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Che gli occhi bastino agli occhi. Antonia Pozzi nel settantesimo anniversario della morte.
di Katia Piccinini
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Che gli occhi bastino agli occhi. Antonia Pozzi nel settantesimo anniversario della morte.

…che gli occhi bastino agli occhi…

Come si guarda una stella? Con stupore. E con pari dolore del bello.
E così, nel venire ormai prossimo di un nuovo dicembre, il settantesimo dalla morte, l’occhio indugia sul nome – già questo aperto, limpido e terso- della giovinetta milanese, leggera come un capriolo pauroso sulla neve, tutta tesa – e quanto coraggio in questo sbalzarsi- alla trasparenza traslucida del cielo. E se l’occhio cercando, tra le altre, le parole più intime e domestiche - quelle che per delicatezza e riservatezza del dire soffondono una certa rêverie -, si ferma sulle così belle lettere di tutta una vita la memoria torna al piccolo cimitero di Pasturo, a quelle tre pietre della Grigna che, pietose e ferme sorelle, invocate nuove antigoni, difendono, con la purezza degli elementi, lo spirito così forte eppur così feribile di Antonia Pozzi.
E in queste lettere, cui la mano giovane affida il disegno dell’anima e dei suoi slanci costellati, troviamo quella verticale profondità del sentire che, improvvisa e sorpresa quasi, si intenerisce e si colma come il dissolversi al vento della apparente compatta densità delle nuvole: e quali siano stati gli effetti di tutta questa bianchezza non te lo so dire: so che ritorno col cuore che straripa di poesia.

Sceglie l’inverno per il suo silenzio più lungo, quando il cielo si fa via via bianco e inanimato all’occhio: anch’io ho tanta paura dell’inverno: anch’io, forse, devo scontare.
Creatura estiva, Antonia, di estati di montagna dove ogni cosa si fa assoluta, e sola, e si staglia netta e pulita contro, e davanti: ma ora voglio tornare sulle alte rupi, dissetare alle sorgenti la bocca in cui è rimasto tanto amaro. Con una luna che inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle.
Estati di montagna come gli amati ritiri in Valsassina, tra le letture e le cime, tra il getto estatico dei massi e l’acqua bevuta da terra, quando riprende la vita a sé, quando la vita le ritorna, finalmente, trasparente e semplice. Come il verso: fermo, nitido, snello. Mattutino. Quando rientro in questa stanza […] tutto quello che ho vissuto fuori di qui, quello che ho aggiunto alla mia anima e che queste pareti non sanno ancora, mi si riassume così nitidamente al pensiero…ad ogni ritorno fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri.

E nelle lettere lo slancio brioso e tintinnante come una monetina al rimbalzo delle parole alla nonna e agli amici; il trattenuto azzurro - l’azzurro caro al “suo” Flaubert - delle parole tonde, innamorate e buone di quando Antonia è tutta il suo sentimento del mondo, senza spacchi tremendi, senza squarci e strazi: tutta d’azzurro mi sentivo l’anima; e poi più giù, verso l’addensarsi del fiato e la dolorosa intensità dell’accordare temi lontanissimi, smarriti con l’ansia della nuova primavera che non ha più voce per Antonia: ah, l’ansia di questa inutile fioritura!
E poi ancora più giù, ma anche più in là, di poco sempre più rivolta e inclinata al forte del cielo che scavalca le vette: non ho più pensieri né parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare.

Forse, Antonia Pozzi, ha trovato quel cielo di cui parlava Campana: quel cielo sgombro, liberato e libero, vuoto e totalmente sidereo.
Che la terra, che ha inghiottito una stella, sappia lasciare la levità di quel cielo su quella esile scia di silenzio.

ANTONIA POZZI (1912-1938)
Figlia di Roberto, importante avvocato milanese e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi, scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove inizia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta dal Cervi nel 1933, procurandole la depressione - «e tu sei entrata / nella strada del morire», scrive di sé in quell'anno - che contribuirà a condurla al suicidio.
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell'Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, del quale sembra si innamorasse non ricambiata, le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, conosce il tedesco, il francese e l'inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, dove è la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca un sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene. (...) Avverte certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpiscono alcuni dei suoi amici più cari; «forse l'età delle parole è finita per sempre», scrive quell'anno a Sereni.
Nel suo biglietto di addio ai genitori scrive di disperazione mortale e si uccide con i barbiturici. La famiglia negherà la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu però distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite; la storia d'amore con il Cervi sarà falsamente descritta come una relazione platonica.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo, il monumento, un bellissimo Cristo in bronzo è opera dello scultore Giannino Castiglioni. (FONTE WIKIPEDIA:
https://it.wikipedia.org/wiki/Antonia_Pozzi)

 

A cura di Katia Piccinini



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