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La sfida (im)possibile del tradurre
di Cinzia Sgambaro
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La sfida (im)possibile del tradurre

La figura chiave del traduttore come traspositore di significati. Teorie e analisi a confronto.

 

"Every text is unique and, at the same time, it is the translation of another text. No text is entirely original because language itself, in its essence, is already a translation: firstly, of the non-verbal world and secondly, since every sign and every phrase is the translation of another sign and another phrase. However this argument can be turned around without losing any of its validity: all texts are original because every translation is distinctive. Every translation, up to a certain point, is an invention and as such it constitutes a unique text".

Octavio Paz

Già a partire dagli anni Quaranta, anche in seguito alle guerre mondiali e ai sopraggiunti crescenti contatti tra i popoli, si fa più impellente il bisogno di comunicazione a livello mondiale e l'effetto di ciò è una non più procrastinabile indagine ragionata attorno alle tematiche linguistiche.

Comunque è soprattutto negli ultimi decenni che si è assistito a un affinamento di tale indagine che ha portato, di fatto, ad una nuova disciplina svincolata dall'empiria e a vocazione metodologica, una disciplina in grado di cogliere gli stimoli offerti dalla linguistica e dalla critica letteraria, dalla filosofia, dalla sociologia e dall'antropologia culturale.

Riconosciamo a tale dibattito tuttora in corso il grande merito di aver sensibilizzato nei confronti di un processo linguistico tra i più complessi e di aver fatto superare la semplicistica e miope visione del traduttore inteso come un mero creatore di una tassonomia tra le lingue e come un decodificatore di segni. Si è cioè pervenuti alla convinzione che tradurre non significa cercare delle sequenze, dette equivalenti, in due lingue o linearizzare dei segmenti giustapposti, pensando con non poca ingenuità che la somma dei componenti restituisca il significato di partenza. Infatti, è tutt'altro che vero che le lingue abbiano le stesse modalità e possibilità comunicative e che la traduzione, intesa come sostituzione di un segno con un altro, abbia lo stesso valore, che porti cioè a un'equivalenza di codici.

La nascita della traduttologia come disciplina a sé, affrancata dunque dagli altri studi letterari con cui di fatto condivide solo la missione di comunicazione, è fatta risalire alla pubblicazione nel 1963 a Parigi di Les Problèmes Théoriques de la traduction di Georges Mounin, mentre il neologismo francese traductologie di Brian Harris entra in uso dal 1973.

Un decennio più tardi, nel 1984, la pubblicazione de L'épreuve de étranger di Antoine Berman conduce il dibattito attorno ai problemi insisti nella trasmissione di un testo da una lingua ad un'altra verso un ambito etico, l'ormai consolidata espressione  de le virage éthique en traduction, la svolta etica della traduzione, da ora in poi concepita come esercizio di alto valore morale, in quanto primariamente mediazione dell'Estraneo, accoglimento dell'Altro. Negli ultimi decenni è cioè tacitamente riconosciuto, o almeno così dovrebbe essere, che chi si assume l'onere di tradurre, si assume anche la responsabilità morale di quanto andrà a trasmettere.

Il punto di partenza di questa teoria è un attacco frontale alla traduzione correntemente in uso in occidente, la traduzione culturalmente etnocentrica[1]. Ma che significa questo termine? Secondo Venuti, è il metodo traduttivo tipico della realtà anglo-americana che tende ad annettere tutto ciò che non è autoctono alla propria cultura e al proprio metro di giudizio, negando di fatto in questo modo la Diversità o vedendola in chiave negativa. In una traduzione così condotta, si celano mistificazioni culturali che sono delle vere e proprie violenze sulla ricchezza linguistica e culturale dell'opera originale. Venuti cita l'esempio dell'Interpretazione dei sogni di Freud, piegata in inglese all'ideologia positivista della cultura angloamericana, dove ad esempio i dialoghi informali in tedesco vengono tradotti come se si trattasse di un testo tecnico.

Pur nel magma di studi e teorie sulla traduzione succedutesi e sovrappostesi nel tempo, tra l'altro ancora lungi dall'essere unanimemente accettate da tutti gli studiosi, pare tuttavia possibile delineare alcuni punti fermi dati per acquisiti o, per meglio dire, delle aree tematiche d'importanza imprescindibile quando si affronti il dilemma su come tradurre.

In primo luogo, è ora assodato che il testo tradotto ha carattere di opera originale in sé e per sé che vive una sua dignità, quando prima le traduzioni erano "le belles infidèles", dunque implicitamente accettate come pallide copie dell'originale[2]. Va detto che al mutamento in tal senso della percezione del fenomeno traduttivo hanno contribuito molto i filosofi, in particolare Deridda e Benjamin, che vedevano nella traduzione un'attività insita nel linguaggio stesso, dunque fondante per la comunicazione ed essenziale per la sopravvivenza dell'originale.

Altro concetto condiviso, assunto con le teorie testuali e pragmatiche e la nascita dei Translation Studies, è quello della necessità di porre al centro del dibattito una fondamentale domanda: "Quali sono le modalità secondo cui il traduttore opera le sue scelte e quali fattori condizionano tali scelte?"

L'analisi testuale, dunque, assume un ruolo di rilievo, è un'indagine spesso condotta con spregiudicatezza metodologica, che diremo basata "anche" sugli strumenti della linguistica, senza tuttavia arrivare a proporre di risolvere l'atto del tradurre a un problema unicamente o specificatamente linguistico.

Infine, l'idea dell'importanza della dimensione storico-sociale del testo tradotto, una teoria portata avanti, tra gli altri, da Gideon Toury che, nella sua raccolta di saggi del 1980, In Search of a Theory of Translation, afferma che "translations are facts of the target culture only", le traduzioni sono realtà che appartengono solo alla cultura ospitante, ridimensionando così di fatto l'importanza del testo.

A tutt'oggi resta ancora aperta la discussione su come si debba tradurre un testo arcaico, comunque scritto in una lingua non più attuale. Vale anche qui la regola del tradurre pensando al fruitore finale, il lettore dei nostri tempi, o non conviene invece tentare di riprodurre lo stile dell'epoca? O per dirla in altri termini: quale cultura deve incarnare la traduzione di un testo appartenente ad un'altra epoca?

Secondo James Holmes che di Toury può essere considerato un precursore, quando si traduce non ci sono scelte giuste o sbagliate, né precetti possibili, ma soluzioni più o meno idonee al contesto storico e culturale in cui dovranno calarsi le traduzioni.[3]

Tanto per fare un esempio per far capire quanto le realtà siano complesse, il lettore "mi consenta" di citare il termine "celodurismo", di certo noto agli Italiani avvezzi al lessico fecondo dei politici nostrani, ma come renderlo efficace ad un lettore della Lapponia? Come rendere lo stesso intricato dedalo di interrelazioni culturali e sociali, non da meno di quelle linguistiche?

Si diceva di puntare all'identificazione socio-culturale propria del lettore finale. Tuttavia, nemmeno questa asserzione ci toglie dall'imbarazzo quando dobbiamo  tradurre un testo in un altro, perché ci si deve ad un certo punto chiedere quali siano i limiti entro cui un traduttore può agire. A volte, la scelta di "italianizzare" parti di un testo, spesso non deve e non può essere del tutto giustificata dall'originale. E' questo il caso della traduzione dei nomi dei personaggi, delle località note come London, Paris, di determinati usi come il cocktail e l'happy hour. Devono essere lasciati in lingua originale, conservando così la loro identità nazionale, o non conviene invece reinventarli nella lingua d'arrivo? Anche in questo caso una risposta univoca non pare possibile.

Si dovrà rimandare alla scelta di base operata dal traduttore. Se egli desidera essere fedele al tono, al registro dell'opera, dovrà per esempio reinventare nella sua lingua madre dei nomi semanticamente portatori dello stesso registro, un registro che scomparirebbe laddove la traduzione si presentasse come un mero calco linguistico.

Il concetto di traduttore come sorta di "mediatore culturale" era già stato espresso da Mounin che qui lo spiega bene:

"Per tradurre un testo scritto in una lingua straniera, bisogna rispettare due condizioni, e non una soltanto; due condizioni necessarie, nessuna delle quali è sufficiente di per se stessa: conoscere la lingua e conoscere la civiltà di cui parla questa lingua (e ciò significa la vita, la cultura, l'etnografia più completa del popolo di cui questa lingua è il mezzo d'espressione". [4]

E' questo il caso dei famosi rompicapo per ogni traduttore dall'Inglese, quello dei nonsense, la tecnica so british per trasmettere un effetto comico basato su specifiche caratteristiche culturali. Qui un professionista sarà doppiamente messo alla prova come "traduttore culturale", in quanto il nonsense sovverte per sua natura le regole, accosta parole associabili tra loro a livello fonico, ma non coerenti nel significato. Privando tali parole del loro contesto, o non sapendolo riprodurre adeguatamente, si rischia di perdere in toto l'effetto comico. E se un testo che è umoristico nella lingua d'origine, in quella d'arrivo non fa ridere, è semplicemente un testo defunzionalizzato. L'assenza di funzione, la défonctionnalisation, è forse il difetto più ricorrente e imperdonabile nella pratica della traduzione letteraria[5].

Non si può che ritornare, perciò, a sottolineare l'importanza del traduttore e dell'esercizio della sua intuizione per risolvere gli enigmi dell'ipotesto. Assumendo, però, che per una più idonea resa della traduzione serva questa sorta di libero arbitrio del traduttore, che potremmo definire elemento creativo, si ammette anche in ultima analisi la possibilità di operare dei cambiamenti sul testo e ci si avvicina sempre più al concetto dell' intertestualità di Emilio Mattioli, al concetto di traduzione intesa come il " risultato di una interazione verbale con un modello straniero recepito criticamente e attivamente modificato".[6]

Sempre secondo Mattioli, questa si configurerebbe come "la proposta teorica più recente relativa alla traduzione letteraria", un'implicita licenza per un work in progress, per un passare continuo dal testo originale a quello tradotto.

Questo perché, in accordo con Herder che definiva la traduzione come Denkmal, ricordo dell'originale, "nessuna traduzione si limita a dire la stessa cosa in un'altra lingua, bensì essa apporta sempre qualcosa di nuovo, di diverso, diventa il catalizzatore della formazione progressiva, lavora per la lingua e nella lingua come progressione".[7]

Da quanto si è potuto fin qui vedere, dunque, il dibattito attorno al concetto di tradurre e alle sue svariate valenze vertono sempre più attorno alla figura del traduttore e alle sue responsabilità etiche circa le scelte che di volta in volta è liberamente chiamato a operare. Siamo giustamente lontani dai giorni in cui il traduttore doveva illusoriamente scomparire dalla pagina, diventare trasparente, affinché il significato originale del testo brillasse in tutta la sua cristallina purezza. Non dimentichiamoci neppure del ruolo marginale che la traduzione rivestiva fino a poco tempo fa, tanto che nelle recensioni e addirittura negli stessi libri, il nome del traduttore non veniva nemmeno citato o tutt'al più solo in modo fugace.

Si sta altresì sempre più facendo strada la convinzione che una traduzione (riferendosi con questo termine in particolar modo alla traduzione letteraria) degna di questo nome sia un'opera d'arte autonoma rispetto all'originale. Ogni traduzione è diversa e ciò fa di ogni testo un originale, un testo unico.

Il traduttore professionista deve possedere tutte quelle capacità che lo portino a cavalcare il fiume dei segni estranei senza pretesa di dominio su essi, ma con la capacità di convogliarli in un testo nuovo e indipendente dall'originale, eppure in costante richiamo con esso. Una sfida non da poco, eppure un affascinante richiamo.

 

Testi consultati
Octavio Paz, Traduzione: Letteratura e Letteralità, Ed. Tusquets, Barcellona 1973
Sandra Campagna, Sull'intraducibilità relativa del tono comico in P.G.Wodehouse, "Testo a Fronte" , Crocetti Editore, n.16, marzo 1996, p.45
Edoardo Crisafulli, Empiria e Traduzione: Descriptive Translation Studies, "Testo a Fronte", Marcos Y Marcos, n.16, marzo 1997, p. 53
Emilio Mattioli, L'etica del tradurre, in Seminario sulla teoria della traduzione, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 2004-2005
Giuseppe Palumbo, Il ruolo centrale della traduzione specializzata nell'evoluzione degli studi sulla traduzione, ibidem come sopra
Guillermo Carrascòn, L'errore di traduzione: una prospettiva didattica, ibidem come sopra.


[1] Lawrence Venuti, The Translator's Invisibility. A History of Translation, Temple University, Philadelphia, 1995

[2] Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione, Einaudi, Torino 1965, pp.44 e sgg.

[3] James Holmes, Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies, Amsterdan 1994, Rodopi.

[4] G. Mounin, op. cit.,  pp.162

[5] Efim Etkind, Un art en crise, Essai de Poétique, Losanna 1982, p.1

[6] E. Mattioli, Intertestualità e traduzione, "Testo a Fronte", n.5, ottobre 1991, p.7.

[7] F. Apel, Il movimento del linguaggio e il problema della traduzione in Herder, "Testo a Fronte", n.5, 1991, p. 20.

A cura di Cinzia Sgambaro



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