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Ballo ad Agropinto
di Giuseppe Lupo
Pubblicato su SITO


Anno 2004- Marsilio
Prezzo € 11,40- 152pp.
ISBN 8831784218

Una recensione di Maria Pina Ciancio
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 Ballo ad Agropinto

Solo da una periferia di mondo come Agropinto si poteva spiare un pezzo di paradiso

“Hai mutato il mio lamento in danza,
il vestito di sacco in abito di festa”
Salmi 30,12

Giuseppe Lupo è Lucano di nascita, ma vive a Milano, ed è uno di quegli scrittori che ha saputo arginare con intelligenza e coraggio i toni elegiaci o malinconici che abitualmente contraddistinguono la letteratura del distacco e dallo sradicamento. Con giocosa ironia e parodia ha costruito un libro dal ritmo narrativo vivace e godibile.
Copertina rossa e un disegno coloratissimo che richiama un quadro di Peter Brugel. Si presenta così “Ballo ad Agropinto”, un romanzo corale e antropologico dal sottofondo favolistico e magico, ambientato di una piccola comunità dell’Appennino Meridionale nel nord della Basilicata.
“Abitavamo alla periferia di Agropinto, in un villaggio di baracche costruite dal governo fascista, dopo il terremoto del 1930, tra pioppi, mandorli, ciliegi, peri, finocchi, cespugli di canne e felci”.
Quella periferia era il Fosso del Pidocchio, un regno di personaggi strani e inverosimili: Gioacchino, Tarzan e Iano, una combriccola di filabustieri che “la notte vegliava e il giorno scialava” e poi avventurieri, bevitori, acrobati, incantatori di serpenti, profeti, guaritori, amatori infaticabili, scommettitori litigiosi e screanzati.

Un romanzo più simile all’affabulazione che al racconto, che utilizza lo spirito umoristico per affrontare e raccontare il difficile passaggio epocale e il dramma del boom economico, in una terra marginale come quella di Lucania.

La storia di Giuseppe Lupo si snoda infatti nell’arco di un quindicennio, dal 1943 alla fine degli ‘50, periodo durante il quale la società contadina, attratta da sogni di facile fortuna emigrò verso il Nord. La vita dei protagonisti si intreccia alle trasformazioni imposte dal progresso e dalle lotte sociali. Attraverso questo microcosmo di vita, l’autore esplora anche i grandi eventi che hanno attraversato il paese: la fine della guerra, il referendum del ’46, l’arrivo della corrente elettrica nei paesi del sud, i lavori di ampliamento dell’aquedotto pugliese, i comizi elettorali, le lotte politiche tra democristiani e comunisti.

La struttura del romanzo è dinamica, incalzante, i personaggi vivono di “relazioni”, sembrano usciti da un quadro di Brugel e a loro modo sono tutti protagonisti, con le loro storie personali, le loro azioni, la loro arte di arrangiarsi. Tra tutti spicca la figura di Tano Ucciallì, uno stravagante inventore, consigliere e un po’ anche veggente, e per questo la figura più autorevole del villaggio.
“In fondo allo spiazzo d’erba scorreva il Pidocchio, un ruscello d’acqua opaca e dal sapore ferroso che dava il nome a tutta la zona. Chi beveva, raccontava Tano Uccillì, tornava a berla almeno un’altra volta prima di morire”.
A lui infine si deve la costruzione di oggetti stranissimi e complicati, quale il ventilatore spulagrano, lo sciaraballo a pedali, una giostra mastodontica, un nettascarpe a manovella.

Ne emerge un affresco leggero e ironico, picaresco direi, per il tono burlesco e comico della narrazione, per i nomi bizzarri e strani di luoghi e personaggi.

E’ poi interessante ritrovare nel romanzo gli indovinelli le filastrocche, le tradizioni di un tempo, come ad esempio la lista dei doni nuziali che i cittadini del Pidocchio preparano per le nozze di Tarzan e Maria Incoronata in Contrada Servitore: le batterie di pentole, la caffettiera napoletana, un setaccio per la farina, un paio di corna taurine contro il malocchio, un paiolo di rame, un orciolo di creta, una lanterna ad acetilene, un pitale di metallo smaltato.

Una realtà da cui l’autore non è estraneo, ma in cui si immerge fino a coglierne l’essenza (senza mai abbandonare la narrazione in prima persona) e di cui ci restituisce un mondo fatto di estrema povertà e “emarginazione”, ma di umana condivisione delle cose.
E anche quando alla fine del romanzo, una ruspa si arrampicò al casello del boschetto, perché era arrivato il giorno della demolizione delle baracche costruite durante il terremoto, tra delusioni, opposizioni, partenze, la consapevolezza unanime e solidale dei protagonisti che “solo da una periferia di mondo come Agropinto si poteva spiare un pezzo di paradiso”.


Una recensione di Maria Pina Ciancio



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