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I cosacchi in Friuli: una terra impossibile
di Lara Scifoni
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I cosacchi in Friuli: una terra impossibile

Come Carlo Sgorlon precisa ne La penna d’oro, autobiografia in cui si sofferma anche sulla poetica alla base della sua produzione letteraria: “I [miei] romanzi sono di ambientazione friulana, sia pure vaga e leggendaria. Esprimono, con la loro geografia fantastica, la sostanza della mia visione della vita, ma sempre sono collocati dentro la cornice della Piccola Patria. Nei romanzi, anche i più liberamente inventati, la storia, il paesaggio, l’anima del Friuli fanno quasi sempre da protagonisti. Anzi, una delle ragioni per cui la mia narrativa è diventata popolare, pur non facendo alcuna concessione al gusto del tempo, è certo questa: i miei libri, benché lontani dal realismo cronachistico, hanno fatto del Friuli un luogo mitico: un po’ come la Calabria di Alvaro, la Sardegna della Deledda o di Dessì, la Langhe di Fenoglio, l’Abruzzo di Silone, e così via”[1].

La citazione, poi, di manzoniana memoria “misto di storia e d’invenzione” riferita ad un romanzo quale L’Armata dei fiumi perduti (che lo consacrò vincitore del premio strega nel 1985) non è casuale e bene si adatta ad un’opera che tanto contribuì al successo di Sgorlon tra il grande pubblico. Si tratta, appunto, di un romanzo in cui i personaggi sono frutto di fantasia ma al tempo stesso partecipano della grande storia. Infatti, “…la duplice tragedia del popolo friulano e di quello cosacco appartengono agli eventi poco noti della seconda guerra mondiale.[2] Anche una delle opere della letteratura russa più famose in Occidente,  La figlia del capitano di Aleksander Puškin, ha proprio i cosacchi come protagonisti ed è un romanzo storico, in omaggio alla moda diffusasi nell’Ottocento sulla scorta del successo di Alessandro Manzoni e Walter Scott. E’ ancora Sgorlon a rievocare la genesi de L’armata dei fiumi perduti e ad osservare di aver sempre subìto il fascino della cultura e del mondo slavi. Infatti, se La conchiglia di Anataj è ambientato nella taigà siberiana, L’armata dei fiumi perduti si svolge in Friuli, ma narra l’intrecciarsi delle vicende di personaggi friulani e cosacchi alla fine della seconda guerra mondiale. L’autore nella prefazione afferma di aver “ricavato notizie di vario genere, spunti, motivi, suggerimenti, canzoni, ritornelli da libri che sull’argomento sono stati pubblicati in Friuli, come La terra impossibile di Bruna Sibille Sizia[3], e L’armata cosacca in Italia di Pier Arrigo Carnier, ma soprattutto dai Cosacchi di Leone Tolstoj. L’impostazione generale del racconto però l’ho costruita sopra i miei ricordi e la mia pietà per quello strano popolo di invasori primitivi, un po’ barbarici, cui l’impassibile spietatezza della Storia aveva sottratto per sempre la possibilità di avere una patria.”[4]. Prima di trattare l’avvenimento storico che fa da sfondo al romanzo è importante evidenziare il concetto di patria per Sgorlon:

[…] La nostra vera patria è un eden perduto, che non sapremmo nemmeno indicare […].

Tuttavia il luogo dove siamo nati e la sua cultura ci forniscono in qualche modo l’identità e la sensazione di essere nel mondo un po’ meno soli e sperduti. Perciò perdere la patria definitivamente è sempre una vera tragedia dello spirito.[5]

E il destino dei cosacchi fu davvero tragico. Essi, originariamente appartenenti a popolazioni seminomadi, nel XV secolo occuparono le steppe lungo i grandi fiumi Ural, Volga, Don e Dnepr: ‹‹[…] lontano dal potere centrale si erano andate formando le comunità dei cosiddetti “cosacchi”, dalla parola turca kazak. Nel secolo XIII significava “assoldato”, mercenario”. […] Dal secolo XV in poi kazak era chiamato l’uomo “libero” in genere, non soggetto ad altra autorità che non fosse quella scelta da lui stesso, in nome dei suoi occasionali e mutevoli interessi››[6]. I cosacchi, secondo Carnier, erano una popolazione nordica giunta fino al sud della Russia navigando per vie fluviali;[7] raccolti in società organizzate militarmente, eleggevano il proprio capo, l’atamano, e si dedicavano all’agricoltura, all’allevamento dei cavalli e delle pecore e alla pesca, ma non disdegnavano la rapina sulle importanti vie del commercio tra la Russia e la Persia; amanti della libertà, andarono via via russificandosi finchè nel XVII secolo il governo trasformò quei popoli indocili in soldati fedeli allo zar, delegati alla difesa dei confini contro le scorrerie dei tartari e dei turchi, accordando loro grandi privilegi, come la dotazione di terreni fertili da coltivare senza corrispondere alcun contributo alla Corona, o esenzioni dai tributi e dalle tasse doganali. Nell’Ottocento essi si stabilirono anche lungo i fiumi Terek, Kuban’, fino alle coste del Mar Nero e del Mar D’Azov a ovest e del Mar Caspio a est. Nel 1917 i bolscevichi abbatterono il potere zarista e spazzarono via la servitù della gleba; nel 1918 il comandante Krasnov, già atamano del grande esercito del Don forte di 200.00 uomini si schierò a fianco della controrivoluzione con le Armate Bianche, sperando nel rovesciamento del nuovo regime e nel ripristino dello status quo ante. I Bianchi però furono pesantemente sconfitti ed egli riparò in esilio in Francia e in Germania, dove scrisse diversi romanzi, tra i quali Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa. “Con la salita al potere di Stalin prese avvio un percorso di repressioni, deportazioni in Siberia, esproprio e collettivizzazione delle terre, con eliminazioni fisiche dei principali responsabili del popolo cosacco, al fine di annullarne il concetto di nazionalità”[8]. Quando le truppe naziste invasero ed occuparono l’URSS (1941-1943), numerosi cosacchi passarono dalla parte dei tedeschi, i quali facevano leva sul sentimento antibolscevico e le rivendicazioni autonomistiche. Secondo alcune fonti[9], furono circa un milione i russi inquadrati nell’apparato militare tedesco: si trattava di esuli zaristi fuggiti all’epoca della rivoluzione bolscevica, prigionieri di guerra, gruppi etnici ostili al bolscevismo tra i quali, appunto, i cosacchi, che successivamente costituirono la ROA (Russkaja Osvoboditel’naja Armija), l’Armata Russa di Liberazione comandata dal generale Vlasov. Hitler, dimostrando disprezzo verso i collaborazionisti, affermava che “…solo i tedeschi possono portare le armi, non certo gli slavi o i cechi, o gli ucraini, o i cosacchi”.[10]

La Carnia, dal settembre del 1943, insieme al resto della provincia di Udine, a Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana e Quarnaro (nonché i territori di Susak, Buccari, Cabar, Castua e Veglia) divenne parte della zona denominata “Adriatisches Küstenland” (Litorale Adriatico) e subì, tra la fine di agosto del 1944 e i primi di maggio del 1945, l’occupazione di un massiccio contingente di combattenti e civili cosacchi e caucasici al seguito dei nazisti, i quali intendevano servirsene nella lotta contro il forte movimento partigiano in Carnia, che minacciava le vie di comunicazione tra il Litorale Adriatico e la Germania;  inviati a contrastare la Zona Libera della Carnia, i cosacchi avrebbero avuto come ricompensa una nuova terra qualora Hitler avesse vinto la guerra: il Kosakenland in Nord Italien. Claudio Magris, nel racconto lungo Illazioni su una sciabola, a questo proposito   scrive:

I tedeschi avevano promesso loro una patria, un Kosakenland; man mano la guerra proseguiva e la situazione del Reich peggiorava, quel Kosakenland veniva spostato, sulle carte dei comandanti tedeschi, a occidente e a mezzogiorno e la gente cosacca si metteva in moto per raggiungerlo con carri e cavalli, donne e bambini, armi e cammelli, vecchie bandiere e masserizie.[11]

Infatti, con l’inizio della ritirata tedesca, nel febbraio del 1943, le popolazioni cosacche furono trasferite in Ucraina, in Bielorussia, quindi in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria, per approdare, attraverso la Germania e l’Austria, in Friuli alla fine dell’estate del 1944. Alcuni contingenti arrivarono in una seconda ondata nell’inverno di quello stesso anno, provenienti dalla Germania e dai Balcani.[12] Tale fu in sintesi l’operazione Ataman: i cosacchi e i caucasici giunsero in Italia con migliaia di cavalli, una ventina di cammelli, masserizie e carriaggi attraverso la linea ferroviaria Villaco-Tarvisio; furono necessari più di 50 treni merci militari e, per quanto sia difficile fare una stima precisa del numero degli occupanti, le fonti consultate sono abbastanza concordi nel quantificarli oltre le 20.000 unità, moltissime se si pensa che gravavano su una popolazione di circa 60.000 abitanti, già provati dalle difficoltà della guerra. Stefanutti spiega che “i cosacchi erano divisi in più eserciti, indicati con il nome del fiume che attraversava le terre d’origine (i cosacchi del Don, del Terek, dell’Ural, del Kuban…); vi erano poi un nutrito gruppo caucasico e sparute minoranza georgiane, armene, turchestane e di altre origini ancora”[13]. Ciascun gruppo si distingueva per il colore delle bande laterali sui calzoni e comunque la componente cosacca era nettamente preponderante, rappresentando i tre quarti del contingente.

La descrizione del disorientamento iniziale degli occupanti all’arrivo a destinazione, dopo settimane di viaggio (i convogli per lo più si fermavano a Stazione della Carnia, ma anche a Pontebba e Gemona) nel romanzo di Sgorlon è icastica:

[…] Per qualche minuto, appena scesi dal treno, non sapevano dove andare. Poi ben presto scoprivano il flusso che scendeva verso il fiume e lo seguivano. Sembravano una fila di formiche. Erano irresistibilmente attratti dalle acque, le grave e le ghiaie che si allargavano per diecine di metri […]. Sui prati erbosi, un po’ declinanti dalla parte del fiume, rizzavano le jurte grandi e circolari. Ma si smistavano anche in altre direzioni, secondo ordini ricevuti invisibilmente. File di carrette, cavalli, soldati, bambini e donne di tutte le età, suddivisi in gruppi, secondo il colore delle bande dei calzoni, si andavano formando seguendo direttrici diverse.[14]

Per quanto riguarda l’insediamento, generalmente vi fu una prima fase caratterizzata da prepotenze, ruberie e occupazioni forzose ed una successiva in cui la convivenza fu più pacifica, anche per il consolidarsi della convinzione che la permanenza dei cosacchi in Friuli potesse durare a lungo. Un tratto che accomunava i friulani e i cosacchi era il desiderio di possedere la terra; il senso di stabilità e autosufficienza non poteva che venire dal possesso della terra, e ciò non sfuggiva alle autorità cosacche e tedesche. Ad Alesso i cosacchi cominciarono ad arare dei campi acquistati dal generale Fetisov e i contadini del luogo ricordano che stranamente “non facevano i solchi nei campi diritti, come siamo abituati noi, ma ad esse [15].

Marta è la protagonista de L’armata dei fiumi perduti, a lei l’autore affida i suoi pensieri  poiché la donna incarna la saggezza e l’istinto di conservazione, è in sintonia con la natura e fraternizza con  gli occupanti, sentiti più vittime che oppressori:

A Marta i cosacchi facevano pena. Tutti le facevano compassione, i soldati che rischiavano la vita sui fronti, i partigiani che stavano a morire di freddo sulle montagne, i prigionieri, gli sbandati, i dispersi. Ma i cosacchi più di tutti le provocavano uno stringimento di cuore doloroso perché sentiva che non avevano più una patria né un destino. Più si immergeva nel vortice delle riflessioni sulla guerra e più si accorgeva che era una vicenda sinistra e stregata. Era un evento spietato e senza ritorni, come dimostravano i treni che portavano gli ebrei in campi di lavoro coatto […].[16]

Profonda curiosità destarono nei friulani gli aspetti legati alla diversa religiosità dei cosacchi, di fede cristiano ortodossa; le funzioni erano officiate dai sacerdoti, i popi, e potevano durare anche tre ore; i funerali venivano celebrati con la deposizione e l’offerta di viveri sulle sepolture e si svolgevano processioni epifaniche con abluzioni rituali nei laghi e nei corsi d’acqua. I caucasici, invece, erano per il 90% musulmani, fatto che costituiva un vantaggio perché non potevano toccare - e dunque rubare - né vino né carne suina. Per le loro funzioni religiose, in qualche caso, occuparono le stesse chiese cattoliche, ma più frequentemente requisirono edifici pubblici spaziosi, soprattutto scuole.

Dice una leggenda che “nei cosacchi battono due cuori, uno di lupo e uno di bambino”: in stato di ubriachezza essi erano inclini alle violenze carnali, come attestano varie testimonianze[17], e ne fecero le spese anche donne friulane. Nel romanzo di Sgorlon una bella ragazza di saldi princìpi, Alda, una sera diventa la vittima degli istinti più bassi di un gruppo di cosacchi ubriachi, che la seviziano fino ad ucciderla, sebbene non intenzionalmente:

Alda diventò un giocattolo delizioso, con cui ognuno voleva divertirsi. In loro si scatenò l’istinto atavico della preda e della violenza, e secoli di vita tranquilla e ordinata nelle stanitše del Terek vennero annullati da un colpo di spugna[18].

Gli atti brutali di cui essi si macchiarono rievocano un’altra leggenda risalente alla devastante occupazione del Friuli da parte degli Unni nel 452 d.C. Paolo Diacono, nella Historia Romana, narra di una matrona aquileiese, Dugna (o Digna) bella e d’irreprensibile virtù, che abitava presso le mura di Aquileia e vide avvicinarsi l’orda di Attila. Sotto la sua finestra scorreva il fiume Natissa e poiché la donna sapeva che ben presto gli invasori sarebbero entrati in città, preferì gettarsi nel fiume dall’alto delle mura pur di difendere la propria virtù dalla furia di quella gente “sordidissima[19]. D’altro canto, Monsignor Nogara in una lettera del 22 ottobre 1944, definì i cosacchi proprio “flagello di Dio”[20].

Alla fine del flusso migratorio gli occupanti non solo si stabilirono in Carnia e nella zona pedemontana di Udine, ma anche nelle valli del Natisone, a Varmo, Castions di Strada e Morsano al Tagliamento. Il paese di Villa di Verzegnis ospitò la sede dell’atamano Krasnov, il capo supremo delle forze cosacche e uomo carismatico, che giunse in Carnia proveniente da Berlino assieme alla moglie nel febbraio del 1945. Essi soggiornarono all’albergo “Stella d’oro” (già “Savoia”) e il piccolo paese divenne un punto di riferimento per la nobiltà cosacca: al quartier generale arrivavano principesse e dame da Tolmezzo, Osoppo e dalle altre zone d’insediamento e si godeva, secondo le testimonianze dell’epoca, di uno sfarzo imperiale. Sgorlon sottolinea l’assurdità del cerimoniale e dei fasti della residenza dell’atamano, che coltivava ancora l’illusione di vivere all’epoca degli zar, quando, sul finire della guerra, era evidente l’imminente disfatta dei tedeschi:

Per le stanze preziose e luccicanti, che parevano quelle di una villa di campagna dello zar o di qualche principe russo, entravano e uscivano anziani ufficiali, colonnelli o generali, che avevano tutti conosciuto la gloria e la sconfitta dei Bianchi. Urvàn pensò che lì si respirava un’aria astratta, fuori del tempo, come quella di un sogno che aveva trovato tra le montagne del Friuli il suo ultimo approdo. Lì non c’era la verità ma soltanto la messinscena di una illusione.[21]

Il 29 aprile 1945 la Germania firmava a Caserta la resa incondizionata, il 1° maggio gli Alleati entravano a Udine. Negli ultimi giorni di aprile del 1945, a Campoformido, l’atamano Krasnov ebbe un incontro con Vlasov, il comandante della ROA, l’Armata Russa di Liberazione. Constatato l’esito sfavorevole della guerra, essi decisero che i cosacchi stanziati in Friuli si sarebbero ritirati in Austria, da dove, presumibilmente, avrebbero cercato di organizzare una resistenza. I cosacchi, infatti, non ratificarono la resa e nei primi giorni di maggio iniziarono la ritirata lungo la Val Tagliamento e la Valle del Bût;  confluirono a Paluzza, da dove raggiunsero il passo di Monte Croce Carnico o Plöckenpass, per poi scendere verso la valle della Drava. Il passaggio fu difficile perché in quei giorni si scatenò una tormenta di neve e i carri carichi di bagagli e munizioni slittavano. Dopo il superamento del passo di Monte Croce (l’ultimo transito è segnalato il 5 maggio 1945) i cosacchi furono concentrati nella cittadina di Peggetz, nei pressi di Lienz, dove, per circa un mese, venne allestito un campo di raccolta sotto il controllo degli inglesi. Vennero loro requisiti cavalli e armi e generalmente tenuti in condizioni di isolamento dal resto della popolazione. Negli ultimi giorni di maggio l’accampamento venne privato degli ufficiali, ingannevolmente invitati ad una conferenza che non ebbe mai luogo e tradotti nel carcere di Spittal per essere consegnati ai sovietici. Gli accordi di Jalta, infatti, prevedevano che tutte le formazioni e le popolazioni schieratesi al fianco dei nazisti dovevano essere riconsegnate all’Unione Sovietica. Il primo giugno ai cosacchi del campo di Peggetz fu annunciato che sarebbero stati forzatamente rimpatriati: seguirono scene di panico e disperazione e parecchi tentarono la fuga; a centinaia morirono gettandosi nelle acque della Drava o sotto i colpi delle guardie del campo. Carnier, sulla base di documenti in suo possesso, sostiene che le vittime della violenza inglese furono indicativamente di 700 persone, poi sepolte in una fossa comune scavata sul posto. I corpi degli annegati, pari a circa 600 (militari, profughi e tra questi donne e bambini) invece, travolti dalle acque della piena e “trascinati a grande distanza dalla corrente impetuosa, vennero sepolti in località disparate e talune fosse restarono ignote”[22]. Questi sono i dati scarni della cronaca, ma Sgorlon rievoca l’episodio in tutta la sua drammaticità:

Urlando come selvaggi, si buttarono dalle rive nelle acque gelide della Drava in piena. Fu un suicidio collettivo quale raramente la storia aveva conosciuto. Qualcosa di simile era successo solo dopo la presa di Cartagine, di Numanzia o di Gerusalemme.

Agli urli di bestie ferite seguirono tragici silenzi; l’acqua del fiume, dopo giorni, molto più a valle, cominciò a restituire i corpi degli affogati, che venivano tirati a riva con lunghe pertiche e recuperati dagli impassibili inglesi, che li accatastavano come tronchi fradici sulle rive. La Drava era piena di corpi bruni che galleggiavano, gonfiati come otri dalla morte per acqua.[…] Ogni giorno nelle baracche di legno la luce dell’alba rischiarava diecine o centinaia di suicidi, che erano riusciti a impiccarsi usando cinghie di cuoio, spaghi intrecciati, sacchi fatti a strisce e ogni altro possibile materiale.[23]

La pietas qui è per gli “invasori” doppiamente traditi: prima dai tedeschi che se ne erano serviti e li avevano abbandonati in Carnia a combattere contro i partigiani e poi dai britannici, i quali consegnarono indiscriminatamente i cosacchi superstiti all’Unione Sovietica. Pochi riuscirono a fuggire nei boschi dei dintorni, la maggior parte venne deportata in Siberia e condannata a lunghi anni di detenzione nei campi di concentramento. La sorte dell’atamano Pëtr Krasnov, “visceralmente legato all’utopia di una patria cosacca, indipendente dalla stessa Russia zarista”[24], è circondata da un alone di mistero, e sulle diverse congetture circa le circostanze della sua morte Claudio Magris ha costruito il racconto lungo Illazioni su una sciabola. Secondo alcune fonti, infatti, egli fu ucciso in Val Di Gorto da un colpo di pistola sparato dai partigiani a guerra terminata, il 2 maggio 1945, mentre si stava ritirando con le sue truppe ormai allo sbando e in seguito sepolto a Villa Santina[25]. La versione più accreditata, tuttavia, è che egli sia stato deportato in Unione Sovietica, abbia trascorso due anni nelle famigerate carceri della Lubjanka e poi sia stato giustiziato a Mosca nel gennaio 1947, condannato per alto tradimento insieme ai generali cosacchi Škuro e Domanov, a quello tedesco Von Pannwitz, colpevole di aver comandato una divisione cosacca allestita dai nazisti in Russia, e ad altri graduati.

Nel 1991 fu realizzato un documentario-inchiesta dal regista russo Alexander Marjamov intitolato Preghiera - La lunga strada del Friuli, in cui l’occupazione della Carnia veniva rappresentata dal punto di vista cosacco. Anche in questo lungometraggio l’annegamento nella Drava è un momento altamente drammatico e toccante:

La Drava bolliva di teste umane; in questa corrente del fiume montano apparivano continuamente teste umane, mentre nel bosco, lì dove stavano i calessi, i cavalli nitrivano. Era una visione spaventevole. Nitrivano, si agitavano perché accanto pendeva il padrone impiccato, il padrone probabilmente amato. Fu terribile, terribile. Io vidi un cosacco stare sul ponte e avvolgere la famiglia con le briglie, tre figli e la moglie, spingerli giù ed egli stesso buttarsi.[26]

Oggi a Peggetz rimane un semplice monumento proprio davanti al ponte del fiume e si può leggere la scritta “in ricordo dell’ignoto cosacco” sulla trentina di croci in granito posate su un fazzoletto di terra: un piccolo cimitero, poco visibile e assai meno suggestivo del più famoso Friedhof der Namenlosen (Il cimitero dei senza nome) di Vienna, situato sulla sponda sinistra del Danubio, dove riposano persone mai identificate annegate nel fiume - anche accidentalmente -  fino alla prima metà del Novecento.   

 

____________________________

[1] C. Sgorlon, La penna d’oro, Treviso 2008, pp. 116-117.

[2] C. Sgorlon, L’Armata dei fiumi perduti, Milano 1985, p. 14.

[3] Bruna Sibille Sizia, La terra impossibile, Udine 1956.

[4] C. Sgorlon, l’armata, cit., p. 14.

[5] C. Sgorlon, La penna d’oro, cit., p. 107.

[6] A. Ivanov, Cosacchi perduti, dal Friuli all’URSS, 1944-1945, Udine 1992, p. 21.

[7] P.A. Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano 1993, p. 13.

[8] Cfr. P. Stefanutti, https://www.carnialibera1944.it/documenti/occupazionecosacca.htm

[9] P. Stefanutti, cit., p.  2 e G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, vol. II, Milano 1979, p. 132.

[10] G. Venir, I Cosacchi in Carnia.1944-1945, Pasian di Prato 1999, p. 24.

[11] C. Magris, Illazioni su una sciabola, Milano 1985, p. 51.

[12] R. Rossa, Venti cammelli sul Tagliamento, Pasian di Prato 2007, pp. 55-56.

[13] P. Stefanutti, cit., p. 5.

[14] C. Sgorlon, L’armata, cit., p.49.

[15] R. Rossa, op. cit., p. 95.

[16] C. Sgorlon, L’armata, cit., pp. 85-86.

[17] A. Ivanov, op. cit., p. 66.

[18] C. Sgorlon, ibidem, pp. 190-191.

[19] Cfr. Paolo Diacono, Historia Romana, lib. XV, cap. 27.

[20] G. Venir, op. cit., p. 64.

[21] C. Sgorlon, L’armata, cit., p. 212.

[22] P.A. Carnier, Quando il sangue cosacco arrossò la Drava, “Il Gazzettino”, 28 maggio 1998.

[23]C. Sgorlon, L’armata, cit.,  p. 293.

[24] A. Ivanov, op. cit., p. 107.

[25] Bruna Sibille Sizia scrisse un articolo apparso il 13 agosto 1957 sul “Corriere di Trieste”, in cui riferiva della riesumazione della salma di Pëtr Krasnov nel camposanto di Villa Santina alla presenza di tre ufficiali tedeschi, che presero in consegna il corpo e lo trasportarono in un cimitero nei pressi del lago di Garda, dov’erano sepolti soldati tedeschi e i loro alleati caduti in Italia.

[26] A. Marjamov, Preghiera - La lunga strada del Friuli, 1991.

A cura di Lara Scifoni



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