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Jack London (1876-1916), ovvero il mare sfidato
di Teodoro Lorenzo
Pubblicato su SITO


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Jack London (1876-1916), ovvero il mare sfidato

La sera del 21 novembre 1916 Jack London dopo la cena e dopo le solite quattro chiacchiere con la moglie sale le scale per ritirarsi in camera sua.

A Chairman si rivolge così , zoppicando sui primi gradini: “Grazie a Dio, non abbiamo paura di niente”

E’ il suo modo di dirle addio; lei non lo sa ma quelle furono le ultime parole di Jack London,

“ Sono malato, molto malato. Solo adesso comincio a capire quanto sia malato. C’è qualcosa di morto in me. Non ho mai avuto paura della vita; ma non avrei mai immaginato che un giorno avrei potuto esserne sazio. La vita mi ha saziato a tal punto che non so più desiderare nulla”

E’ Martin Eden che parla, il libro più noto dei 49 che ha scritto in 16 anni di attività. Ma è come sentir parlare lo stesso Jack London.

Nel suo universo letterario non esisteva la fantasia e l’immaginazione fini a se stesse benché il suo ingegno vivace ne possedesse a volontà. Ogni episodio raccontato nei libri trovava corrispondenza nella sua vita. Perché così aveva deciso, per non tradire se stesso e i suoi lettori. Voleva rimanere realistico, tenere i piedi ben piantati per terra “ affinchè per quanto alti possano essere i nostri sogni restino sempre basati sulla realtà”.

Martin Eden è la sua biografia, straordinaria perché oltre a raccontare la sua vita, Jack London in quel libro anticipa la sua morte.

Il libro esce nel 1907; Jack London muore sette anni dopo, nel 1916.

Dopo anni di nottate trascorse sui libri per dotarsi di una cultura e di una educazione letteraria, dopo anni di racconti rifiutati e restituiti al mittente senza nemmeno una riga di finto ringraziamento o finta motivazione ecco che all’improvviso, come raggi di sole che si fanno strada nella bruma più fitta, la sua vita si illumina e cambia colore; i suoi racconti vengono accettati, pubblicati e alla fine pagati a peso d’oro, diventa uno scrittore, per giunta ricco e famoso. Era quello che aveva sempre desiderato, diventare uno scrittore, ma raggiunto l’obiettivo adesso si ritrovava improvvisamente vuoto e inutile. La vita stessa era diventata inutile.

Dice Martin/Jack:

“Una volta odiava il sonno, perché lo derubava di preziosi momenti, in cui avrebbe potuto vivere. Dormire quattro ore su ventiquattro voleva dire essere derubato di quattro ore di vita. Come s’era rammaricato per quel sonno! Adesso invece era la vita che non gli andava più. La vita non era più buona, e gli lasciava in bocca un gusto amaro. Ecco il suo pericolo. La vita che non tendeva verso la vita era sul punto di estinguersi”

Del resto aveva sempre affermato di volere una vita breve e felice. Non si sarebbe mai accontentato di sopravvivere, e basta. Lui voleva vivere. Non si sarebbe mai intrattenuto con il cadavere di se stesso. In una sua poesia lui stesso scrisse: “ La funzione propria dell’uomo è vivere, non esistere, io voglio bruciare tutto il mio tempo” Finita l’opera, giunto il momento, se ne sarebbe andato.

Quella sera Jack London decise che il momento era arrivato.

Così, all’improvviso, come era successo a Martin Eden: “Dopo cena rimaneva sul ponte fino a tardi, ma ciò non lo aiutava perché, quando scendeva in cabina, non riusciva a dormire. Gli era venuta meno anche la risorsa dell’estraniazione dalla vita. Accese la luce elettrica e tentò di leggere. Uno dei libri era di Swinburne. Sdraiato sul letto sfogliò le pagine distrattamente finchè improvvisamente si accorse di leggere con interesse. Finita la strofa, cercò di continuare, ma sentì l’impulso di rileggere. Si appoggiò quindi il libro sul petto con le pagine aperte verso il basso e cominciò a riflettere. Si era imbattuto proprio in quello che cercava. Strano che non l’avesse visto prima. Era la soluzione a tutti i problemi. Dopo essere andato alla deriva per tanto tempo, Swinburne gli aveva indicato la via, il riposo che bramava era lì, a portata di mano. Guardò l’oblò. Sì, rea abbastanza grande. Per la prima volta dopo settimane e settimane si sentì felice. Aveva finalmente scoperto il rimedio al suo male. Sollevò il libro e lesse la strofa ad alta voce:

“Liberati dal soverchio amor della vita
Dalla speranza e dalla paura
Inchiniamoci brevemente
Agli dei, quali che siano,
Grati di questo almeno:
Che ogni vita un giorno si spenga,
I morti levarsi non possano
E persino i fiumi più stanchi
Sfocino alfine nel mare”

Guardò di nuovo il finestrino spalancato. Swinburne gli aveva aperto gli occhi. La vita era, o meglio, era diventata, una cosa orribile, insopportabile. ”I morti levarsi non possano!” Quel verso suscitava in lui un profondo sentimento di gratitudine. Era la sola prova di carità che esistesse nell’universo. Quando il vivere era un tormento impalcabile, la morte era la via che permetteva di rifugiarsi dolcemente nel sonno eterno. Ma cosa stava aspettando? Era il momento di andare”

A quarant’anni Jack London era fisicamente a pezzi, le malattie (scorbuto, malaria) lo avevano segnato. Cuore e polmoni non funzionavano più (aveva cominciato a fumare a 14 anni e non aveva più smesso); i reni non funzionavano. Le gengive si infiammavano e sanguinavano; portava la dentiera e zoppicava vistosamente per via dei reumatismi.

Si sentiva vecchio; le sue avventure, le sue sfide erano finite da un pezzo. Si era trasferito con Chiarman nella campagna vicino ad Oakland, a Glen Hellen, un posto chiamato dagli indiani del luogo la “ Valle della Luna” e si occupava di conigli, porci e pollame.

Era tetro, depresso e sofferente. Era ingrassato, beveva e fumava di continuo.

La scrittura, che pure era stata la molla della sua vita, adesso non gli dava più alcuna soddisfazione anzi gli dava il disgusto. Continuava a farlo ma lo faceva perché aveva bisogno di soldi.

Un violento incendio , alimentato da un forte vento, aveva devastato la sua fattoria. Per guadagnare i soldi necessari a salvare la fattoria aveva ripreso a macinare le sue mille parole al giorno. Lo scrivere, che era stato il sangue che gli scorreva nelle vene, l’aria che gli allargava i polmoni, ora si era trasformato in veleno.

“L’unica ragione che mi fa continuare a scrivere è che devo farlo. Se non dovessi, non scriverei più una riga. Stai sicuro”

Eppure in 16 anni London aveva guadagnato più di un milione di dollari , un milione di dollari di più di un secolo fa. Ma era sempre al verde, aveva un continuo bisogno di soldi; in parte li aveva sperperati, in parte li aveva regalati per la sua grande generosità

Aveva combattuto le sue battaglie: aveva fatto la sua parte, si era guadagnato il suo riposo. Era ora di far posto ai giovani che lottavano per trovare la loro strada. Per lui la vita si concentrava nella gioventù, lì stava la forza e la linfa vitale. Oltre quella linea c’era solo sopravvivenza.

Come i vecchi campioni di boxe non aveva più fiato, doveva cedere il passo a quella che così spesso aveva chiamato “l’inestinguibile, l’irresistibile gioventù, la gioventù che deve avere il suo entusiasmo e che non morirà mai”.

In “ Bistecca”, malinconico racconto sul mondo della boxe, il vecchio campione King ormai povero, affamato, e che compete solo per sopravvivere, incontra il giovane Sandel e fin dall’inizio del match deve cercare di tenere a bada la naturale esuberanza del rivale.

“Naturalmente Sandel voleva forzare i tempi fin dall’inizio. C’era da aspettarselo. E’ lo stile della Gioventù, che dispiega il suo splendore e la sua superiorità nella lotta selvaggia e nell’assalto furioso, travolgendo gli ostacoli con il suo sfrenato desiderio di gloria”

Se il giovane pugile “sperperava le sue forze con la prodiga indifferenza della Gioventù”, il vecchio King sapeva che “la giovinezza era la nemesi. Distruggeva i vecchi senza preoccuparsi che così facendo distruggeva se stessa... Perché la giovinezza è sempre giovane. E’ soltanto l’età adulta che invecchia”.

E i vecchi devono morire.

Martin si lascia scivolare nel mare attraverso l’oblò della sua cabina e nuota sott’acqua fino a che spariscono le forze e l’aria nei polmoni; la vita se ne va in mille mortali bollicine.

Quando il dottore il giorno dopo arrivò nella stanza di Jack trovò sul pavimento due flaconi vuoti di solfato di morfina e di solfato di atropina. Sul comodino c’era un blocco con delle cifre che indicavano il calcolo della dose letale di droga.

Finiva così la vita di Jack London, esattamente nello stesso modo in cui l’aveva sempre vissuta: senza paura.

Lui non aveva mai avuto paura di nulla, e non ha avuto paura nemmeno della morte.

Anche la morte l’aveva sfidata a viso aperto. Non si è nascosto nemmeno l’ultimo giorno, l’ha affrontata , l’ha sfidata.

La sua vita è stata una sfida continua: ai mari in tempesta nella caccia alle foche, ai ghiacciai perenni alla ricerca dell’oro nel Klondike, nella guerra anglo-boera, in quella russo-giapponese vissute in prima linea come corrispondente.

Le sfide erano il sangue del suo corpo. E tutte le affrontava allo stesso modo : con indomito coraggio e fiducia nelle proprie forze.

Jack London è stato un gigante.

Non c’è stata sfida a cui si è sottratto, non c’è stato nulla che lo abbia indotto a non intraprendere un viaggio o un’avventura: E ritornare indietro non era una ipotesi che potesse contemplare. Se ce l’aveva fatta un uomo avrebbe potuto farcela anche lui. Lui la pensava così. Presa una strada andava fino in fondo perché a quelle doti di coraggio spinto ai confini della temerarietà e di fiducia nelle proprie possibilità univa una tenacia inflessibile e una volontà indomita. Costasse quello che costasse doveva arrivare, doveva raggiungere la meta.

La vita per lui è stata un combattimento corpo a corpo, ogni sfida affrontata a testa alta senza mai cedere o arretrare.

Per questo gli piaceva così tanto la boxe, un combattimento a viso aperto, uno contro l’altro e il migliore vinceva.

Lui era salito sul ring della vita praticamente appena nato, subito è iniziato il suo combattimento. Doveva cominciare a vincere la sfida contro il suo stesso destino, quello che lo aveva messo fin dall’inizio su un binario di miseria e disamore.

Jack London non ha mai conosciuto suo padre. Il Professor Chaney, suo padre, astrologo, chimico, occultista, astronomo, forse ciarlatano, abbandona la famiglia prima della sua nascita cominciando un vagabondaggio che terminò a Chicago dove finì i suoi giorni facendo oroscopi a un dollaro l’uno.

Ed anche la madre si interessò poco di lui. Flora Wellman era una donna dura, con occhiali e parrucca neri a coprire occhi e testa perché un attacco di tifo l’aveva privata in parte di capelli e sopracciglia. Era una spiritista, lei sì senza dubbio ciarlatana, dal momento che per sbarcare il lunario organizzava sedute spiritiche durante le quali il pubblico era invitato a comunicare con i morti, a mandare messaggi alle persone care scomparse e a ricevere consigli da questi su come comportarsi in faccende di interesse o di cuore, su come controllare i mariti e le mogli. Flora Wellman era troppo impegnata con il paranormale per rientrare nel normale ed occuparsi del figlio.

Jack dovette affrontare la prima sfida: addirittura cambiare vita e nome, diventare un altro, trovare una nuova madre ed un nuovo padre.

John Griffith Chaney diventò così Jack London, per tutti e per sempre.

Jack perché così veniva chiamato a casa e per strada, London perché così si chiamava il nuovo padre, portato a casa da Flora che lo aveva conosciuto durante una delle sue sedute spiritiche. John London cerca la vecchia moglie defunta , ne trovò invece una nuova di zecca.

Quanto alla madre, Jack ne trovò addirittura due: Eliza, una delle figlie di John London, e la balia, Jenny Prentiss, un donnone nero, alta, massiccia e pettoruta, religiosa e gran lavoratrice.

Eliza ebbe cura di lui fino all’ultimo giorno; fu lei ad accompagnare il dottore quella mattina del 22 novembre 1916 nella stanza di Jack; mamma Jenny poi avrebbe fatto qualunque cosa per Jack; fu lei a prestargli i trecento dollari necessari per comprare la sua prima barca, la “ Razzle Dazzle” con la quale a tredici anni diventò ladro di ostriche nella baia di San Francisco.

Trovato un nuovo nome, un nuovo padre e una nuova madre (anzi , due) la sfida al suo destino poteva cominciare. La sfida successiva era quella contro la sua stessa ignoranza, che Jack affrontò con la solita indomita tenacia e la ferrea forza di volontà. Fu sempre preso da una inestinguibile sete di sapere. A scuola si fermo alla nostra licenza media ma fu sempre un appassionato autodidatta. Quando si presentò per la prima volta alla biblioteca di Oakland non immaginava quanti libri potesse contenere. Ne rimase strabiliato ; avrebbe voluto leggerli tutti. Preso da una divorante voglia di conoscenza ne prendeva a pacchi in lettura gratuita e poi li divorava di notte, dormendo poche ore ( ricordate Martin Eden ?) , in barca, ovunque avesse il tempo di farlo. Le sue tasche erano sempre gonfie di libri. Melville, Kipling e poi storia , avventura e libri di viaggio.

Dice Martin/Jack : ”Avrò così tempo a disposizione per lo studio e per gli scritti a cui tengo. Nei ritagli di questa attività di routine cercherò di mettere mano a opere più valide, per le quali occorre una adeguata preparazione. Sono sbalordito dai progressi che ho fatto. La prima volta in cui ci ho provato non ho trovato altro su cui scrivere se non alcune banali esperienze che non avevo neppure ben capito e che non ero in grado di apprezzare. Nella mente non avevo nulla, proprio nulla. Non possedevo neppure le parole con cui esprimere i pensieri. Le mie esperienze erano tanti quadri privi di senso. Ma cominciando ad allargare le conoscenze e il vocabolario, vidi in quegli episodi qualcosa di più che non semplici quadri. Li richiamai alla mente, e ne trovai l’interpretazione. Fu così che cominciai a scrivere opere valide”

Poi affrontò la sfida contro la miseria . Per vincerla fece molti lavori, cominciando fin da bambino. Strillone di giornali, segnapunti in una sala di bowiling, operaio in una fabbrica di iuta e poi di conserve, ladro di ostriche e poi agente della polizia marittima, cacciatore di foche nel mar del Giappone, operaio in una lavanderia, cercatore d’oro nel Klondike. Le provava tutte ma la miseria non gli si staccava di dosso.

Nel 1898 è ancora a casa, a Oakland, più povero che mai e ammalato di scorbuto.

I suoi racconti, scritti di notte, nei quali riversava tutte le avventure nelle quali incappava di giorno, le risse con i pescatori di frodo nelle acque della baia di San Francisco, le scazzottate con i contrabbandieri, il tifone al largo del mar del Giappone, le nevi del Klondike, la corsa all’oro, le montagne scalate, i fiumi attraversati con una zattera di legno , non venivano letti da nessuno.

Ma lui insiste, insiste, insiste.

Non sa cosa vuol dire perdersi d’animo, conosce il suo valore, sa che prima o poi ce la farà. Lui non ha paura di niente e di nessuno; nemmeno della miseria, della vita, e della morte.

Alla fine, come sempre, vince lui.

Una rivista, l’Overland Monthly Magazine, gli pubblica finalmente il primo racconto ; si intitola “ Un uomo sulla pista”

Qui comincia la sua carriera letteraria. Comincia ad essere conosciuto in tutto il paese. Finirà per essere il più pagato scrittore americano e la sua notorietà arriverà ben presto all’estero.

Ce l’aveva fatta, aveva vinto anche questa sfida. Come Martin Eden aveva vinto contro la sua famiglia, contro lì ignoranza, contro la miseria, perfino contro se stesso.

Era diventato uno scrittore ricco e famoso. Ma quello che in fondo voleva era solo la sua realizzazione. Dei soldi non gli interessava nulla. Quando si separa dalla prima moglie, Betzie Madern, le lascia la proprietà della casa e gran parte dei suoi beni. Si sposerà poi con Chairman, una dona colta, avida lettrice anche lei, eccellente stenografa e dattilografa ma in verità poco amata.

Fu generoso anche con lei come lo fu con gli operai della sua fattoria. Alla Valle della Luna fu il primo a concedere ai suoi operai la giornata lavorativa di otto ore. Voleva impiantare una comunità di uomini liberi e felici. Per ciascuno di loro voleva costruire una baracca, ci sarebbe stato un emporio in cui la merce si sarebbe venduta a prezzo di costo e una scuola per i loro figli. Poi venne il fuoco che distrusse tutto.

Del resto Jack London era un socialista; una natura così generosa non poteva non abbracciare questa ideologia. Era dell’idea che la ricchezza dovesse essere condivisa, non controllata da pochi ricchissimi individui.

Jack London si dimise dal partito socialista americano il 7 marzo 1916, otto mesi prima del suo suicidio, e non perché avesse abiurato alla sua idea, ma perché il partito socialista americano secondo lui non combatteva abbastanza duramente.

Leggiamo la lettera:

“Miei cari compagni

Ho appena terminato la lettura della lettera di dimissioni dalla sezione, recente ma non datata, del compagno Edward B. Payne.

Con la presente, rassegno da parte mia le dimissioni dalla sezione di Glen Ellen e per una ragione diametralmente opposta a quella che adduce il compagno Payne. Io mi dimetto dal partito socialista a causa della sua mancanza di ardore e combattività,perché non insiste abbastanza sulla lotta di classe.

Ero, all’inizio, membro del rivoluzionario Socialist Labor Party, pronto a superare le sue manchevolezze pur di combattere. Da quel momento, e fino ad oggi, sono stato un membro attivo del Socialist Party of America. Malgrado il tempo trascorso, il mio stato di servizio di combattente per la causa non è ancora del tutto dimenticato. Sono stato trascinato alla lotta di classe , quale era insegnata e praticata dal Socialist Labor Party, con tutto ciò che vi è di più elevato nelle mie facoltà di giudizio. Ero convinto che la classe operaia, combattendo, non cedendo mai, rifiutando ogni compromesso col nemico, potesse emanciparsi. Dal fatto che, nel corso di questi ultimi anni, la tendenza del socialismo negli Stati Uniti sia stata tutta orientata alla pacificazione e al compromesso, mi accorgo che il mio spirito si ribella a vedermi rimanere membro del partito. Da qui le mie dimissioni.

Aggiungete, per favore, alle mie dimissioni quelle della compagna Charmian K. London, mia moglie.

Non aggiungerò che poche parole conclusive. La libertà, l’indipendenza sono beni supremi che non possono essere accordati o imposti a razze e classi. Se le razze e le classi non sono capaci di sollevarsi, di lottare con la forza del loro spirito e dei loro muscoli per la libertà e l’indipendenza del mondo, non riusciranno mai, quando verrà il momento, ad accedere a quei beni supremi- e se quei beni supremi saranno loro offerti con condiscendenza, su un piatto d’argento, da individui superiori, non sapranno che farsene, non se ne serviranno e resteranno ciò che sono sempre state in passato: razze inferiori, classi inferiori

Vostro per la rivoluzione
Jack London”

Combattere, non cedere mai, conquistarsi tutto con la forza, non scendere mai a compromessi, affrontare la sfida a testa alta, non accettare regali umilianti, afferrare il destino nelle proprie mani, senza paura.

Era questo Jack London, quegli altri erano troppo molli per i suoi gusti.

Il socialismo mai attuato fu la sua unica sconfitta, la sua unica sfida perduta.

Del resto cambiare il mondo era troppo. Anche per un gigante come lui.

A cura di Teodoro Lorenzo



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