appartiene. È un prestito, una gentile e generosa offerta da parte di una vicina di casa, amica di famiglia, ex violinista. Costei, intravisto il talento del ragazzo, peraltro osteggiato in casa da un padre che nello strimpellare del figlio vedeva la musica solo come un hobby e nient’altro, decide di prestargli quello strumento inestimabile, che chissà quali altre mani preziose avevano suonato nei secoli. Questo legame, fortissimo ma sempre coll’impressione da parte del violinista che il suo strumento non sia mai veramente suo, è costantemente messo in pericolo, appunto, dal fatto che la proprietaria dovrebbe includerlo nell’eredità del suo insensibile e avido nipote e delle sue bambine, tre mocciose viziate e inutili come il loro padre. Così il violino è sempre visto dal musicista come un ospite, un amico inseparabile ma colla consapevolezza che un giorno partirà per altri lidi e dell’ancora più triste coscienza delle difficoltà economiche di un musicista (a meno che non sia una star come un Isaac Stern o una Anne Sophie Mutter), per cui sarà molto difficile trovarne uno adeguato per le proprie disponibilità. C’è anche uno straziante episodio, nel romanzo, di un’asta di strumenti musicali antichi, dove il primo violino del quartetto, peraltro un personaggio parecchio antipatico e acido, vorrebbe acquistare uno strumento migliore per poter esprimersi meglio ma, nonostante le promesse e le assicurazioni del banditore, il violino viene battuto per una cifra che lui non può permettersi, rinunciando così a un capolavoro che per lui avrebbe potuto essere una nuova voce, un arricchimento per sé stesso, per il quartetto, per il pubblico, per la musica. Michael, dopo tante vicissitudini, crisi, rinunce, con l’abbandono della carriera e senza più voglia di suonare, ormai rassegnato alla perdita del violino, sarà però premiato, nel finale, dal lascito dell’anziana signora: in punto di morte, in presenza dei suoi legali, la vecchia amica deciderà di affidare a lui, e solo a lui, senza condizioni e senza tasse di successione, il magnifico Tononi, rendendoli così realmente inseparabili. E qui si pone anche l’attenzione sul problema della sopravvivenza di patrimoni inestimabili di artisti soli, senza discendenze o con discendenze orribili, che si disperdono e non conoscono una continuità, senza degli eredi che possano capire il valore immenso di cose salvate e racimolate nel corso di una vita votata alla bellezza, all’arte, alla musica, di quanto queste cose possano essere importanti per tutti, per capire meglio chi siamo e dove viviamo. Ma questa è solo una delle mille facce di questo romanzo, fondamentale, certo, e complementare a molti altri aspetti di questa realtà quasi periferica rispetto alle vite normali della gente.
Ciò che si sente scorrere nel romanzo da capo a fondo, come se fosse davvero percepibile dall’orecchio, è una musica, costante, come dice il titolo tradotto in italiano. Fin dalla prima pagina, col violino di Michael che strimpella la linea del canto di un Lied di Schubert, che poi è La trota, si ha l’impressione di ascoltarne le note, le frasi, ed è molto difficile rendere l’idea di una musica senza che questa ci sia davvero. Certo, io conosco a menadito quasi tutte le opere descritte nel libro, e nelle descrizioni di Seth ne ho rivissuto le frasi, gli accordi, i momenti lirici e quelli drammatici... penso che non sarebbe così facile per chi quelle musiche non le conosce. Però mi piace immaginare che chi lo ha letto sia rimasto incuriosito da questi spettri musicali e abbia voluto dar loro un corpo, ricercando le musiche in questione. Un corpo... in effetti, una cosa impossibile per qualcosa che non ha un’essenza materiale ma che è solo una vibrazione dell’aria che pone in vibrazione a sua volta gli strumenti dell’orecchio interno, trasmettendo così l’esperienza al cervello che la decodifica e la cataloga come rumore, suono, musica. E qui, proprio sulla percezione, c’è un altro punto forte del romanzo. Julia, co-protagonista insieme a Michael, è una pianista straordinaria, che Michael ha conosciuto a Vienna, dove lui studiava con un maestro bravissimo ma dal carattere assai difficile, e colla quale ha avuto un’intensa storia d’amore, nutrendosi di sesso (appena accennato, con un garbo e una delicatezza rari), amore, musica. La musica ha una parte fondamentale in questa relazione, perché la pianista gli fa scoprire il giovanile Trio di Beethoven (riscritto dallo stesso come un quintetto, op. 104, alla fine della sua vita), e poi molte altre cose che rendono speciale una relazione tra musicisti. Quando Michael decide di lasciare Vienna perché non resiste più alle lezioni dell’amato-odiato maestro e non riesce più a suonare con libertà, cambia vita e, colla morte nel cuore, lascia anche Julia, pur continuando ad amarla. A nulla servono le lettere che le scrive poche settimane dopo e che non le saranno mai consegnate e i due finiscono col perdersi di vista. Per pura casualità, dieci anni più tardi, ma senza averla mai dimenticata e dopo una serie di coincidenze, il ritrovamento di musiche, di partiture e incisioni discografiche che bene o male riportavano a Beethoven, al trio e al quintetto dell’epoca di Vienna, Michael ritrova Julia, e riprendono a frequentarsi con degli incontri brevi e fortissimi, carichi di emozioni e affetto e contraddizioni, amore e sesso, delicatezze e stravolgimenti. Lei con una vita nuova, un marito e un figlio, lui con una pseudorelazione con un’allieva francese, ma in realtà senza un forte interesse per quest’ultima, rigovernano i frammenti di loro stessi, ormai non più combacianti per riformare il puzzle sospeso, ma, per quanto possibile, in qualche maniera cercano di ricomporli.
Lei ha un segreto atroce. Come Beethoven, sta perdendo gradualmente l’udito: la pianista la cui occupazione principale è fare musica da camera con altri non può sentire quindi la musica che ne viene fuori, può solo immaginare cosa possa succedere osservando le mani degli altri musicisti andare su e giù sulle loro tastiere. Il segreto viene rivelato a poco a poco e Michael ne è profondamente toccato e turbato. La mancanza di percezione del suono per un musicista è tutto, è una lettura del mondo, l’ascolto del canto di un’allodola (traslata nel pezzo di Vaughan Williams The Lark Ascending, quanta musica in questo romanzo...), del risuonare delle sonate di Manchester di Vivaldi in una chiesa veneziana, il vento nella brughiera inglese, il rumore di fondo delle città, la voce delle persone... Certo, questa percezione varia da strumento a strumento, perché il pianoforte non ha problemi di intonazione: una volta accordato i tasti suonano intonati. Un violinista o un cantante, senza avere il ritorno del suono dall’esterno, a meno di non avere l’orecchio assoluto, devono continuamente ricercare l’intonazione sulle loro tastiere, vere o virtuali. Ma il pianista che deve fare musica cogli altri deve calibrare il suo tocco, deve prender cura dell’insieme, della fusione dei suoni... la sordità è un impedimento enorme. Sarebbe come togliere la vista a un pittore, il mondo di colori e di linee, di spazi e di visioni, esisterebbe solo nel suo cervello ma non saprebbe, non potrebbe più riprodurlo.
Julia, a un certo punto del romanzo, si vede catapultata nella vita del quartetto perché il loro agente austriaco comune, a causa di una malattia improvvisa del pianista che avrebbe dovuto suonare col Quartetto Maggiore al Musikverein di Vienna, dove la società di concerti aveva richiesto nel programma l’esecuzione della Trota di Schubert, ossia un quartetto d’archi più un pianoforte, impone Julia come pianista. Con tutte le implicazioni sentimentali e professionali che ciò comporta ma di cui sono coscienti solo Julia e Michael. Nessuno nel quartetto sa del segreto di Julia, tranne Michael e l’agente. Tutto sembra andare comunque per il meglio, la prima prova ha solamente un attimo di esitazione da parte di Julia, ma nessuno si accorge della sua sordità. Solo le apprensioni di Michael insospettiscono il primo violino e da lì è tutto un crescendo di indagini e di pressioni finché la verità non viene a galla. La malattia, la sordità, orrendo spettro per qualsiasi musicista, viene così affrontata, compresa, digerita, tollerata, ma è sempre causa di tensione e di paure, in primo luogo per la pianista, che da allora in poi decide di non suonare più con nessuno se non da sola, situazione in cui può ancora fingere che la sordità non esista, conoscendo qualsiasi sfumatura della sua tastiera ed essendo capace di riprodurre la musica senza nessuna evidente manifestazione esterna della sua infermità. Sono pagine estremamente dolorose, dove ognuno vede le cose dal proprio punto di vista, spietate, se si vuole, ma molto vere, potrebbe succedere realmente. Fanno il paio con quella scena straziante del film Amata immortale (Immortal Beloved di Bernard Rose) dove Beethoven ormai sordo poggia l’orecchio sul pianoforte per poter sentire le vibrazioni della sua musica, nell’amplesso più intimo e più toccante del film. Sono descritte benissimo anche le agenzie, gli squali che spesso gli agenti sono, come determinino la carriera o il fallimento di un artista, o come invece alcune rare personalità, particolari, lo aiutino.
Quello che sconvolge ma che anche, alla fine, mette a posto tutto è Bach, con una partita per violino solo e una per pianoforte, fantasmi che volteggiano nella mente dei musicisti e nella radio di un taxi preso al volo da Michael, ma soprattutto con l’Arte della Fuga, pezzo commissionato da un’importantissima casa discografica per l’ultima uscita del Quartetto Maggiore e che poi diventa come per una nemesi la causa della sua disgregazione. Ed è lo stesso brano che suonerà Julia alla Wigmore Hall nel suo primo concerto da sola dopo la terribile seppur trionfale esperienza viennese insieme al quartetto. L’ambivalenza del genio di Bach: comunque sia arrangiato, funziona sempre, pur provocando smarrimento ed estasi, croce e delizia per esecutori e ascoltatori.
La musica costante scorre, accompagna ogni minuto della giornata di tutti i personaggi e dei lettori. Le città stesse, sfondo delle vicende dei protagonisti, Londra, Vienna, Venezia, vivono attraverso i luoghi della musica, le sale prova, le stanzette insonorizzate, le botteghe dei liutai, i conservatori, le biblioteche, la Wigmore Hall e Hyde Park, il Musikverein, il Danubio, la Chiesa di S. Maria della Pietà, la chiesa di Vivaldi, l’acqua della laguna, risuonano di note mute ma presenti. Descrivere ulteriormente Una musica costante è un’impresa impossibile, perché il romanzo è talmente pieno di eventi, di reazioni, di relazioni intrecciate tra i personaggi, rapporti familiari e professionali, musica, tutto così particolareggiato, che vorrebbe dire riscrivere il libro da capo a fondo. Di certo, questo romanzo dovrebbe essere letto da tutti i musicisti e gli appassionati di musica, dai fruitori dei concerti e della musica riprodotta, ma non solo da loro. Molti si riconoscerebbero nelle situazioni descritte, tutti scoprirebbero molte cose sulla musica e sui musicisti che spesso non si conoscono, non si valutano o non si pensa neanche che possano esistere. E, forse, potrebbero aprirsi per i lettori nuove vie alla maniera di ascoltare la musica, di studiarla, di proteggerla come una cosa santa. Se solo i nostri politici fossero in grado di capirlo e lo volessero, sarebbe utile, questo libro, per far loro comprendere quanto la vera musica sia necessaria per vivere e di come andrebbe difesa e non vilipesa, così come pure le vite dei musicisti, i sacerdoti che rendono intelligibile ai più quella giungla di segni misteriosi scarabocchiati sui pentagrammi.
Esiste anche un doppio CD, della DECCA, che include tutte le musiche di cui si parla nel romanzo, come la vera colonna sonora di un film. Ed ecco ciò che dice lo stesso Vikram Seth:
Perché allegare un CD, o due, a un romanzo sulla musica? Non è come aggiungere una balena a una copia di Moby Dick? O come mettere delle necessarie illustrazioni per spiegare meglio l’azione in un romanzo? O una musica di sfondo mentre si legge? O forse un surrogato del testo stesso, che cerchi di descrivere ciò che non può essere davvero descritto? Per ciò che mi riguarda non è nulla di tutto ciò ma solamente il gusto di dare un piacere in più. Alcuni brani che hanno un ruolo fondamentale in Una musica costante sono molto conosciuti. Tuttavia, come molti lettori mi hanno fatto notare, sono molto cari da comprare tutti insieme e in un caso è virtualmente impossibile. Quando la Decca suggerì di fare una compilation o, se necessario, registrarli e metterli in commercio a un prezzo ragionevole, ne fui contentissimo. La maggior parte delle selezioni non richiede alcuna spiegazione. Sono tutte registrazioni splendide, molte di esse a ragione considerate dei classici, con esecutori come Mstislav Rostropovich, Andras Schiff, Maria Joao Pires e Iona Brown, tra gli altri. Ma per il Largo della Sonata di Manchester n.1 di Vivaldi è stata fatta una registrazione ad hoc per violino e pianoforte perché, nonostante le molte incisioni, in tutte si usava, naturalmente, il clavicembalo. Mi fa un piacere speciale presentare per la prima volta un brano musicale agli ascoltatori. Molti lettori, musicisti inclusi, mi hanno scritto dopo aver letto Una musica costante, chiedendomi informazioni sul Quintetto per archi in re minore, op. 104 di Beethoven, come se io avessi avuto la sfacciataggine di inventare non solo un’opera inesistente ma persino un numero di composizione! È un’opera negletta ma adesso, grazie a questa nuova incisione, è possibile ascoltarla. Tra gli esecutori di questo e di altri brani c’è anche il dedicatario del romanzo, il violinista Philippe Honoré. È stata un’idea sua che il protagonista della mia opera fosse un musicista. Si sta così realizzando e rendendo possibile ascoltare dalle mie e dalle vostre orecchie ciò che, diversi anni fa, lui aveva infuso nella mia mente solo come un’idea senza forma.
Vikram Seth, Londra, Novembre 1999
Why append a CD - or rather two CDs - to a novel about music? Is it not rather like attaching a whale to a copy of Moby Dick? Is the purpose to provide necessary illustration for the action in the novel? Or background music for the act of reading? Or a substitute for the text itself, which can only attempt to describe what cannot truly be described? For me the aim is none of the above, but rather, to give pleasure. Some of the works that play a role in An Equal Music are well known, others less so. Altogether, they are expensive to buy (as many readers have told me), and in one case virtually impossible. When Decca suggested compiling, or if necessary, recording them, and making them available at a reasonable price, I was delighted. Most of the selections here require no explanation. They are all wonderful recordings, many of them classics in their own right, featuring, among others, Mstislav Rostropovich, Andras Schiff, Maria Joao Pires and Iona Brown. With the largo from Vivaldi’s Manchester Sonata no.1, a fresh recording for violin and piano was made because the existing recordings, naturally enough, use the harpsichord. It gives me particular pleasure to introduce one piece of music to listeners. Several readers, including some musicians, have written to me after reading An Equal Music, asking whether Beethoven’s String Quintet in C Minor, op 104, really exists - as if I would have the gall to invent not merely a fictive work, but an opus number as well! It is an obscure work, but now, thanks to this new recording, it is possible to hear it. Among the players of this piece and of others is the dedicatee of the novel, the violinist Philippe Honoré. It was his idea that the protagonist of my work be a musician. It is fitting that he should now bring to my ears - and yours - what several years ago, in the course of a casual conversation, he brought to my as yet fallow imagination.
Vikram Seth, London, November 1999