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Dalla parte di Bergotte. La funzione redentrice della scrittura nella Recherche
di Valentina Corbani
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Dalla parte di Bergotte. La funzione redentrice della scrittura nella Recherche

“Tout la nuit funèbre, aux vitrines éclairées, ses livres, disposés trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient, pour celui qui n’était plus, le symbole de sa résurrection” . L’addio a Bergotte, lo scrittore della Recherche. In tutta la monumentale opera di Proust (Parigi, 1871 – 1922) grande importanza viene attribuita alla scrittura.
Innanzitutto, l’opera intera descrive l’apprendistato di Marcel, “Marcel che diventa scrittore” e tutto il resto (le lunghe descrizioni, le frasi senza fine, la madeleine, Swann e Odette, Albertine, Giselle, etc.) non serve a altro se non a indirizzare Marcel verso la sua carriera letteraria, verso quell’ unica “vita realmente vissuta [che è] la letteratura” . La scrittura ha, dunque, in tutta l’opera un valore fondamentale. Non è un caso, forse, che questa vada ‘conquistata’ e che, alla soluzione di darsi alla letteratura, Marcel arrivi con non poco sforzo e nel ‘luogo’ più significativo dell’opera: nel Temps retrouvé. E’ nel Temps retrouvé, infatti, che tutto converge e tutto si recupera; ed è lì che Marcel si ‘vota’ alla sua carriera di scrittore. Importante è anche sottolineare che il libro che il Narratore scriverà, altro non è che il libro appena letto: la Recherche.
“J’ai trouvé”, scrive Proust nella sua Correspondance, “plus probe et plus délicat comme artiste de ne pas laisser voir, de ne pas annoncer que c’était justement à la recherche de la vérité que je partais. […] Je déteste tellement les ouvrages idéologiques où le récit n’est tout le temps qu’une faillite des intentions de l’auteur que j’ai préféré de rien dire. Ce n’est qu’à la fin du livre, et une fois les leçons de la vie comprises, que ma pensée se dévoilera” .
Questa lettera è stata letta come “un manifesto di poetica” , ed è il modo giusto d’interpretarla. Infatti, “vi è dichiarato il fine dell’arte la ricerca della verità, […] ma anche il metodo che può darle corpo” .
Il tempo perduto viene recuperato, alla fine della Recherche, perché contiene un’esperienza umana ; l’esperienza artistica è comunque fondamentale sia, come si è visto, per il recupero del tempo, sia perché
“l’opera d’arte è uno strumento di mediazione tra essenza universale e esperienza individuale, quale unica forma […] in grado di fissare in eternità l’attimo fuggitivo” .
Ecco quello che l’artista deve fare “fissare in eternità un attimo fuggitivo” che equivale, in un certo senso, a recuperare il tempo perduto: fissare quel momento, quell’attimo perché rimanga.
L’artista, lo scrittore, sia Marcel che Proust che Bergotte, è questo che deve fare: “scoprire e portare alla luce l’unicità della propria esperienza interiore” , quell’esperienza umana di cui si parlava prima.
Lo scrittore, così come viene definito nell’opera di Proust, ha molti tratti in comune con il lettore. E’ un lettore, innanzitutto, e
“è in grado di trarre alla luce il proprio libro, il proprio figlio, da quell’oscurità, da quel silenzio, da quell’ignoto che custodiscono una tale verità della vita” .
Lo scrittore nella Recherche è colui che “è in grado di resuscitare i morti, di accendere la lampada del sacrificio che si consuma per illuminare i posteri: la letteratura” . Ecco perché, allora, “la vita vera, la vita illuminata, l’unica quindi realmente vissuta è la letteratura” . Alla letteratura e agli scrittori è dato un compito importante.
“Nell’universo infinito della letteratura, [infatti], s’aprono sempre altre vie da esplorare, […] stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo” .
Se “ciò che muore al corpo si fa immortale se trasmutato in cosa mentale; allora, al posto dei corpi bisogna mettere il pensiero” . Chi è in grado di fare questo? Trasformare una cosa mortale in una immortale? Gli scrittori. La letteratura che, sebbene non sia eterna (come tutte le cose umane), è comunque un modo più duraturo di fissare qualcosa: un pensiero, una vita, un amore. “Ciò che è morto viene richiamato non alla sua vita passata, ma alla vita eternamente presente dell’arte” . Insomma, c’è qualcosa che “solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici” , e questo qualcosa l’artista deve tradurre in una forma.
“Il narratore”, dice Calvino, “racconta perché ricorda (crede di ricordare) storie che sono state dimenticate (che crede siano state dimenticate)” .
Il narratore proustiano, Marcel, e lo scrittore proustiano, anche lui Marcel, racconta e scrive per ricordare.
L’artista può fare più di questo comunque, e si vede in maniera molto chiara nella Recherche. L’artista (tutti i tipi di artista: sia Bergotte che Vinteuil che Elstir) è “il solo in grado di moltiplicare, per noi e per gli altri, quell’unico mondo che i nostri occhi possono vedere” . L’artista, insomma, può allargare i nostri orizzonti.
“Proust […] sa, grazie a Ruskin, che la materia dell’opera non ha alcuna importanza e che potrà scrivere un capolavoro descrivendo il giardino della sua infanzia, semplicemente, o la camera, il villaggio, la famiglia” .
“Giacché”, scrive Proust, “è un effetto dell’amore che i poeti risvegliano in noi, quello di farci annettere un’importanza letterale a cose che per loro sono soltanto espressioni di emozioni personali” .
Per fare questo bisogna che gli artisti siano degni di questo nome. Come si è detto, solo questi possono aprirci alla realtà, farci vedere il mondo.
Nella Recherche di artisti veri ce ne sono tre: Vinteuil, la musica; Elstir, la pittura e Bergotte, la scrittura. Marcel, per un primo momento, non è classificabile come artista. E’ in ricerca ed è il suo apprendistato di cui si parla nella Recherche, quindi è posizionato in una zona intermedia. Questa zona è delimitata ai lati dagli estremi dell’arte: da una parte, lo scrittore Bergotte, dall’altra, il dilettante Swann.
“ Si chiama ‘dilettante’ colui per il quale la ricerca del bello non costituisce un mestiere, e questo termine non è mai stato inteso nel suo esatto significato” .
“La parabola della sua esistenza, [di Swann], non dice solo le verità dell’amore, ma piuttosto le verità dell’arte, poiché fa consistere il suo insegnamento nell’azzeramento dell’esperienza vissuta” .
Marcel è quindi in una posizione delicata. Anche lui potrebbe perdersi come Swann. Il talento non c’entra (anche Swann ha talento); quello che è importante è non perdersi nella mondanità, nei vizi, nell’amore. Non perdere il tempo e le doti come Swann.
Quando Swann ha una difficoltà che non vuole risolvere, giocherella con gli occhiali; in questo gesto, è sintetizzato il suo nichilismo, e la differenza fondamentale tra lui e lo scrittore Bergotte. Quel gesto “diventa il simbolo espressivo della sua rinuncia alle decisioni” e, per questo gesto e quello che gli sta dietro, Swann non potrà diventare scrittore.
La differenza fondamentale tra Swann e Bergotte sta tutta qui: Swann si perde, perde la sua vita tra le cose che non sono importanti, non riconosce le cose che lo sono, per questo Swann fallisce e Bergotte no.
La differenza tra Swann e Marcel, invece, è più sottile ma fondamentale: sta nei segni. Segni che Marcel si impegna a non ignorare e che Swann allontana con il suo solito gesto di pulirsi gli occhiali. Marcel diventa scrittore e non rimane un dilettante come Swann perché non ignora “i segni che un libro emette” .
La Recherche, allora,
“è il dramma di una creatura intelligente e sensibile che parte, fin dall’infanzia alla ricerca della felicità e cerca in ogni maniera di raggiungerla, ma che rifiuta di ingannare se stessa. […] Proust cerca ciò che sta al di là dello spazio e del tempo, e lo cerca nell’arte” .
Come si capisce se si è artisti? Quando uno scrittore può considerarsi tale?
Rilke diceva che
“nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stessi. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire quando vi si negasse di scrivere. […] Domandatevi: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. […] E se questa dovesse suonare come un ‘debbo’, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità” .
Concezione dell’arte e dello scrivere molto simile a quella di Proust: ricercare all’interno di noi stessi le ragioni che ci chiamano a scrivere e, una volta capite, indirizzare in questo senso la nostra vita per non sprecarla, per non perdere il tempo, come Swann, ma per ritrovarlo, come Marcel alla fine della Recherche. Così, quest’opera, non è solo il lungo racconto della vita e dell’apprendistato di qualcuno a nome Marcel, ma parla di tutti noi. Invita tutti noi a capire ciò che siamo, quello che dobbiamo fare, e ad esserlo. Ci invita a finirla ‘di pulirci gli occhiali’ e a diventare ciò che dobbiamo diventare.
Anche Marcel, come si diceva, per gran parte del tempo rischia di passare davvero “dalla parte di Swann”; anche lui rischia di disperdere il suo talento nella mondanità, nei vizi vivendo, come Proust stesso diceva, “alla superficie di me stesso” . Questo perché “la figura di Swann è appena una variante dell’io che racconta”, quindi anche Marcel rischia di perdersi dietro Swann.
“Combien de grandes cathédrales restent inachevées!” , quando l’artista vive alla superficie e non scende dentro di sé e non capisce, quindi, le ragioni profonde dello scrivere, dell’arte. Quante cattedrali resterebbero incompiute se non ci fosse una sorta di equilibrio tra gli Swann e i Bergotte; tutte le cattedrali che sono tutti i libri resterebbero poi incompiute se non ci fossero personaggi come Marcel che, per gran parte del tempo, vanno allo sbando non sapendo bene qual è la loro strada, compiendo comunque il loro apprendistato, e poi si salvano, ritrovano il tempo e non è a caso che, proprio in quel momento, si decidono alla carriera letteraria. Marcel diventa in quel preciso istante la figura di scrittore cui Proust ha sempre fatto riferimento:
“uno scrittore che deve realizzare la propria vita, attuarla in un libro, e che per fare questo ha bisogno di tempo, concentrazione, silenzio, amore esclusivo, dedizione totale” .
Il profilo dell’artista che viene delineato da Proust è quello di un uomo capace di creare tutte le volte “quel mondo che è creato ogni qualvolta sorge un nuovo artista” . In realtà, lo scrittore cui Proust fa riferimento deve ‘ritrovare’, non inventare: se non ci fosse stato nulla da trovare, Proust non sarebbe ‘partito’ “alla ricerca del tempo perduto”. Grazie a questo si capisce chi è artista e chi non lo è. Con Bergotte, con Marcel, con Proust il mondo si crea di nuovo, un altro mondo, un’altra realtà; con Swann questo non avviene.
“Non accusate”, scrive Rilke, “la vostra vita quotidiana se vi sembra povera. Accusate voi stesso, che non siete così poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti” .
Non ci sono luoghi tanto indifferenti da non poter essere vissuti o descritti né per Marcel o Bergotte né per Proust; d’altra parte, non ci sono nemmeno luoghi che ci appaiono tanto indifferenti dopo che vengono filtrati dagli occhi di questi artisti. Qualsiasi luogo, qualsiasi cosa, invece, in mano a chi non è un’artista ma un dilettante resta così com’è. Infatti,
“Proust ha preso una vecchia cuoca, una camera in una casa di provincia, una siepe di biancospino e ci ha detto: ‘Guardate meglio: sotto queste forme tanto comuni vi è tutto il segreto del mondo’” .
Ecco la funzione fondamentale della letteratura;
“il vero viaggio sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è” .
Il problema, allora, non è il fatto che solo pochi vedono, ma che solo pochi guardano; e tra guardare e vedere c’è un’enorme differenza; come tra essere uno Swann o un Marcel.
Per la scrittura di Proust, allora, vale ciò che Boissier diceva su Saint-Simon:
“non c’è niente di più vivo, di più leggero, di più incantevole che le piccole frasi di cui [le parti dei brani] si compongono, quando le si isola”.
E’ questo che le frasi di Proust fanno: rendono vivo, ritrovano, alleggeriscono anche la più lunga descrizione, anche il più triste mondo, anche la più banale realtà quotidiana. Non c’è nessun punto nel tempo e nello spazio che le frasi di Proust non toccano e non abbelliscono.
Gli esseri umani, e Proust lo sapeva bene perché l’aveva sperimentato su di sé, non possono toccare tutti questi punti né arrivare agli altri esseri umani che restano un mistero (e di questo la figura di Albertine nella Recherche è un esempio perfetto); però, la scrittura può. La scrittura – e anche la lettura – sono allora attività umane che portano l’uomo ‘oltre’ e lo invitano e gli permettono di toccare quei punti, di arrivare, in qualche modo, agli altri esseri umani. Non c’è sistema di comunicazione migliore.
In fondo, anche la scrittura è fatta di parole che sono fatte di lettere. L’alfabeto, poi, o “i vari accozzamenti di venti caratteruzzi” , come lo definiva Galileo, serve a questo: alla “comunicazione tra persone lontane nello spazio e nel tempo; […] la scrittura stabilisce una comunicazione immediata tra ogni cosa esistente o possibile” . Già nell’alfabeto, allora, è sintetizzata l’essenza della scrittura.
Poi, se è Proust a scrivere possiamo fidarci. Come si diceva, Proust ha sperimentato le sofferenze dei suoi personaggi. E’ su di sé che le ha provate. Parlare di verità quando si parla di scrittura o di letteratura in generale, è sempre difficile. Eppure, si può ‘credere’ a Proust quando ci dice come si soffre per amore; gli si può credere quando ci dice che Swann perde il suo tempo; quando parla di tutte le sofferenze di tutti i suoi personaggi che sono, poi, quelle degli esseri umani. Gli si può credere perché è stato il primo a provarle.
Marcel, il narratore, ha un compito fondamentale che può svolgere solo decidendosi a finirla di ‘perdere il tempo’ e risolvendosi a diventare scrittore. Non a caso Marcel, che dice ‘io’ (che non è Proust, ma gli è molto vicino) deve “disporre e coordinare i diversi piani, [Marcel] è lo spirito d’associazione” . I piani sono, ovviamente, quelli del racconto e quelli molto più importanti delle vite dei personaggi. Marcel, in quanto narratore e futuro scrittore, ‘tiene insieme’ la vita di Swann, di Odette, di Albertine e, tuttavia, in quanto personaggio si scontra sempre con l’impossibilità di comprendere quelle vite. Quando diventa scrittore, Marcel, collega tutte queste vite su un piano solo. C’è un certo ordine, allora, nella Recherche, “ma è l’ordine dell’occhio umano abbandonato a se stesso” , non ha niente di divino o soprannaturale. Tutto ha un suo ordine e c’è tutto nella Recherche. “Tutto quello che è già liberato e quello che non lo è ancora” ; Swann che ama e non è amato in cambio, Albertine prima prigioniera poi fuggitiva, Marcel bambino poi adulto, il tempo perduto e quello ritrovato.
“La letteratura ha una funzione esistenziale” , diceva Calvino. E aveva ragione. La letteratura ha un potere di liberazione. E’ una sorta di “ricerca della leggerezza come reazione al peso del vivere” ; e, la lettura può essere un nido, un guscio, un rifugio quando ‘il peso del vivere’ si fa insostenibile.
Si parlava prima di cattedrali. La cattedrale è la forma che descrive meglio l’opera di Proust che viene definita “una cattedrale incompiuta”. Incompiuta, però, non nel senso negativo con cui si parlava prima di cattedrali e scrittori, ma nel senso d’inevitabilità. C’è nella Recherche una sana “incapacità a concludere” . Inevitabilmente, insomma,
“dans ces grands livres-là, il y a des parties qui n’ont eu le temps que d’être esquissées, et qui ne seront sans doute jamais finies, à cause de l’ampleur même du plan de l’architecte” .
Proust non riesce a vedere conclusa la sua opera, perché tutto è troppo grande e l’opera stessa « va infoltendosi e dilatandosi dall’interno » . Insomma, cattedrali incompiute sono, alla fine, tutti i libri. Quelli che non possono essere scritti per inerzia o perché gli scrittori di quei libri sono dilettanti, si sono persi come Swann. Ma cattedrali incompiute sono anche opere come la Recherche che rimangono inevitabilmente tali per la vastità della materia trattata e della loro struttura. La Recherche è un libro incompiuto perché non può essere finito; è un libro “che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” . Sono incompiute opere simili perché sono ‘opere spirituali’, cioè romanzi che, alla fine, consistono “nell’infinito lavorio spirituale a cui il narratore sottopone lo scarso materiale esteriore” . Il romanzo di Proust (e di Marcel) è tutto interiore. Infatti, “cosa può significare tutta la vita esteriore, quando quella interiore pulsa così calda e impetuosa?” E ancora, chi ascolterebbe il suono dei campanili di Martinville, chi si fermerebbe a guardare le guglie dei campanili di San Marco, chi scriverebbe più di quindici pagine per raccontare come ci si addormenta, se il suo intento fosse di dire solo questo? Le opere come la Recherche sono ‘racconti’ di esperienze interiori (dove non si vuole solo descrivere come si fa a prendere sonno e far sapere quanto sono buone le madeleine), intercalate dalla realtà quotidiana. La Recherche, in fondo, parla di ‘fatti quotidiani’, “per quanto senza peso e senza significato essi possano apparire a un uomo qualsiasi” . Insomma, per Proust tutto ha valore, tutto importa, tutto ha un suo significato: un pezzetto di dolce come tremila pagine scritte, un amore non corrisposto come un bacio la sera.
“À partir d’une certain âge”, scrive Proust, “nos souvenirs sont tellement entre-croisés les unes sur les autres que la chose à laquelle on pense, le livre qu’on lit n’a presque plus d’importance” .
Tutto importa, allora, perché, “on peut faire d’aussi précieuses découvertes que dans les Pensées de Pascal dans une réclame pour un savon” .
“Ecco la ragione”, scrive Spitzer, “di certi schemi proustiani come: ‘era non a, ma b’ o ‘se non era a, almeno era b’; che intanto portano sia a che b sotto gli occhi del lettore, […] la locuzione più banale [infatti] può custodire i più profondi segreti dell’anima” .
“L’opera letteraria è una minima porzione in cui l’universo si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo” . Sono opere, allora, che per la loro struttura interna non possono essere completate, senza che qualcosa vengo perso e, come si diceva, nulla può essere perso.
“L’arte è forma dell’immortalità perché raccoglie in unità ciò che la vita disperde, dissemina inconsapevole, e non occupandosi del tempo è in grado, ponendo nel presente il passato, di dare al presente un futuro infinito” .
Il tempo perduto viene recuperato dalle opere d’arte e davanti a queste opere (alla Recherche, insomma, perché opere simili e migliori non ce ne sono) basterebbe fermarsi, “stare”, come Proust davanti a quelle rose del Bengala. La Recherche, allora, non finisce mai, quindi “in un certo senso, non comincia mai” . Proust scrive di cose non ancora finite; scrive di cose che non possono finire.
“La poesia”, scriveva Montale, “quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia” .
Si parla, non a caso, di una ricerca. Questi libri sono di tutti, e i lettori di questi libri sono, in realtà,
“les propres lecteurs d’eux-mêmes, et [les livres] n’étant qu’une sorte de ces verres grossissants comme ceux que tendait à un acheteur l’opticien de Combray” .
La letteratura è, allora, come si diceva, “l’unica vita vissuta” quando all’inizio c’è solo Illiers e, alla fine, c’è tutta Combray.

A cura di Valentina Corbani



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