Dalla cacciata dei Borboni al terremoto del 1908.
L’immagine di copertina lascia trasparire piccole luci in lontananza, a guardia dello Stretto di Messina, mentre il rigoglio della vegetazione si apre un varco nel manto notturno. Il dipinto La flotta è dell’artista Thomas Edwin Mostyn (1863.1930). Il libro è Genius Loci di Maria Grazia Genovese, versatile artista siciliana, nata come musicista.
Se proprio vogliamo inquadrare Genius Loci in un genere letterario, per circoscriverne i contenuti, lo definirei un romanzo storico-sentimentale e per non risultare stucchevole non dirò che mi ha coinvolta fin dalla prima pagina, grazie a una descrizione poetica in dialetto siciliano che oserei definire animistica se non rischiassi di oltrepassare la linea del sacro:
/ Un cuore che ora, nella solitudine della notte, sussultava per questo vento insistente, che ad ogni folata sembrava voce – lamento – di lupo, di donna, d’anima in pena. /
Ma quanto c’è di sacro o profano nel riuscire a percepire, a registrare sensazioni che oltrepassano la logica concettuale?
Siamo corpo e anima, spirito e materia in un legame scindibile, forse, solo dopo la morte. I luoghi attraversati, vissuti, preserveranno nel tempo qualcosa che ci è appartenuto e che potrà essere trasmesso? Lasciamo osare il dubbio, certo è che vi sono anime capaci di percepirsi e questo non è dato a tutti.
Il “genius loci” è vita non manifesta, un ponte atemporale indefinibile avvolto nella magia del mistero, è il legame storico-culturale – passato e presente – che identifica i luoghi.
Maria Grazia Genovese nel suo romanzo riporta alla memoria, rigenerandolo, non solo un passato, risalente a un arco di oltre centosessanta anni – cacciata dei Borboni fino al terremoto del 1908 – ma con esso ciò che lo ha plasmato originando il presente.
Grazie al ritrovamento di un diario, in una vetusta dimora che ancora conserva tracce del suo vecchio splendore, il lettore sarà catapultato nella trinacria della seconda metà ottocento. Maria sembrerà alienarsi dalla quotidianità, attratta in maniera inspiegabile dagli scritti – il cui inizio è datato al 1859 – di colei che poi risulterà essere sua trisavola.
Per quale caso fortuito abbia deciso di comprare proprio quella tenuta, ora in fase di ristrutturazione, non ci è dato sapere o forse sì perché tra quelle pagine ingiallite, più che un diario, c’è un lascito spirituale che, una volta riesumato, rianima l’intero sito abitativo così come, sembra rinvigorirsi la stessa Maria rivivendo le vicende di Matilde.
Le due donne, in un’alternanza narrante con salti temporali magistralmente definiti, sono le figure centrali dell’opera ma non per questo uniche protagoniste. Infatti è impossibile considerare marginali i personaggi che si avvicendano nell’ordito della trama, ognuno dei quali fondamentale e caratterizzato con dovizia qual è, ad esempio, la figura di Pietro, destinato al sacerdozio per volere del padre.
Le sorti delle due famiglie prenderanno una svolta quando sboccerà l’amore intenso, passionale, che non lascia scampo tra Pietro e Matilde, per fortuna con risvolti diversi da Uccelli di rovo di Colleen McCullough in cui Padre Ralph e Maggie non riusciranno a unire i loro destini.
Nonostante il contesto spazio temporale che vede i siciliani svincolarsi dall’egida borbonica e i precisi riferimenti storici, sono le intricate vicissitudini familiari a tenere alta l’attenzione, in cui l’individuo non è mai consequenziale o completezza dei fatti ma è il fulcro dominante, l’uomo attivo, artefice delle situazioni e non passivo orfano di gesta. È l’uomo non dipendente o succube della Provvidenza, non è la Sicilia di Verga in cui un carico di lupini andato distrutto pregiudica la sopravvivenza familiare, devastata dal timore di non potersi opporre alle disgrazie ma è l’uomo che fa leva su se stesso, sui sogni, sulle ambizioni, che reagisce agli eventi e cerca di direzionarli partendo dalla conoscenza di sé – in un percorso di maturazione individuale – per arrivare a quella di un essere superiore che non è un dio/nominato, ma il bene supremo, l’Amore. (Pietro ne è assolutamente l’emblema).
“Infatti Dio è fonte di certezza dell’Io ma è l’Io che crea Dio” (E. Marco Cipollini – Viaggiarsi dentro, II edizione 2018).
E non è la Sicilia di Tomasi di Lampedusa, nonostante l’uguale contesto storico, anzi azzarderei a dire che Genius Loci è l’anti-Gattopardo, esula dalla rassegnazione in cui l’autoctono è aduso a subire gli eventi: / il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare” – principe di Salina, Il Gattopardo) e non si adegua per mera sopravvivenza racchiuso nell’apatia esistenziale, estraniandosi dai mutamenti in atto.
Nell’opera della Nostra non vi è lo stesso pessimismo – associato a quello leopardiano – o il disagio nell’accettare il cambiamento ma vi è la sicilianità palpitante di vita, idealista, combattiva e ribelle non impolverata dall’inattività o arresa al supplizio del pregiudizio.
Genius Loci narra l’altra sicilianità pregna di sogni, amore, passionalità, azione, genio e follia e forse i veri protagonisti sono proprio i sentimenti e le emozioni. I personaggi, che siano primari o secondari, hanno temperamenti forti e decisi, reattivi e non abulici, nel bene e nel male, irradiano il sole rovente della terra che li ha generati, tempesta e quiete del mare che li alimenta.
E sebbene il romanzo sia ambientato in un tessuto sociale di privilegio, nobiliare – in cui non mancano la mondanità, benessere e fasti dovuti all’agiatezza economica – il divario tra i ceti è elastico, non fratturale e il timore della perdita dei benefici legati alla casta è surclassato da una mentalità generosa e aperta al nuovo che incalza.
Un romanzo “giovane e fresco”, a dispetto della datazione dei fatti, per la modalità narrante con sequenze fluide e ben argomentate, in aggiunta a un costrutto solido intorno al quale le capacità creative, le abilità linguistiche e la ricchezza lessicale priva di ridondanze fungono da pungolo tenendo viva l’attenzione del lettore/fruitore anche grazie a pause poetiche, con liriche attinenti, che sottolineano l’eclettica natura artistica di Maria Grazia Genovese.
Lo stesso uso del dialetto giustamente contestualizzato, seguito sempre dalle traduzioni in lingua italiana, rende ancora più accattivante e veritiero lo svolgersi delle 390 pagine – Camilleri docet – grazie alla sagacia della scrittrice che riesce a dosarne l’uso, accorto, ben quantificato e mai eccessivo anzi pertinente a situazioni e personaggi così realistici da restarci attaccati addosso ed entrare così nella magia inesplicabile del “genius loci.”
Maria Grazia Genovese, classe 1962, messinese, pianista, per anni si è dedicata alla musica classica. Ha fondato il Cenacolo culturale Hortus animae di cui è presidente e nel 2017 crea la collana poetica Florilegio. Le sue opere sono state recensite da illustri critici letterari.
Ha pubblicato le sillogi poetiche: Tempo Lucente, Armando siciliano editore (2013); Elegia, Samperi Editore (2016); Nta lu strittu, Samperi Editore (2016); Sutta all'occhi di Scilla e Cariddi- poesie nella Parrata Missinisi, Samperi Editore (2020)