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I principali elementi del pensiero di Vittorio Alfieri
di Giovanni Pellegrino
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I principali elementi del pensiero di Vittorio Alfieri

In questo articolo prenderemo in considerazione i principali elementi del pensiero di Vittorio Alfieri. Alfieri è un preromantico, in quanto nella sua concezione del mondo sono già presenti molti elementi tipici del Romanticismo. D’altronde i romantici ebbero una grandissima ammirazione per Alfieri, che in alcuni casi sconfinò in vera e propria venerazione. Tale ammirazione, a nostro avviso, è ben motivata, non solo perché egli deve essere considerato il più grande autore di tragedie della nostra letteratura, ma anche perché ebbe una personalità di eccezionale rilievo.

Alfieri fu ammirato anche dagli uomini del Risorgimento, che lo consideravano assertore dell’indipendenza della patria dallo straniero. La personalità di Alfieri è tuttavia molto complessa, in quanto i suoi principi morali e politici andavano al di là delle stesse finalità patriottiche risorgimentali; per questo non può essere considerato soltanto un sostenitore della libertà politica dell’Italia. La personalità Alfieri testimonia con notevole drammaticità la svolta fondamentale nella cultura e nella civiltà europea che si verificò nel passaggio dall’Illuminismo al Romanticismo. La condizione di conflitto interiore che è una delle caratteristiche principali della sua personalità, l’avversione per ogni tipo di dispotismo, la tendenza ad indagare negli abissi della coscienza e della mente, l’individualismo spinto all’ennesima potenza, il culto per l’eroismo come cifra e punto di riferimento di vita e, infine, il continuo alternarsi di vittimismo e titanismo, di malinconia ed esaltazione, devono essere considerate caratteristiche mentali e spirituali tipicamente romantiche, o quantomeno preromantiche.

La Vita

Per individuare i principali elementi del pensiero di Alfieri prenderemo in considerazione le più importanti opere dello scrittore piemontese, ovvero la Vita, le tragedie ed i trattati politici. Nella Vita Alfieri ripercorre la propria biografia; per questo l’opera è una fonte di primaria importanza, non solo per la comprensione della personalità dell’autore, ma anche dei principali elementi del suo pensiero. Volendo fare un parallelismo con i Mèmoires di Goldoni, potremmo dire che sia quelli, sia la Vita, riflettono in maniera spiccata la personalità dei loro autori. Ma mentre i Mèmoires testimoniano la capacità di Goldoni di effettuare un’attenta indagine degli ambienti nei quali visse, la Vita di Alfieri rivela la tendenza dello scrittore piemontese a tuffarsi nel passato e ripiegarsi sui ricordi; e, soprattutto, testimonia la sua tendenza a isolare, nel contesto delle relazioni interpersonali, tutto ciò che riguarda sé stesso e il proprio itinerario spirituale, morale, politico ed artistico. Quasi da ogni pagina della Vita trapela lo spiccato individualismo dello scrittore piemontese. Tuttavia Alfieri dà sempre un’interpretazione idealizzata ed eroica di sé stesso, non perché menta, ma semplicemente perché omette tutti quei particolari che non sono compatibili con l’immagine idealizzata ed eroica che vuol dare di sé stesso ai lettori; omette, inoltre, i particolari che considera troppo intimi.

Il personaggio Alfieri quale è descritto nella Vita presenta quindi caratteri di orgogliosa grandezza e assoluta coerenza, nonché di esemplare eroismo e costante impegno nei confronti di una realtà avversa, frustrante e deludente, tutte caratteristiche che si riscontrano anche nei personaggi delle sue tragedie. Alfieri si presenta come un uomo che ha sempre seguito con coerenza, e a qualsiasi costo, il suo ideale di una vita eroica. In effetti, Alfieri non mente quando parla di sé stesso, e neppure quando mette in evidenza di essere stato capace di azioni certamente non alla portata degli uomini comuni. Tuttavia, alcune di quelle azioni non sarebbero state considerate eroiche da un osservatore neutrale. A tale riguardo vogliamo fare un esempio significativo.

In un passo molto famoso della Vita Alfieri racconta che si era innamorato di una donna considerata non degna di lui, e per tale ragione si allontanò da Torino, onde sfuggire a questo amore considerato pericoloso. In un secondo momento, Alfieri decise che doveva affrontare il problema restando a casa. Una volta tornato a Torino si chiuse in casa, si tagliò completamente i capelli – così costringendosi a non poter più uscire di casa per un certo periodo di tempo – e infine si dedicò giorno e notte allo studio. In questo modo riuscì a dimenticarsi completamente della donna, compiendo, a suo dire, un’azione che denotava eccezionale eroismo.

Nella Vita Alfieri evidenzia che la caratteristica che, insieme all’eroismo, dominava la sua personalità era la continua malinconia, derivante dalla costrizione di vivere in un mondo non adatto a lui, che lo frustrava e deludeva continuamente. Già a diciotto anni era preda di questa malinconia continua, non riuscendo a trovare pace in alcun modo: sosteneva che la malinconia fosse principalmente dovuta al fatto di non aver ancora trovato un “degno amore” ed un “nobile lavoro”. Ma quando infine riuscì a trovare il “nobile lavoro” (ovvero l’attività di intellettuale e poeta) e il “degno amore” per la contessa d’Albany, non trovò la pace, tanto che egli stesso scrisse nella Vita che continuava ad essere preda di furore e malinconia, cosicché decise di trascorrere i suoi ultimi anni in assoluta solitudine, con la sola compagnia della contessa d’Albany.

Una delle tematiche che compaiono con maggiore frequenza nella Vita è la consapevolezza dell’autore di aver trascorso gran parte della propria vita in una solitudine tragica. Pur appartenendo alla nobiltà piemontese, Alfieri si mostrò sempre sprezzante nei confronti dei nobili della sua Nazione, tanto che nelle Satire non perde occasione per attaccare i costumi e i comportamenti dell’aristocrazia piemontese. Ma sebbene disprezzasse i nobili, Alfieri non era meno duro nei confronti della borghesia, che considerava una classe corrotta e materialista, priva di qualsiasi ideale. Infine egli disprezzava nella maniera più assoluta il popolo, giudicato sdegnosamente una “plebe informe”. Appare evidente che partendo da questa sua concezione del mondo non gli restava alternativa al rinchiudersi in una solitudine tragica, orgogliosa e dolorosa, idoleggiando al massimo grado sé stesso e disprezzando il mondo nel quale viveva. Infatti Alfieri afferma più volte che avrebbe voluto vivere al tempo degli antichi greci e romani, perché era convinto che sarebbe stato in grado di compiere azioni molto più eroiche e sarebbe stato oggetto di grande ammirazione da parte degli uomini di quei periodi storici.

Dobbiamo tenere presente che l’opera del mondo classico che Alfieri maggiormente ammirava era Le vite parallele di Plutarco: Alfieri racconta che quando leggeva quell’opera spesso urlava e piangeva, in maniera tale che chi lo ascoltava pensava fosse impazzito: lo scrittore piemontese spiega che si comportava così perché non accettava di non essere vissuto al tempo degli eroi di Plutarco.

In sintesi, nell’autobiografia di Alfieri troviamo vittimismo e titanismo, conflitto tra ideale e reale, ricerca della solitudine, ideali patriottici, amore per l’eroismo, ricerca della donna ideale, individualismo, idealizzazione di sé stesso, amore per il mondo classico ed infine convinzione che poeti ed intellettuali avevano un’importante missione da compiere: tutte tematiche che ritroviamo nel preromanticismo e nel romanticismo.

Le tragedie

Prenderemo ora in considerazione le tragedie di Vittorio Alfieri. Nella Vita l’autore racconta l’occasione che gli fece comprendere che queste costituivano il genere letterario a lui più confacente. Dobbiamo tenere presente che spesso Alfieri riferisce di aver avuto diverse esperienze amorose movimentate, che non fecero altro che aumentare la sua insofferenza e la sua irrequietezza. Alfieri scrive nella sua autobiografia che si sentiva schiavo della passione amorosa e che la considerava un grave pericolo per la propria libertà morale.

L’episodio al quale fa riferimento Alfieri avvenne nel 1774: in quell’anno egli aveva iniziato una relazione sentimentale con la marchesa Gabriella Faletti, nei confronti della quale lo scrittore piemontese ammette di provare una forte passione. Nel 1774 la marchesa era ammalata e chiese ad Alfieri di tenerle compagnia; questi, pur provando un sentimento di amore per la donna, non solo non aveva alcuna voglia di farle compagnia, ma provava anzi una forte noia. Tuttavia, temendo di essere lasciato dalla donna, lo scrittore piemontese non ebbe il coraggio di rifiutarle la compagnia: in quel giorno Alfieri si sentì quindi schiavo della passione amorosa. Dopo qualche mese, riflettendo su tale episodio, Alfieri giunse al punto di paragonare il dominio esercitato su di lui da Gabriella a quello esercitato da Cleopatra su Antonio, e da tale riflessione gli venne l’idea di scrivere la scena di una tragedia. Passato un anno dalla scrittura della scena, Alfieri, pur avendo già lasciato la marchesa, si sentiva ancora oppresso dalla passione amorosa che aveva provato per lei; partendo da questa prima scena che aveva scritto un anno prima Alfieri scrisse la sua prima tragedia, ovvero Cleopatra. Come si vede, Alfieri era portato ad estremizzare le situazioni che si trovava a gestire. Anche se ebbe l’idea di scrivere la sua prima tragedia perché si sentiva oppresso dalla passione amorosa, questa occasione esterna non fece che facilitargli la comprensione che il genere letterario in cui desiderava in modo particolare conquistare la gloria era appunto quello della tragedia: e ciò viene ribadito più di una volta nella sua autobiografia.

Questo desiderio di Alfieri non deve sorprendere più di tanto, per almeno tre ragioni. In primo luogo, il genere tragico occupava un posto di privilegio nella letteratura italiana del Settecento, e Alfieri era certamente condizionato dalla grande importanza che veniva attribuita a questo genere letterario. In secondo luogo, poiché Alfieri tendeva a idealizzare e idoleggiare sé stesso, non si accontentava di conquistare la gloria intellettuale in generi letterari che in quel periodo storico erano considerati inferiori. In terzo luogo, la scelta di dedicarsi alla tragedia aveva anche, e soprattutto, le sue radici nel temperamento dello scrittore piemontese, nella sua congeniale tendenza ad una concezione eroica della vita. Alfieri era infatti convinto che gli uomini che aspiravano alla libertà morale fossero impegnati in una continua lotta eroica contro le passioni, e soprattutto contro una realtà avversa caratterizzata dall’egoismo, dall’ipocrisia, dalla cupidigia e dalla slealtà, che a dire di Alfieri dominavano incontrastate nel suo tempo, definito dallo scrittore piemontese “il vi secolo”.

Come abbiamo detto in precedenza, una delle cause principali della solitudine tragica di Alfieri era il fatto che  avrebbe desiderato vivere nel mondo classico e che aveva come modelli i personaggi delle Vite parallele di Plutarco. Di conseguenza si sentiva in continuo contrasto con i suoi contemporanei, mentre si sentiva simile a molti personaggi delle tragedie greche. In effetti la stessa esistenza di Vittorio Alfieri fu simile alle vicende di alcuni personaggi delle tragedie classiche, che spesso erano vittime di un destino avverso e crudele e della cattiveria degli esseri umani: gran parte della sua vita fu caratterizzata da conflitti, frustrazioni, incapacità di adattarsi ad un secolo che egli giudicava meschino in quanto gli impediva di esprimere e di realizzare il suo ideale eroico della vita. Il tema principale che troviamo nelle tragedie alfieriane non è (come molti credono) la libertà politica, ma la libertà morale. Per Alfieri la libertà politica era solo un aspetto – anche se essenziale – della libertà morale, che per lo scrittore era l’unico fondamento della dignità degli uomini. Perciò non si può ridurre il teatro di Alfieri ad un celebrazione pura e semplice della libertà politica, poiché Alfieri tendeva a privilegiare la necessità dei suoi eroi di difendere la libertà morale in primo luogo dalle loro stesse passioni: la forma più sublime di eroismo alla quale può aspirare l’essere umano è l’intransigente difesa della libertà morale, non solo dai pericoli che provengono dalla realtà avversa e dalla malvagità degli esseri umani, ma anche dalle passioni presenti nell’animo dell’eroe tragico, passioni che tendono a renderlo uno schiavo senza catene. Quindi nelle tragedie alfieriane i protagonisti devono in primo luogo fare i conti con giganteschi conflitti interiori, quasi sempre senza via di uscita; e ciò, anche se la libertà politica rivestiva grandissima importanza – in alcune tragedie occupa un posto di assoluta preminenza, in quanto si basano quasi interamente sul conflitto tra tirannide e libertà.

La maggior parte delle tragedie sono ambientate nell’antica Grecia, altre sono ambientate nel mondo romano, sebbene la più grande tragedia di Alfieri, ovvero il Saul, è tratta dalla Bibbia.

Concludiamo il nostro discorso sulle tragedie di Vittorio Alfieri mettendo in evidenza che lo scrittore e poeta piemontese si inserì deliberatamente nel solco della tradizione classica, facendo suoi – e sviluppandoli nelle direzioni a lui più congeniali – i fondamentali principi stabiliti dalla poetica classicista. Adottò infatti nelle sue tragedie le unità aristoteliche, accentuando però in maniera particolare l’unità di azione: i cinque atti delle tragedie alfieriane dovevano essere caratterizzati dal fatto di essere “pieni del solo soggetto”, come scrive lo stesso Alfieri. In parole più semplici, Alfieri escludeva dall’azione tutti i personaggi secondari, tutte le divagazioni e tutti i motivi episodici e marginali, concentrando la sua attenzione sulle vicende dei personaggi principali.

I trattati politici

Prenderemo ora in considerazione i trattati politici di Vittorio Alfieri, nei quali sono presenti alcuni elementi di fondamentale importanza del pensiero dello scrittore piemontese. Per quanto riguarda i trattati politici concentreremo la nostra attenzione sui tre che vengono generalmente considerati i trattati politici più importanti e significativi, ovvero Della tirannide, Del principe e delle lettere e il Panegirico a Traiano di Plinio il Giovane.

Nel primo, Della tirannide, Alfieri definisce in maniera brillante il concetto di tirannide e descrive efficacemente la figura del tiranno, per poi passare a indicare le condizioni e i modi in cui un uomo che voglia difendere la propria libertà morale possa vivere sotto un tale regime politico. Alfieri definisce tirannide il governo di un monarca che non sia sottoposto e limitato da nessuna legge indipendente dalla sua volontà, poiché in tutti i regimi tirannici il principe identifica la legge con il suo arbitrio e con la sua volontà fine a sé stessa. Alfieri descrive in maniera estremizzata, ma senza dubbio molto efficace, la figura del tiranno: egli è sospettoso e crudele, vile e violento, corrotto e corruttore. Per tali ragioni chi non voglia diventare complice del tiranno, partecipando alla vita servile e corrotta della sua corte, per salvaguardare e difendere la propria libertà morale può adottare solo due soluzioni estreme: il tirannicidio o il suicidio. Dal momento che secondo Alfieri il tirannicidio può essere realizzato solo in poche e particolari condizioni, l’uomo che vuole salvare la propria libertà morale sotto i regimi tirannici molto spesso deve ricorrere esclusivamente al suicidio, che rappresenta l’unico modo per sconfiggere il tiranno e sfuggire al suo spregevole dominio. Questo trattato politico di Alfieri è dominato quindi dalla descrizione delle due figure del tiranno e del tirannicida, figure che rivestono una grandissima importanza nel suo pensiero politico. Grandissima importanza assume anche in questo trattato politico la definizione del concetto di suicidio, inteso dall’Alfieri non come una sconfitta o una forma di debolezza, ma come un atto di ribellione estrema contro il tiranno e contro la società corrotta, nonché come l’unico modo per salvare la propria libertà morale dalla prepotenza del tiranno.

Vogliamo mettere in evidenza che questa concezione eroica del suicidio presente in Alfieri deve essere considerata un’altra caratteristica tipicamente preromantica e romantica. Infatti anche in molti scrittori romantici il suicidio è considerato non quale sconfitta ma come l’ultima e più grande vittoria che un uomo che non si voglia piegare alla realtà avversa e corrotta possa ottenere evitando di scendere a compromessi umilianti. Per fare due esempi significativi di scrittori romantici che esaltano il carattere vincente del suicidio è sufficiente nominare Ugo Foscolo, autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e Goethe autore del romanzo I dolori del giovane Werther. Per far comprendere fino a che punto l’idea del suicidio attirava gli uomini che vissero nell’età del Romanticismo è sufficiente mettere in evidenza un fatto clamoroso: il governo austriaco dovette vietare la vendita del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther in tutto il territorio dell’impero austro-ungarico, poiché dopo la pubblicazione di tale opera si verificarono moltissimi suicidi di giovani che avevano gli stessi problemi di Werther. Tale epidemia di suicidi finì solamente quando venne proibita la vendita del libro (ancora oggi, quando in una nazione si verificano molti suicidi in poco tempo, si parla di “wertherismo” facendo riferimento all’opera di Goethe).

Nel trattato politico Del principe e delle lettere il poeta affronta il problema del rapporto tra principe e letterato. Secondo Alfieri il monarca e l’intellettuale non possono essere altro che nemici sempre e comunque, perché il monarca si propone sempre di condizionare la libertà morale di tutti i sudditi, ivi compresi gli intellettuali e i poeti. Naturalmente tale concetto di Alfieri non può essere considerato valido sempre e comunque in tutti i rapporti interpersonali tra monarchi e intellettuali: la storia ci insegna che molti monarchi di tutte le epoche hanno rispettato ed ammirato gli intellettuali, non schiavizzandoli, ragion per cui l’affermazione di Alfieri è evidentemente insostenibile.

Partendo dall’idea che tutti i monarchi sono tiranni Alfieri esprime un giudizio molto severo sul fenomeno del mecenatismo, condannando non solo i monarchi e gli imperatori che in tutte le epoche storiche lo avevano praticato, ma anche tutti quei poeti e scrittori che ne avevano beneficiato. Di conseguenza Alfieri condanna duramente anche autori come Virgilio, Orazio e Ariosto, che a suo dire non avevano difeso la loro libertà morale ed avevano adulato in maniera indegna i detentori del potere.

Nel Panegirico a Traiano Alfieri fa riferimento al discorso pronunciato da Plinio il Giovane nell’anno 100, all’inizio del suo consolato. In tale discorso Plinio il Giovane esalta le doti dell’imperatore Traiano, considerato insieme ad Augusto come il migliore imperatore che l’impero romano abbia mai avuto. In questo trattato Alfieri immagina che Plinio pronunci un discorso molto diverso da quello che realmente pronunciò. Nel discorso immaginario Plinio, anziché esaltare le doti di Traiano, gli rivolge durissime accuse, dipingendolo come un tiranno. Dobbiamo dire che Alfieri stravolge completamente la realtà storica pur di sostenere che Traiano era un tiranno e Plinio uno spregevole adulatore. Infatti chiunque conosca la storia romana sa benissimo sia che Traiano fu un ottimo imperatore e non un tiranno, tanto che riscosse la sincera ammirazione dei senatori e del popolo, sia che tra Plinio il Giovane e Traiano esisteva una fortissima e sincera amicizia e non un rapporto basato sull’adulazione: tanto è vero che dalle lettere di Plinio risulta evidente che lo scrittore latino considerava Traiano e Tacito i suoi migliori amici.

Riteniamo opportuno concludere l’articolo evidenziando l’atteggiamento che Alfieri assunse nei confronti dell’Illuminismo. In Piemonte, patria di Alfieri, l’Illuminismo non esercitò alcuna influenza a causa dell’assoluto conservatorismo dei sovrani. Di conseguenza non si può comprendere la posizione che Alfieri assunse nei confronti dell’Illuminismo se non lo si inserisce nella realtà politica e culturale piemontese del suo tempo. Alfieri compì viaggi in varie nazioni, ma non riuscì mai a comprendere che la situazione politica non era la stessa che esisteva in Piemonte. Egli giudicò pertanto l’Illuminismo tenendo conto solamente delle proprie esperienze giovanili, quindi respinse in maniera assoluta l’ideale illuministico del principe illuminato e dell’assolutismo illuminato: per lui tutti i monarchi e gli imperatori erano tiranni, anche se si chiamavano Augusto o Federico di Prussia.

Alfieri non poteva nemmeno prendere in considerazione gli altri temi essenziali della cultura illuministica. Per Alfieri il popolo non era altro che plebe, e la borghesia una classe interessata solamente al denaro; per questo non condivise le idee illuministiche che si proponevano di migliorare il comportamento sia dei sovrani sia dei sudditi. Alfieri rifiutò l’Illuminismo in tutti i suoi aspetti perché la sua esaltazione del periodo classico e il suo amore per il mondo antico erano incompatibili con l’idea illuministica che il presente fosse molto migliore del passato. Infine, non si mostrò minimamente interessato al progresso tecnologico e scientifico, allo sviluppo delle industrie e dei commerci che caratterizzarono il periodo dell’Illuminismo; così pure il concetto di cosmopolitismo sostenuto con entusiasmo dagli illuministi appariva assurdo ad Alfieri, che durante i suoi viaggi al di fuori del Piemonte si era sempre sentito uno straniero. In breve, Alfieri si sentiva in totale antagonismo non solo con la società piemontese del suo tempo, ma con tutte le società che incontrò nei vari paesi visitati durante i suoi viaggi: e per questo motivo non poteva accettare l’ideale del cosmopolitismo sostenuto con entusiasmo dagli illuministi.

(Nell'illustrazione, Alfieri e la contessa d’Albany, F. X. Fabre, 1796, Torino, Museo Civico di arte antica)

 

 

A cura di Giovanni Pellegrino



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