Leggendo Eleonora Rimolo
Nota di lettura a «Dell’assenza e della presenza» del Prof. Sergio Lubello
Copertina di Raffaele Sorrentino
Prefazione di Clara Vajthò
Nota di Andreas Ruiz Peralta
Un ossimoro, nel titolo e nella bipartizione di questa raccolta di poesie di Eleonora Rimolo, due antonimi, ma solo in apparenza se, come dice l’autrice, «presenza e assenza non sono poi così differenti. [...] Si possono anche invertire, per proprietà commutativa, ma il risultato del vuoto che lasciano non cambierà». Una sottrazione al quadrato, insomma, in cui però la poesia si fa spazio infiltrandosi ovunque, linguaggio unico, il solo, che sa dire, luogo salvifico in cui si trova senso di sé, forse la vera unica presenza. Ed è l’unico che sa parlare – ancora l’autrice – e come: Eleonora Rimolo non ama le strade battute da altri – topos che dai Greci in poi è sempre stato quasi esclusivo dei poeti, di coloro che “dicono” con parole altre. E lo fa in modo originale, pur densa la sua poesia di echi lontani, suggestioni letterarie, sedimentazioni di letture, forse di poesie predilette, quella memoria di poeti che fa sistema e che è ancora una volta anche comunicazione, di sbieco, e perciò presenza.
Le reminiscenze di cui è intessuta questa poesia sono un retroterra sapiente, talvolta sottile, sobria, fulminante evocazione, (in)volontaria, non potremmo dirlo, non sarebbe utile dirlo, perché in sé la parola poetica contiene sempre memoria e plurisignificanza, anche delle parole già dette, che vengono completate o rivestite o spogliate o rifrante in altre alchimie. Ne segnalo qualcuno, di quei fili, per dire come una poesia così tersa e forte, che si abbatte nelle «cloache» e scava nei «fossati», è densa, anche letterariamente, fin dal prologo («Della Presenza»), «Canto l’amore e gli spari», che riecheggia di incipit classici e classiccheggianti, da Omero ad Ariosto, ma senza ammiccamenti, o si adagia in schemi di tersità ellenica «ed Eros mi scruta, / impaziente.» (in «8») o, al contrario, quasi montalianamente, «nelle fogne putride / del fango delle nostre suole, / negli scarichi delle cloache» (in «4»), con suggestioni di Pavese e Whitman («Verrà il tempo in cui seccheranno le foglie sugli alberi» nell’incipit di «9», e «caduche come le foglie d’autunno» in «10») fino alla Merini («Io so tutto di te [...] Ieri sono venuta al mondo / per profetizzare la tua presenza» in «11») e a rappresi e turgidi versi in perfetto stile ermetico. Sa usare in tutti i timbri e registri, la Rimolo, quelle parole, riprendendo, quasi in sordina e senza clamore, anche D’Annunzio («Piove» in «17») e Foscolo («illacrimata speranza» in 17).
Veramente sirene senza canto? Non si direbbe: il «rabbercio […] con ago e sogni» (in 19), accostamento stridente e originale, si risolve in canto, come di nuovo nell’incipit classicheggiante «Cántami» che apre proprio la seconda sezione, «Dell’assenza», quasi suggellando e confermando – con quell’inno al canto – un bisogno di parola, un’urgenza di comunicazione, anche nell’evocazione della perdita di un amore, di un figlio, di un genitore, poco importa definirlo: è un vuoto esistenziale che in tutta la sezione viene detto senza mezze parole, anzi urlato, anzi scaraventato, dal ventre all’esterno, dall’esterno al ventre.
E anche la tecnica non sembra di inesperta poetessa alla prima raccolta: giochi allitteranti, giochi di rime e in rima o etimologici, fino a stravolgere la parola e a declinarla («inumano», «disumano», «sovrumano») o a capovolgerla, nel senso, nel ritmo.
Sembra questa poesia luogo privilegiato, di ricerca di sé, dell’altro, di recupero della perdita, dalla perdita: ed è per questo che dell’assenza che scarnifica e del vuoto che non si sa comporre la poesia resta unica áncora, tentativo solitario ma non disperato di comunicare anche con gli assenti, perciò dando loro in fondo carne e corpo, e restituendo della carne il colore e del corpo i lineamenti: quindi, infine, una presenza al quadrato.
Da «Della presenza»
1.
Canto l’amore e gli spari
e le labbra che danzano nella notte;
una sirena lontana annuncia
venti di neve,
gli occhi li lasciamo
sulla soglia, audaci,
mentre le nostre carcasse
le trasciniamo su materassi
così che parlino piano
quando l’inverno grida le sue tormente
contro le nude mura delle nostre case.
4.
Cercheremo il senso
in ogni piccolo dissesto
della strada;
lì dove sprofonda il fosso
e sbriciola l’asfalto
andremo a guardare,
nelle fogne putride
del fango delle nostre suole,
negli scarichi delle cloache
che la nostra terra
chiama fiumi,
ai margini della vita,
sotto i letti degli ospedali,
negli occhi
dei passanti più distratti,
tra i corpi sfatti
dal sonno e dalle disgrazie,
nella cecità della sfortuna,
nelle deformità della natura,
per poi ritrovare a sera
la via sicura
di casa, stanchi
e senza più fiato in gola.
E così, dopo aver sfogliato
tutte le pagine del mondo
torneremo alla prima,
che è la nostra,
e a mani aperte,
palmo su palmo,
diremo finalmente eccoci,
è qui che per oggi
termina la ricerca,
nel riflesso caldo
delle tue dita
che sovrapposte alle mie
non sudano più, non fremono più:
nel silenzio obliquo dell’amore
che scivola
verso l’abisso dell’insensato.
8.
Qui
il peccatore
non si redime,
l’esule
non torna,
la verità
ci inganna,
il tempo
ci rapisce
e non chiede
riscatti,
il vibrante
arco teso
scocca
una viltà,
ed Eros mi scruta,
impaziente.
9.
Verrà il tempo in cui seccheranno le foglie sugli alberi nelle curve,
verrà il tempo dell’ultimo giorno, prima della chiusura, prima dell’inverno,
verrà il tempo in cui te ne andrai, e questo tempo è già arrivato
ché ogni giorno è una giravolta all’indietro riuscita male
e io ruoto nel turbine di questo gioco, sugli alti orizzonti del mare
e arriverà il giorno in cui non ti vedrò più, e questo giorno è già arrivato
ché duole la testa e si chiudono le palpebre stanche
e invecchio in questo movimento storto
a testa in giù, come se ogni volta stessi per nascere, già morta.
10.
Mio spazio contaminato di ventura
mio circoscritto antro profondo
di cui non distingui il fondo
insaziabile, vorace
guaito di un piacere indelebile
l’istante che separa
un tremito dall’altro
sa di distante infanzia
di grazie perdute
virtù mai avute e miserie immense,
sterminate come campi fertili e abbandonati,
caduche come le foglie in autunno,
vaghe come quelle parole sussurrate
non d’amore, ma di rifugio, ché non ti amo,
amato mai, nell’amore più vero,
ma ti cullo e ti tengo
e ti perdo e ti penso
e mi risento dentro un fremito
di rimando, inquieto,
che scuote le spalle del mondo.
11.
Io so tutto di te,
anche quello che non sai,
anche quello che non so di me.
Ieri sono venuta al mondo
per profetizzare la tua presenza,
accompagnarti per mano sul fondo,
fare del silenzio una sostanza.
E solo questo sono in grado di fare: sapere e tacere,
e non essere mai all’altezza di niente,
ché a guardare in alto mi duole la fronte.