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Lost in Translation: quando una troupe si "perde" in Giappone
di Riccardo Rosati
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Lost in Translation: quando una troupe si

Lost in Translation è un film del 2003, nonché seconda opera di Sofia Coppola, figlia di un mostro sacro della Settima Arte: Francio Ford Coppola, regista di Apocalypse Now (1979) e della saga de Il Padrino (1972-90), tanto per citare alcuni dei molti capolavori che figurano nel palmares del regista.

Il film racconta l'incontro tra due americani in un grande albergo di Tōkyō. Lei, Charlotte (Scarlett Johansson), neolaureata in filosofia, è con il marito fotografo, tutto preso dalla sua attività. Lui, Bob Harris (Bill Murray), è un attempato attore di cinema e televisione, ormai sul viale del tramonto, "sposato da 25 secoli", come dichiara egli stesso tra l'ironico e lo sconsolato. Bob si trova nella terra del Sol Levante per girare alcuni spot pubblicitari per una nota marca di whisky giapponese.

Fin da subito, si comprende che in questa storia Tōkyō non viene rappresenta come il vero Giappone, bensì come una grande e dispersiva metropoli che offre solo frammenti sconnessi della cultura nipponica. Le prime scene propongono infatti lo stereotipo della giungla fatta di luci al neon e cemento, come se le nostre città fossero poi così diverse da questa tipologia urbanistica. La trama racconta di due personaggi in crisi con i rispettivi partner, prigionieri di una cultura estranea al proprio abituale stile di vita. In un clima di insonnia, frequentandosi durante il breve soggiorno, essi diventano prima amici, salvo poi scoprire di essere attratti l'uno dall'altra. Tra loro nasce qualcosa che è più di un'amicizia, ma mai vero desiderio di possedersi, dovuto probabilmente alla differenza di età e a un sentirsi ancora in qualche modo legati ai propri coniugi. Da una parte abbiamo il personaggio di Bob, che diventa una presenza maschile protettiva per la giovane ragazza, mentre dall'altro Charlotte rappresenterà la più tipica, e in fondo banale, boccata di ossigeno capace di riportare il buon umore e la vitalità in un annoiato ultracinquantenne.

Tra i due si crea quasi immediatamente un legame profondo, un'affinità che, come detto, non passa per l'avventura sessuale, ma che rappresenta piuttosto un momento poetico di "respiro dell'anima", di recupero di emotività sopite, prima della separazione e del ritorno alle rispettive vite. Bob e Charlotte non vivono dunque né una vera e propria storia d'amore né una amicizia. Quello che succede tra di loro è tuttavia speciale almeno quanto queste due tipologie di rapporti. Infatti, condividono la silenziosa solitudine che li perseguita. Vivono, seppur per un tempo limitatissimo, un rapporto senza prospettive o desideri. In una città che li aliena, possono sublimare una relazione fatta di un nulla incredibilmente pieno; quest'ultimo è forse l'unico aspetto veramente "giapponese" della pellicola.

A proposito del rapporto tra i due protagonisti, vale la pena riportare le parole della stessa Coppola, rilasciate in più interviste: "La scena finale l'ho voluta lasciare così: è una storia molto intima e ho preferito che rimanesse tale. Io so nella mia testa cosa si sono detti all'orecchio, ma non lo faccio sentire al pubblico. Perché per me la cosa importante è che entrambi si siano resi conto di questa esperienza speciale che hanno vissuto. Che forse resterà per sempre con loro per tutta la loro vita". Riteniamo che l'enfasi posta sulla intimità tra i due protagonisti vada a discapito di una adeguata compenetrazione col contesto giapponese. Tale mancanza rende il film incompiuto e meno godibile. La pellicola si concede troppo a degli stereotipi che sono ovviamente privi di una vera riflessione sul Giappone di oggi. Ben presto le difficoltà incontrate dalla troupe nel gestire un importante incontro culturale vincoleranno la narrazione a una deludente chiusura culturale. Questa rinuncia nel voler comprendere una società diversa, diventa ancora più grave se si pensa alla grande capacità di adattamento della cultura giapponese, la quale, come afferma lo studioso Tsutomo Hoshino, è da sempre erroneamente giudicata esclusivamente succube e facilmente permeabile da mode e costumi stranieri, invece che creatrice di suggestive "traduzioni culturali":

Pertanto si può dire che la cultura giapponese abbia precorso l'era della globalizzazione, essendo una "cultura mista" (konsei bunka, 混成文化) formatasi attraverso la ricezione di varie culture strutturalmente eterogenee e con tradizioni differenti.[1]

L'unica parte del film in cui si fa in qualche modo riferimento a un aspetto culturale, per la precisione la tematica della incomprensione linguistica, si trova nella esilarante scena dello spot televisivo[2], la quale resta purtroppo solo una ottima intuizione, mai veramente approfondita nella storia.

Tuttavia, il fattore probabilmente più deludente per quello spettatore che aveva decisivo di vedere il film, perché incuriosito dalla peculiarità della cultura nipponica, risiede nel fatto che i due protagonisti sono chiaramente annoiati da questo paese, che sovente non viene neppure nominato[3], sostituito nei dialoghi con "qui" oppure "questo posto". Dunque, Lost in Translation fallisce completamente non solo nel fornire una immagine, anche solamente banale, del Giappone, ma commette principalmente l'errore di non dire quasi nulla su questo complesso paese, alimentando in tal modo lo sciocco pregiudizio occidentale secondo cui tutto l'Oriente è ormai uguale e che tutte le città asiatiche non sono altro che delle giungle di grattacieli. Se, a onor del vero, non possiamo negare che il fenomeno della coatta occidentalizzazione, che da anni imperversa in Asia, stia appiattendo molti aspetti delle vari culture di questo continente, malgrado ciò crediamo sia giusto stigmatizzare questa visione del tutto superficiale, che tende a banalizzare sempre l'Oriente contemporaneo. Il film di Sofia Coppola è perciò un buon esempio di una certa tendenza globalizzante, la quale ci costringe alla cecità, impedendoci persino di vedere, seppur in modo superficiale, il mondo che abbiamo davanti ai nostri occhi. 

A dimostrazione di ciò, la storia in questione descrive Tōkyō come un gigantesco "zoo" visto attraverso il vetro dell'albergo.  Manco a dirlo la popolazione della città riveste il ruolo degli "animali", con le sue strambe abitudini. L'albergo stesso è una specie di "gabbia di vetro" che protegge da un mondo alieno, indecifrabile.

Questa tendenza a volgarizzare le culture altrui è da considerarsi in parte una peculiarità dei popoli anglosassoni. A tal proposito, è sufficiente prendere in considerazione la scena del folle presentatore televisivo, che sa un po' troppo di presa in giro del Giappone e del suo modo di fare umorismo. Tale atteggiamento pone l'accento su quanto l'America si sia involuta in fatto di sensibilità culturale e capacità di analisi antropologica, soprattutto se pensiamo al lavoro di indagine sugli usi e costumi del Sol Levante a opera di Ruth Benedict[4]

Il film tradisce le aspettative anche per una altra ragione fondamentale. Sarebbe a dire che la intricata questione della incomprensione linguistica a cui prima abbiamo accennato, che viene messa bene in evidenza dal titolo stesso del film, non viene  approfondita. Funge più che altro come una specie di "esca" per molti di quei spettatori che si aspettavano una storia nella quale il Giappone rivestisse un ruolo di primo piano. Peccato davvero, poiché di per sé questo poteva essere uno spunto eccellente per mettere a confronto la cultura nipponica con quella occidentale, attraverso le differenze tra il nostro idioma e il loro: tra un linguaggio coerente e lineare e quello che invece Roland Barthes amava definire come un codice fatto di segni, tratti e interstizi[5]. Se l'incoerenza tra il titolo della pellicola e la sua storia possa essere il frutto di una cinica politica cinematografica, più simile al marketing che all'arte, oppure il risultato della incapacità di una troupe troppo inesperta per affrontare un argomento tanto complesso, non riveste molta importanza in questa sede. Ciò che ci preme sottolineare è la occasione sciupata di affrontare in modo utile e originale il rapporto tra due mondi ancora molto lontani tra di loro. Ciononostante, la nostra opinione è che forse i limiti del film nascano proprio da quelli di una troupe smarrita e con poche idee. Se ad esempio prendiamo in considerazione il making, balza subito all'occhio come il progetto della Coppola si presenti come una produzione artigianale, piena di entusiasmo, ma con ben poca sostanza e progettazione alle spalle.

Ciò che si evince da questa storia è che il Giappone sembra essere visto come l'epitome di una diversità inintelligibile per chi, come i protagonisti, non è interessato al "diverso"[6] e quindi non ha alcuna predisposizione verso un incontro culturale. Abbiamo già sottolineato l'importanza di questa tematica, visto che essa è alla base non solo di quello che avrebbe dovuto o potuto essere Lost in Translation, ma più che altro dalla sua mancata trattazione dipende spesso il generarsi di perniciosi luoghi comuni. Fortunatamente alla base della genesi del mito giapponese in Occidente, possiamo annoverare esperienze antecedenti a quelle della Coppola (troppo numerose e varie per essere qui elencate), le quali hanno reso, pur talvolta cadendo anche esse nella banalizzazione culturale, più giustizia alla sofisticata tradizione del Sol Levante. 

Analizziamo ora altri aspetti narrativi del film. Possiamo vedere come il Giappone agisca da cassa di risonanza per la solitudine dei due protagonisti. Entrambi infatti legano perché immersi in una condizione di solitudine sentimentale. Bob non riesce più a comunicare con la moglie e in un certo senso è fuggito da lei e dalla sua gabbia dorata fatta di un perfezionismo opprimente (si veda, come esempio, la scena in cui lui si trova a dover scegliere, tramite fax, la carta da parati per il suo studio). Charlotte invece è legata a un marito immaturo, completamente assorbito dal proprio lavoro e che mostra davvero scarso interesse e attenzione nei suoi confronti (si veda la scena in cui lei chiama, in lacrime, una amica dicendole: "non so chi ho sposato"). La solitudine di ciascuno dei due personaggi è, come detto, amplificata dal Giappone che resta un sistema di codici incomprensibile per i due protagonisti; così l'hotel, per soli occidentali, è un rifugio, una tana, e infine una gabbia: tutto, o quasi,  avviene nell'albergo. Se quella della Coppola non può certo essere considerata una pellicola sul Giappone, la si può però vedere come una riflessione, anche abbastanza sensibile, sulla solitudine, ovvero su quelle piccole inquietudini del nostro presente, che ci spingono a cercare conforto da chiunque; proprio come nel caso di Bob e Charlotte. Difatti, man mano che il plot si focalizza sul loro nascente rapporto, ovvero quando l'aspetto esistenziale e sentimentale dei due comincia a prendere il sopravvento, il Giappone retrocede definitivamente a mero sfondo: non è più un elemento che desta domande senza risposte e perplessità nei due protagonisti, ma una statica cornice su cui le due figure sembrano scolpite ad alto rilievo. Per tale motivo, non c'è da stupirsi se del Giappone vediamo il "già noto", nulla di nuovo si apre di fronte a noi: dal pachinko[7], alle strade affollate e piene di luci al neon, ai talk show condotti da vere macchiette dello spettacolo, al karaoke, fino alle sale giochi gremite di giovani che sfogano alienati la propria solitudine. Il Giappone di Sofia Coppola sembra dunque davvero un posto dove perdersi, per non poter e non voler ritrovarsi, un luogo a cui non chiedere nulla.

Tuttavia, crediamo che la verità dietro questa asfittica visione del Sol Levante proposta dal film sia una altra. Infatti, ci viene mostrato solo quello che un turista qualunque noterebbe a prima vista come immediatamente diverso e, ancora peggio, strambo. La diversità tra i nostri due mondi, che solo un rapporto diretto con i giapponesi rivelerebbe nella sua pienezza, manca completamente nella storia. I due protagonisti non entrano quasi mai in comunicazione con gli abitanti della città, fatta eccezione per la sequenza in cui trascorrono una serata con dei giapponesi, ma anche lì il prototipo è quello di un gruppo di infatuati dell'Occidente, dove parlare di surf e bere superalcolici diventa un ponte che unisce e colma le differenze, ma solo per una sera. Persino al karaoke, il gruppo, composto in prevalenza da giapponesi, canta solo canzoni in lingua inglese.

 Abbiamo già affermato come questo film si conceda volutamente allo stereotipo culturale, probabilmente a causa della inesperienza della sua troupe e in primis della regista. Si ha la sensazione di essere davanti una specie saggio di fine corso, dove sulla carta il progetto si presenta ricco di spunti interessanti, ma poi nella fase di realizzazione si abbandona alla banalità.

Tuttavia, non sarebbe giusto rifiutare in toto l'affresco che la pellicola fa del Giappone, come se fosse tutta una "bugia romanzata". Effettivamente, in determinati contesti sociali, Tōkyō può diventare anche banale. Tenteremo, seppur brevemente, di spiegare cosa intendiamo con questo termine. L'ambiente che descrive la Coppola è quello degli stranieri, solitamente benestanti e di gusti alto borghesi, che nella enorme metropoli nipponica fanno spesso comunità a sé, isolandosi e attestandosi in tal modo come un elemento allogeno. Se poi estendiamo questa situazione agli anglosassoni che si trovano o, ancora di più, che vivono a Tōkyō, questo isolamento diventa in qualche modo più radicale. Ciò è dovuto in buona parte al problema della barriera linguistica: imparare così bene il giapponese tanto da intrattenere rapporti interpersonali non è certo cosa da poco e necessita di molti anni di attenta pratica, inoltre spesso chi è madrelingua inglese pretende che tutti parlino abbastanza correntemente la sua lingua. Ciò però non è così usuale in Giappone, dove la conoscenza della lingua inglese non è ancora totalmente diffusa e sostanziali problemi fonetici, insieme all'utilizzo di molte storpiature di parole inglesi, solitamente ne rallentano l'apprendimento[8]. Dunque possiamo affermare che molti anglosassoni a Tōkyō si comportano come i due protagonisti. Ragion per cui se è pur lecito stigmatizzare il film della Coppola per lo scarsissimo interesse verso la cultura giapponese, è pur vero che questa pellicola rappresenta un interessante resoconto di come alcuni stranieri vivono e percepiscono il Giappone, essendone una parte passiva e poco integrata. Il film incarna dunque la visione di un turista snob, che vive una esperienza probabilmente molto simile a quella della stessa Coppola in terra giapponese. Tōkyō è forse l'unica città del paese che può permettere, grazie alla sua vastità e alla mancanza di un vero centro, una vita in cui lo straniero possa in qualche modo esistere senza incrociare così spesso la quotidianità della società che lo ospita. Questo è infatti il Giappone descritto dalla regista americana: grandi e lussuosi alberghi, locali esclusivi e quei pochi giapponesi che si incontrano sono imbevuti di Occidente.

Giungendo alla fine della nostra analisi, vogliamo inserire ora un ulteriore elemento di riflessione. Sarebbe a dire che se da un punto di vista prettamente sociologico e culturale Lost in Translation rappresenta senz'altro una occasione mancata di comunicare quelle che sono le caratteristiche della società giapponese contemporanea, è altrettanto vero che nella pianificazione di questa pellicola, gli autori non si sono probabilmente posti l'obiettivo di mettere il Giappone al centro della storia. Ciò si evince dal fatto che Tōkyō funge da mero sfondo alle vicende narrate e buona parte del film è vincolato all'interno di un lussuoso albergo internazionale. Riteniamo infatti che la regista avesse necessità di ambientare la sua storia in un contesto che rappresentasse l'altro opposto alla cultura americana, in modo da enfatizzare il senso di straniamento e solitudine dei due protagonisti. Inoltre, anche se abbiamo affermato che l'opera in questione mostra una sufficienza talvolta persino arrogante verso la cultura dell'Arcipelago, crediamo però che tale atteggiamento possa anche essere letto in una altra maniera. La rinuncia di Bob e Charlotte a interagire con il contesto che li circonda è in qualche modo una sommessa dichiarazione di sconfitta dei due individui, a tratti impauriti dalla complessità e dal dinamismo, non solo del Giappone, ma di tutto l'Oriente. La loro rassegnazione nel non capire incarna un Occidente ormai stanco e ben consapevole di non riuscire più a tenere il passo di una parte sempre più importante del pianeta.

Questo tipo di analisi del film, che vede i due protagonisti come incarnazione dell'Occidente, seppur intrigante e in parte originale[9], risulta essere alquanto forzata e troppo vicina a una serie di suggestioni personali. Ragion per cui, essa è qui solo accennata.

Tornando invece a una analisi più concreta, vogliamo qui citare alcune riflessioni tratte dalla interessante guida redatta da Pons e Souyri, nella quale vengono evidenziate proprio quelle tematiche che nel film avrebbero potuto essere trattate più in profondità. All'inizio del nostro articolo, ad esempio, abbiamo fatto riferimento allo stereotipo della grande megalopoli al neon. Ecco, questa visione della città orientale ha sì una base di verità, ma decisamente limitata:

All'estero si coltiva l'idea che nelle città giapponesi si viva male. Eppure, esse offrono una loro qualità della vita, di tipo diverso da quella delle nostre città. La folla è folla dovunque, e non è mai piacevole dover fare un percorso a slalom in mezzo a un fiume di persone, o essere spintonati. Ma qui non si sprigiona nessuna aggressività. Nelle strade o sui mezzi di trasporto i volti della gente sono generalmente amabili.[10]

Quello che fa la Coppola è invece limitarsi al precetto Occidentale, che vede da sempre con diffidenza la moltitudine, da noi giudicata come possibile fonte di rivoluzioni e devastazioni. Ma in Oriente sono da secoli abituati a lavorare con i grandi numeri, con folle ordinate e attente a rispettare le esigenze comuni, così da permettere alla collettività di raggiungere alti traguardi: le Olimpiadi di Pechino ne sono un  esempio recente. L'immagine del Giappone proposta nella pellicola è non solo limitata, ma anche in ritardo sulle evoluzioni in corso da tempo nella società nipponica: "L'immagine coltivata in Occidente della folla giapponese dominata dal grigiore dei suoi impiegati in abito scuro è ampiamente superata. La strada delle grandi città del "Giappone in crisi" è immensamente più colorata e diversificata di quanto non fosse negli anni Sessanta e Settanta."[11].

Concludendo, abbiamo potuto constare come Lost in Translation rappresenti una occasione persa per mostrare almeno in parte il Giappone di oggi al pubblico occidentale. Abbiamo inoltre azzardato una visione metaforica della storia, con i due protagonisti come incarnazione della paura verso un Oriente in piena ascesa culturale ed economica. La prima tesi è abbastanza chiara se si giudica il film da un punto di vista sociologico, mentre la seconda lo è meno, sconfinando nell'ambito delle suggestioni personali. Però, esiste anche un altro aspetto di questa nostalgica storia che rappresenta forse il vero cuore del film. Se si elimina tutto il discorso sul Giappone, possiamo intravedere che alla fine Sofia Coppola, dimostratasi sicuramente troppo distratta verso la città e la cultura di cui era ospite, ha purtuttavia affrescato una intensa e coerente riflessione sulla solitudine, vissuta in due momenti cruciali della vita umana: la fine della giovinezza per Charlotte, e l'inizio della vecchiaia per Bob. Se ci si concentra dunque solo su questo aspetto, riteniamo che allora Lost in Translation abbia senz'altro qualcosa di interessante da dire al pubblico.

Bibliografia

  • AAVV, Atti del XXXI Convegno di Studi sul Giappone della Aistugia, Venezia, 20-22 settembre 2007, a cura di Rosa Caroli.
  • Barthes R., 1984 - L'impero dei segni, Einaudi, Torino
  • Benedict, R., 1993 - Il crisantemo e la spada, Edizioni Dedalo, Bari
  • Bittanti, M., ‘Big in Japan: Tokyo story : Lost in Translation - L'amore tradotto di Sofia Coppola', Cineforum, gen.-feb., 2004, 20-21
  • Calvino, I., 1994 - Collezione di sabbia, Mondadori, Milano
  • Chatrian, C., ‘L'amore tradotto, Panoramiche-panoramiques, 2004: v.14: n.37 (primavera 2004), 20
  • Coppola, S., 2005 - Lost in Translation / un film de Sofia Coppola, L'avant scène Cinéma, Parigi
  • Ebert, R., ‘Lost in Translation', recensione online: https://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/20030912/REVIEWS/309120302/1023
  • Emiliani, S., ‘Lost in Translation', Filmcritica, gen.-feb. 2004, 49-50
  • Grespi, B., ‘Lost in Translation. L'amore tradotto', Segnocinema, gen.-feb. 2004, 41-42
  • P., Pons & P-F., Souyri, 2005 - Giapponesi e Giappone, Touring Editore, Milano
  • Rosati, R., ‘Language Sharing in the Japanese Phonetic Alphabet Katakana', 2002 Asia and the West Conference (Università di Tor Vergata, Roma), Sun Moon Lake, Roma.
  • Rosati, R., 2005 - Perdendo il Giappone, Armando Editore, Roma.

DVD

  • Lost in Translation di Sofia Coppola, 2003, dvd, 102', Dolmen Home Video.

 


[1]  In Atti del XXXI Convegno di Studi sul Giappone della Aistugia, Venezia, 20-22 settembre 2007, a cura di Rosa Caroli, p.39.  Nel suo contributo,Tsutomo Hoshino propone una stimolante visione del Giappone come "cultura di traduzione", cioè non passiva ricettrice delle mode e dei costumi stranieri, ma capace per converso di rielaborare qualsiasi elemento culturale, dalla religione alla letteratura, per adattarlo alle proprie esigenze. Lo studioso nipponico afferma inoltre che questo è un processo da sempre in atto in un paese in continua oscillazione tra necessità di progresso (occidentalizzazione) e "palesamento dello stato antico" (p.51).

[2]  Fu talmente forte in questo caso la intuizione della Coppola, che queste scene vennero "riprese" dalla pubblicità: in Italia ha riscosso molto successo lo spot con protagonista Ricky Tognazzi. Anche qui però persiste, come per Lost in Translation, il vizio della superficialità, poiché negli spot si alterneranno per anni personaggi cinesi e giapponesi, come se l'Oriente fosse tutto uguale. 

[3]  Curioso notare come questa assenza del Giappone come elemento etnico-culturale non sia solo il risultato della "ignoranza" occidentale. Difatti, in varie opere letterarie giapponesi degli Anni 80, tra tutte il celebre Norwegian Wood (ノルウェイの森, 1987)  di Murakami Haruki, si palesa un forte rifiuto nei confronti della propria identità nazionale, cercando di sostituirla nella quotidianità con "alternative" occidentali: il whisky al posto del sake, cantanti anglofoni preferiti alla musica nipponica di quegli anni. Su questo argomento, vedere il mio studio in Perdendo il Giappone, 2005, Armando Editore, Roma.

[4]  Malgrado sia un po' datato e frutto di uno studio non condotto sul campo, Il crisantemo e la spada (1946) rappresenta tutt'oggi un caposaldo della antropologia e sociologia dedicata al Giappone. Autentico "manuale per lo sbarco" delle truppe americane subito dopo la II GM, il lavoro della Benedict non fu solo una precisa guida su come trattare un popolo vinto e annichilito, ma anche una apertura verso i rapporti di forza tra varie culture e su come gestirli, senza dover per forza affermare una soluzione univoca per tutto il pianeta. Le seguenti parole della stessa autrice dimostrano come nei decenni sia cambiata la politica americana in questa materia: "Una nazione straniera non può imporre per decreto, ad un popolo che ha costumi e convinzioni diversi, l'assunzione di un modo di vita analogo al proprio.", p.348 (vedi bibliografia).

[5]  Ci riferiamo chiaramente al celeberrimo L'impero dei segni (1970), dove il semiologo e linguista francese analizza la cultura giapponese, descrivendola come frammentata in un universo coerente di segni, tratti e vuoti.

[6]  Lascia quanto meno perplessi constatare come la Coppola, cresciuta nel milieu culturale progressista che gravitava intorno alla sua famiglia, abbia dimostrato in questo film così scarso interesse per l'argomento. Aspetto che lascia ancora più interdetti, se si considera che tematiche quali la diversità culturale e l'alterità hanno assunto da molto tempo un ruolo di primaria importanza nella accademia americana. Dunque, ci poniamo la seguente domanda, alla quale ora non sappiamo purtroppo dare una risposta che vada oltre la semplice congettura: esiste forse una eccessiva sufficienza in Occidente quando si parla dell'altro in chiave orientale? Cosa che invece non avviene col mondo africano o con quello islamico.  

[7]  Nel già citato testo di Barthes, si fa una suggestiva descrizione dell'alienante mondo dei pachinko (pp. 35-38), una specie di biliardino alla giapponese; tematica affrontata anche nella serie di scritti che il nostro Italo Calvino dedica al Giappone ne La forma del tempo (1975-82, pp. 195-97, in bibliografia). 

[8]  Sui rapporti tra la lingua inglese e quella giapponese, nonché sulla interessante problematica dei neologismi, vedere il mio contributo: ‘Language Sharing in the Japanese Phonetic Alphabet Katakana', 2002 Asia and the West Conference (Università di Tor Vergata, Roma), 89-97, Sun Moon Lake, Roma.

[9]  Riteniamo che se vista alla luce degli sviluppi degli ultimissimi anni, forse la opera potrebbe essere interpretata anche come una visione del sorpasso orientale. Tuttavia a causa della superficialità della pellicola nell'inquadrare il Giappone contemporaneo, sentiamo che giudicarla in qualche modo come una disamina sui rapporti tra Occidente e Oriente sia una forzatura. Nel nostro studio abbiamo peraltro più volte sostenuto come la tematica orientale sia a dir poco accessoria alla narrazione. Ci è parso comunque utile prendere in considerazione anche questa possibile lettura del film.

[10]  P., Pons & P-F., Souyri (vedi bibliografia), p.43. Trattasi di un libro smaliziato, che va ben oltre le classiche informazioni della semplice guida. Il testo sembra più che altro una agile riflessione sul Giappone di oggi, messo a confronto con la immagine che sovente noi occidentali abbiamo del paese.

[11] Ibid., p.25.

A cura di Riccardo Rosati



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(1) Lost in translaction di Riccardo Rosati - RECENSIONE
(2) Lost in Translation: quando una troupe si "perde" in Giappone a cura di Riccardo Rosati - ARTICOLO


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