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La letteratura pecorile
di Alberto Volpi
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La letteratura pecorile

Il gruppo
Quando gli scrittori decidono di fare gruppo il loro intento è da sempre eversivo. Li aggrega un reciproco riconoscersi e sentire che insieme diverranno più incisivi sulla letteratura e la società esistente. Cicerone, uomo e scrittore della tradizione, nel definire Poetae novi un gruppo di autori che s’affacciava nel primo secolo alla ribalta della capitale del mondo, non intendeva certo fare un complimento. Una forma ricercata, la misura breve, un tono leggero e il tema erotico costituivano palese affronto all’etica e alla vocazione teatrale della letteratura romana precedente. Eppure i neoteroi – altro modo di chiamare Catullo e i suoi sodali, ancor più negativo perché ne sottolineava i prevalenti modelli greci – avranno forse apprezzato, guardando dall’altro lato dello specchio, quella sprezzante etichetta. Guardarsi in faccia e vedersi vincolati in qualcosa che al contempo li distingueva dagli altri li avrà in fondo lusingati.
Lo stesso orgoglio per una forma linguistica più evoluta, una più diretta vicinanza con l’ispirazione d’Amore e una coscienza letteraria e filosofica più profonda animava anche gli Stilnovisti nei confronti dei contemporanei. Cavalcanti, il dotto sdegnoso tramandatoci dai posteri, e soprattutto quel Dante che mette in bocca a un poeta defunto l’autoridimensionamento delle scuole precedenti, dei loro esponenti principale (“il Notaro e Guittone”) e l’esaltazione dei nuovi toscani. Colpisce con forza la grandiosa spudoratezza con cui Dante rende umile Bonagiunta da Lucca attraverso le meditate riflessioni dello stesso penitente e proclama novità ed eccellenza per sé e il proprio gruppo: “Io veggio ben come le vostre penne/ di retro al dittator sen vanno strette/ che de le nostre certo non avvenne” (Purgatorio, XXIV, vv. 58-60).

Coagularsi del gruppo
Le storie letterarie ci hanno sempre fatto notare che i gruppi di letterati, quali i Poetae novi e gli Stilnovisti, erano creazioni dello spirito, della frequentazione e dell’amicizia da parte di singole personalità indipendenti. Il gruppo pare insomma l’eccedenza d’una somma di numeri affini. Tuttavia molti secoli più tardi tale impalpabile e concorde atmosfera trova il suo punto di coagulazione: la rivista. Siamo nel Settecento, quando l’invenzione della stampa si piega alla viltà della produzione periodica. L’aria di famiglia di testi separati può precipitare allora in un progetto collettivo, articolato e condiviso. Se l’epoca dei lumi ci offre con «Il Caffè» una rivista a prevalente interesse sociale, seppur non aliena dal proporre una propria idea rinnovata di letteratura, è l’Ottocento romantico a mettere al centro degli interessi comuni le arti e l’estetica, magari con una correlazione più o meno accentuata alla battaglia politica a favore delle nazionalità oppresse. «Athenäum» dei fratelli Schlegel rimane l’esempio più alto, da noi seguirà la breve esperienza milanese de «Il Conciliatore». Si assiste qui a un rimpallo tra i vari autori a sostegno della medesima tesi e nel darsi manforte l’un con l’altro: Mme De Stäel che attacca con Sulla memoria e l’utilità delle tradizioni, Ludovico di Breme che la difende dall’“incomodo sussurro” dei giornali tradizionalisti, Pietro Borsieri che riprende, a sua volta, il discorso dell’amico in forma di dialogo. E così via – Berchet, Landonio, Visconti – a discutere sui caratteri della poesia romantica (la propria poesia) necessaria a svecchiare la cultura italiana.
Nel Novecento le avanguardie non fanno che radicalizzare, se non militalizzare, gli elementi già presenti nei gruppi letterari dei secoli anteriori. I manifesti si declinano in punti numerati, brevi ed assertori come comunicati di guerra. La squadra, a partire da quella futurista, si schiera in fotografia e opera veri e propri raid in occasioni pubbliche. La parola d’ordine è provocare gli spettatori con spettacoli, parole e gesti aggressivi, mentre le poetiche passatiste sono violentemente attaccate nei loro simboli (“uccidete il chiaro di luna […] date fuoco agli scaffali delle biblioteche […] demolite senza pietà” incitava nel 1909 Marinetti). Il Futurismo vive della contraddizione tra tutto quanto precede (“la letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno”) e l’estetica moderna, in un’esasperazione furiosa della novità distruttrice. Ciò a partire dagli aspetti visivi, sintattico-grammaticali capaci di tener dietro rapidi all’“insonnia febbrile” del secolo che irrompeva con tutte le sue rivoluzioni tecniche.
I manifesti futuristi si moltiplicano, dilagano in tutte le arti, i proseliti infittiscono facendo capo a case editrici, teatri, luoghi d’esposizione. Un nuovo strumento d’aggregazione affianca la rivista, ovvero l’antologia. Essa è la silloge che trasceglie i fiori del movimento, li introduce e spiegandoli li esalta. Strumento potente di revisione serve anche a stabilire un canone à rebours, cercando ascendenze, scartando l’ovvio nel passato e riscrivendo un percorso finalistico verso l’oggi. Si pensi all’Antologia dello humour nero di Breton che esalta autori trascurati, maledetti o misconosciuti, da Sade a Nerval, da Lautremont a Jarry. Oppure, riferendosi alla più recente Neoavanguardia, l’antologia del Novecento ideata da Sanguineti, che apriva originalmente dando uno spazio inconsueto, ma del tutto comprensibile in prospezione avanguardista, al marginale Lucini. Del resto il gruppo dei neoavanguardisti matura a sua volta ne Il Verri da cui, a cura di Alfredo Giuliani, esce nel 1961 l’antologia I Novissimi; una volta strutturatosi il Gruppo 63 si presenterà nell’omonima e robusta antologia edita nel 1964 da Feltrinelli e nella rivista 15 (1967-69).

Verso l’esterno
Un primo passo verso l’esterno lo si compie quando a compilare l’antologia non è il leader o un appartenente al gruppo, ma un prestigioso critico che con capacità rabdomantiche rinviene delle tendenze e quindi le certifica con il proprio carisma di giudice imparziale. Certo, per non trovarsi in pieno davanti a una truffa mercantile, ci deve essere un sentimento di simpatia tra il critico e gli autori; tuttavia la frattura è ormai compiuta. Luciano Anceschi, per esempio, nel 1952 seleziona sei poeti e li allinea sotto l’unica dicitura di Linea lombarda mettendo a fuoco una tendenza stilistica, tematica e geografica. Il docente e saggista bolognese considera i soggetti realistici e quotidiani, il plurilinguismo, i riferimenti ai gran lombardi del sette-ottocento, li incarna in sei coetanei che si trovano così aggruppati dall’esterno. Seppur seria e fondata, si tratta comunque d’un’invenzione estrinseca che incontra numerosi riscontri – Arcangeli, Calvesi, Celant, Bonito Oliva, Barilli etc. – nel mondo dell’arte. Qui il valore monetario dell’opera, una certa incompetenza nel pubblico medio, il peso dei galleristi porta con maggiore frequenza il critico demiurgo a battezzare una tendenza ancora sotterranea. Ciò fino alle degenerazioni di efflorescenze critiche autoreferenziali, correnti senza fiato destinate soltanto a fare da specchietti per i compratori, in un gioco di quinte e marionette mosso esclusivamente dal mercato. Qualcosa di simile si sta facendo strada anche nell’ambito della letteratura italiana.
Il primo fenomeno significativo in tal senso è stata la raccolta Gioventù cannibale del 1996. Un’antologia rivendicata dai responsabili dell’allora neonata collana “Stile Libero”, tesa a rinverdire nel linguaggio e nei generi l’immagine forse troppo impostata di Einaudi, aprendola a un nuovo pubblico. Già il titolo mostra l’astuzia editoriale: la novità si fa coincidere tout court con la giovinezza. Già nel passato gli autori che volevano rompere una situazione sclerotizzata, lo abbiamo visto, erano di solito giovani, ma qui siamo di fronte a un perfetto schiacciamento dei due termini nato dalla coeva attenzione ai giovani scrittori italiani, esordienti assai chiacchierati, secondo un fenomeno nato negli anni ottanta . L’aggettivo cannibale, cui s’aggiungeva il sottotitolo quanto meno esplicito riferito “all’orrore più estremo”, pescava in un altro bacino allora di gran moda: lo splatter, l’horror alla Hannibal Lecter e American Psycho e soprattutto l’esibita violenza di Quentin Tarantino. Questo lato sanguinolento, insieme alla voracità linguistica extraletteraria, veniva sottolineata con una certa enfasi antagonista dal curatore Daniele Brolli: “Per fortuna esiste una generazione di scrittori che rifiuta l’omologazione in una narrativa fuori dal tempo, figlia del concetto romantico dello scrittore come artista, e che si cimenta con le zone d’ombra della nostra vita quotidiana” (p. VIII).
Dentro la confezione undici scrittori venti-trentacinquenni, alcuni da poco noti (Ammanniti, Nove), altri esordienti (Galliazzo) o di più lungo corso (Pinketts, Teodorani). I racconti, che vanno dalle sei alle quaranta pagine, risultano diseguali per qualità, ma generalmente si può dire che “nella maggior parte dei casi l’adesione al genere assume tratti troppo intenzionali e in fondo convenzionali: alla fine di questo secolo, civettare con l’orrore non è – come più o meno in buona fede alcuni sembrano credere – quel gesto di rottura e contestazione di chissà quale immaginaria pacifica convivenza” . Il fenomeno si esaurirà nel breve volgere d’un paio di stagioni: di alcuni si perderanno proprio le tracce, in generale nelle opere successive svanirà la volontà oppositiva sbandierata. Anche la loro ”lingua ipermedia” lascerà spazio alla restaurazione del romanzo ben fatto o al piano narrare dei costruttori di trame con morto.
Seguendo lungo gli anni novanta la striscia di sangue siamo presto investiti dall’inondazione emoglobinica del noir. Oltre ad alcuni dei cannibali citati, che non macchiano più la pagina bianca con schizzi dadaisti e insensati di materia corporale, ma vi pongono in mezzo cadaveri e di seguito un perché e un paesaggio sociale, ci si imbatte in svariate decine di giallisti italiani. Una produzione diluviale che straborda sulle collane (“Noir mediterraneo”, “Marsilio Black” “I neri”, “Stile Libero noir” per citarne poche), si intrufola nei quotidiani come «Repubblica», si mette in mostra in specifici festival, s’accampa nelle classifiche di vendita (Camilleri, Faletti, Lucarelli, Ferrandino, Carlotto, Carofiglio, De Cataldo etc). A seguito della massiccia conquista del mercato compare anche l’antologia; non quindi come proposta di una novità, quanto come ridondanza di chi ha già vinto e vuole stravincere. L’antologia noir diventa perciò tipico prodotto di letteratura pecorile guidata dagli editori, secondo una logica di molteplicità e sfruttamento, ben guardandosi dal discriminare il grano dal loglio . Nemmeno noi tenteremo l’immane opera, limitandoci in questa sede a un sommario panorama.
L’editore Mondolibri, che riprende i titoli di maggior successo, edita in sequenza raccolte tematiche di racconti inediti: Giallo Natale, 2004 (20 autori italiani); Giallo sole, 2005 (16); Giallo uovo, 2006, che pare alludere – visto alcuni testi intitolati Dolce o salato?, Una grossa frittura – al denominatore comune del cibo. Es non si lascia sfuggire la possibilità di ibridare il tema erotico, tipico del suo catalogo, con il noir, chiave di volta universale, in Thriller sex, 2000. A volte l’elemento centrale è la metropoli o la cittadina: Città in nero, Tea, 2008, a cura di Marco Vichi, che forse scrive in copertina “noir come notte: angoli bui, condomini di periferia, squallide metropoli. Noir come delitto: assassini, serial killer, mostri urbani. Noir come città: dove città significa affollamento, potere, tentazioni, aree abbandonate, pulsioni”; Delitti in provincia, stesso curatore, presso Guanda, 2007.
Tutte queste sono antologie senza prefazione, che è quasi una bestemmia per la storia delle antologie; ma del resto c’è poco da motivare. Nella storia del giallo bolognese che precede Le ombre della città, Perdisa, 2007, Renzo Cremante scrive di “forma tradizionalmente negletta” in Italia (p.XII), ma nel frattempo deve essersi perso qualcosa. Alan Altieri, prima della sfilza di Anime nere, Mondadori, 2007, fa solo un po’ di propaganda con dubbio stile (“una cordigliera di racconti acidi e imprevedibili, crudi e inquietanti”); De Cataldo, nei secondi Crimini italiani di Einaudi, 2008 (che segue quelli del 2005) non risparmia a sua volta il turgore: “L’Italia è sotto i nostri occhi […] Basta saperla guardare […] Bisogna andare oltre la maschera seducente del paese delle bellezze artistiche, delle grandi firme, dei geniali improvvisatori. Bisogna strappargliela con forza, questa maschera, alla nostra Italia”, (p.V).
Segnaliamo infine Fez struzzi e manganelli, Sonzogno, 2005, a cura di Gianfranco Orsi, direttore di collane mondadoriane, il cui sottotitolo 26 voci gialle raccontano l’Italia del Fascismo ci conduce verso l’ultima frontiera del genere italiano. Nell’ambito della detection, da Eco in poi, sono state molte le incursioni nel passato, con tanto di poeti italiani o senatori romani trasformati in investigatori. E però il potente esempio del De Lillo di Underworld e Libra, insieme al clamoroso successo di Saviano, ha spinto molti a cimentarsi con la storia d’Italia più recente e i suoi buchi neri. Già gli autori del noir si erano sfiatati nel ripetere l’unica idea critica che li possiede: il genere quale pretesto per radiografare la società attuale. Ora siamo alle parole d’ordine dell’impegno e pure, rigorosamente secondo De Lillo, dell’immaginario, della paranoia e del complotto. I titoli e gli autori dell’epic novel italiana sono già molti, alcuni interessanti, l’antologia è arrivata (La storia siamo noi, Marsilio, 2008), il timore della deriva pecorile quasi una certezza.

Conclusione, soluzione?
Ricapitoliamo i connotati della letteratura pecorile: un dominus esterno che fa i gruppi secondo logica mercantile, un modello esterno di successo come garante (Tarantino, noir americano, De Lillo), un gregge molto numeroso e spesso spurio che segue in antologie pletoriche, i media che fiancheggiano. La rivista, scavalcata a favore dell’antologia, che sta meglio in vendita, è tuttavia uno strumento minoritario che resiste (specie se ben connotata: «Il primo amore», «L’accalappiacani») e che si trasforma. Non si può non pensare infatti alla rete per l’impostazione orizzontale, aperta, rizomatica che potrebbe aggirare l’autorità del pastore. Di siti e riviste-antologie letterarie on line ce ne sono infinite, che scontano però pesanti difetti. L’apertura indiscriminata agli scriventi che porta all’eccesso l’accumulo pecorile, facendone magari anche da salutare caricatura. La tendenza all’adattamento ad uno stile già fatto (leggendo «L’accalappiacani» ci si chiede: Celati, Cavazzoni, Benati, Nori, il fittizio Pignagnoli? No, i contributi dei lettori). Per contro la mancanza di teoria e autoriflessione; peggio la pura conventicola o l’associazione a pagamento. Chi pensa che accanto alle personalità singole la socialità letteraria, libera e combattiva, abbia ancora un senso segua nel dibattito.

A cura di Alberto Volpi



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