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Moby Dick
H. Melville
Newton Compton editori, 2004
A rileggere Moby Dick di H. Melville nella pregevole traduzione di P. Meneghelli siamo avviluppati, al di là della Grande Metafora, innanzi tutto dall’abilità narrativa dallo scrittore, dal gusto del dettaglio, dall’arte dell’aneddotica, che egli sciorina desumendoli dall’esperienza personale o dalla tradizione e pertanto, attraverso lo stile asciutto ma potentissimo, il lettore continua ad essere coinvolto in quell’epopea tragica dai tratti biblici con intatta partecipazione.
Dagli occhi curiosi di un bimbo, Melville fruga lo spazio e gli animi con talento e piacere, ma sono altri gli aspetti che ancora fanno del libro della balena bianca un caso d’attualità.
A questo proposito giova sottolineare che l’edizione definitiva dei Promessi Sposi apparve a dispense tra il 1840 e il 1842, mentre il libro malvagio, secondo il giudizio dello stesso Melville, fu dato alle stampe a Londra nell’ottobre del 1851. Insomma cronologicamente non sono troppo distanti e tuttavia, a prescindere dal valore letterario dell’opera di Manzoni, è a tutti evidente che l’apparato sociale e religioso, in senso lato, che ha sorretto la sua mano, sembra perdersi nella notte dei tempi e oggi il romanzo può essere proposto ad un giovane solo come oggetto di studio.
Non così per Moby Dick che appare ancora scoppiettante e capace di seduzione.
In particolare l’allegoria del mostro marino, entità metafisica e funzione delle inquietudini esistenziali, possiede nella nostra epoca di riferimento un valore universale. È opportuno a tale proposito ricordare il diverso assetto culturale che indusse i contemporanei di Melville, morto solo e dimenticato, a non amare il romanzo, che per noi assume addirittura un carattere di preannuncio e prefigurazione della crisi del Novecento.
Il senso dell’angoscia, che ha attraversato da Heidegger in poi tutta la cultura del secolo appena trascorso e pure l’inizio del nuovo millennio, non ancora resuscitato dal regno dell’irrazionalità, è il filo conduttore della narrazione ed è contiguo alla nostra sensibilità in maniera sorprendente.
La balena designa la parte oscura dell’uomo, persino in senso psicanalitico, il confronto col destino che incombe, la lotta titanica che si vorrebbe ingaggiare contro forze misteriose e inafferrabili: l’esito della sfida disumana è catastrofico e l’uomo porta sulla sua pelle i segni della sconfitta. L’incontro raggelante col nulla rappresentato dal nero grembo del mare, concepito come regno della morte, conserva i tratti universali dell’Ulisse dantesco che non poté sottrarsi alla sfida della conoscenza per affrontare i suoi limiti di specie.
Sono tutti concetti che filosofia e letteratura continuano quotidianamente ad attraversare, come ci si può rendere conto se ci fermiamo a riflettere e ciò spiega l’interesse che Melville suscitò tra la nostra generazione di scrittori post bellici, a cominciare da Cesare Pavese.
Achab.. aveva finito con l’identificare con quell’animale non solo tutti i suoi dolori fisici, ma anche tutte le sue esasperazioni intellettuali e spirituali. La Balena Bianca nuotava davanti a lui come l’ossessiva incarnazione di tutte quelle forze maligne…
Il Leviatano del nostro mondo, la nostra Balena Bianca, è un diffuso sentimento di inautenticità. Il frastuono della cultura occidentale impedisce il raccoglimento con se stessi e l’ascolto della propria voce interiore e ciò ha come conseguenza il prevalere della sfera privata su quella pubblica.
I concetti di uomo massificato, cari a Marcuse, sono un dato di fatto. I pericoli paventati da Orwell li viviamo sulla nostra pelle. Il concetto di privacy appare sempre più ristretto e alcuni studiosi usano definire la nostra civiltà come l’epoca del controllo totale.
Ci opprime insomma un sentimento di estraneità e di inappartenenza, nel timore che il nostro giudizio possa essere inficiato dalle sofisticazioni e dalla pervasività del sistema delle comunicazioni o comunque dall’attrezzatura tecnologica.
Davanti a noi si alzano mostri oscuri e inquietudini, che una parte della letteratura del novecento designò come condanna dell’uomo all’infelicità: il male oscuro che s’insinua nel cuore anche senza causa apparente, una macchia genetica.
Tanti sono i significati che possiamo caricare sul dorso di Moby Dick -l’inconoscibile, l’orfico, il misterico…- ma qui, per fermarmi al valore letterario del libro straordinario, voglio richiamare l’intenso valore poetico dell’opera che ha parole alate per spiegare la drammaticità dell’esistenza e, alla fine, la perdita della speranza.
A cura di Fortuna Della Porta
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