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Lucio Piccolo di Calanovella: Il mirabile gioco a nascondere d'un gran signore
di Tea Ranno
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Le abitudini non sono quelle dello scapestrato che sciupa vita e patrimonio al seguito della stellina in voga, né quelle dell’aristocratico che nasconde dietro uno sbadiglio lo spleen d’un vivere senza interessi, o quelle del signorotto che mette a regime terre e campieri per adeguare la proprietà alle moderne colture. Uno sguardo che trapassa le cose, un orecchio che capta della natura il più intimo sussulto, una scansione interna della parola che veste di suono quell’intimo sussulto: il barone di Calanovella rifugge da ogni velleità di maniera e si cala nell’humus di un vivere che sfiora la bizzarria, o la stravaganza, quell’extra ordinarietà che disorienta i semplici e suscita imbarazzo, persino l’irrisione, talvolta, se villani e braccianti, vedendolo chiacchierare tra sé in apparente smemoratezza: “Mischìnu” mormorano, col compatimento dovuto agli idioti, e scuotono il capo.
“Più che cinquantenne, distratto e timidissimo come un ragazzo” lo ricorda Giorgio Bassani al meeting di San Pellegrino Terme del 1954, dove il “giovane” poeta venne presentato da Montale. Piccolo irrompeva nella scena letteraria del tempo con la sua figura anacronistica, col disagio di chi è abituato a declamare versi a mute di cani e mal s’adatta alla fragorosa curiosità di un pubblico vacanziero. Del resto, se ciò era potuto accadere, se il timidissimo e trasognato barone adesso godeva della notorietà, lo si doveva soltanto al cugino principe (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio di una sorella della madre di Piccolo). Era stato infatti Lampedusa a insistere affinché Lucio inviasse le “9 liriche” a Montale. Che le aveva ricevute l’otto aprile del 1954: “Un libriccino stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili” scriverà Montale al riguardo, scatenando l’ira del tipografo orlandino che: “Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!” urlerà, offeso irrimediabilmente nel siculo amor proprio che vantava eccellenze di materiali nell’esercizio del mestiere.
A San Pellegrino il barone giunse in treno: in valigia un corredo di candide lenzuola, per scorta un servo muto e l’immancabile cugino principe che tanto meglio di lui sapeva districarsi tra le chiacchiere e la curiosità della gente. E incantò tutti, persino Montale il quale si premurò di precisare che i suoi scritti rappresentavano quanto di meglio fosse uscito in quegli anni in Italia nel campo della lirica pura. Ma più che dal poeta, dalla raffinatezza del suo timbro e dalla particolarità dei suoi temi, l’attenzione dei convenuti fu attratta dal personaggio: un gentiluomo siciliano che abita un castello, colloquia con gli spiriti, seppellisce i suoi cani in un cimitero con tanto di tumuli, lapidi e bouquet di fiorellini freschi, che pare discetti in arabo, sanscrito e aramaico e si diletti di matematica pura, non passa inosservato. Ed è lo stesso Montale che contribuisce alla creazione del personaggio: il fondo, se il “giovane” poeta è giunto a lui è solo grazie a una svista dovuta alla scarsa dimestichezza del barone con la quotidianità: il plico contenente le liriche non era stato adeguatamente affrancato e fu necessario, per averlo, sborsare ben 180 lire. Dunque solo per ciò – per appurare se valesse 180 lire – Montale scartò l’involucro e lesse le poesie che altrimenti sarebbero rimaste sul suo tavolo, accatastate nella pila di altri libri che ogni tanto un valletto aveva cura di far sparire.
Le liriche erano accompagnate da una lettera di presentazione in cui si enunciavano le coordinate poetiche di quel discorso che Piccolo intratteneva tra sé e il micro/macro cosmo che gli gravitava intorno: “Intendo parlare di quel mondo di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate a questi luoghi, qui trascorso senza lasciare traccia”. Rievocare e fissare, dunque, “un mondo singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte”. Una sicilianità, tuttavia, che prescinde dalla maniera, dal colore e dal folklore, e che sta, tutta, nella “vibrazione stessa delle parole”, come ribadirà più tardi, infastidito dalle osservazioni di quelli che definiva “compilatori d’antologie” e che miravano soltanto a “un dozzinale decorativismo” lasciando all’esteriorità di tracciare le coordinate di luoghi e rievocazioni.
“Un barocco d’ambienti, d’atmosfere”, dove permangono visioni e illusioni, i ruderi d’una Sicilia barocca – archi, pali, luminarie, nacchere, tamburini, fiori di carta – che assembla fasto e rovina in una girandola a sfida del tempo. E che si compiace delle parole, perciò le ricerca, le distilla, le trae da un linguaggio remoto, inadeguato forse alla attualità e tuttavia capace di evocare la mirabilia d’un suono, l’ombra labile d’una forma che trapassa muri e pareti per scolorare in un tanto di luce che balugina anche quando tutto è spento. Parole, dunque, che trapungono l’effimero e lo inchiodano, che carezzano la morte nei suoi cento sembianti e ne placano l’ardimento: flussi di sangue e di memoria, i morti, che male non fanno, volti fittizi di cartone, fantocci che s’afflosciano in pieghe di tendaggi privi d’osso e contorni, che soffiano sul lume e con un grido spezzano il cerchio, il punto in cui lo spazio torna a precipitare in un gioco – un gioco a nascondere – che è nulla in sé, eppure ci rende vigili, attenti ai grovigli di respiro che sono vento e fiato, simulacri di volti senza memoria né rilievo.
Una poesia, dunque, (da Canti barocchi a Gioco a nascondere, da Plumelia alla postuma La seta) che non è soltanto descrittiva, come lo stesso Montale aveva azzardato a timore di future involuzioni, ma che indugia sulle cose, sulle forme e le figure per fermarne in una visione il trascorrere, coglierne il trasmigrare repentino verso altro sembiante, altro grumo di tempo che si stempera in fantasie di crepuscolo o si tinge del nero d’un “buio di cisterna”.
Quella di Piccolo potrebbe pertanto dirsi una particolare predisposizione psicologica, un rifugiarsi nell’oscurità e nella penombra per ritrovare quanto si è perduto, per esorcizzare il tempo, l’angoscia della morte. Una predilezione per l’oscurità che accentua il sogno, che sfuma i contorni degli oggetti e si pone a contrasto della troppa luce – la mediterranea, cruda, violenza del sole – che lo circonda. E nel buio, al chiarore soffuso d’una fiammella a petrolio (non volle far attaccare la corrente elettrica nella sua camera) il quotidiano si rarefà, trapassa nel magico, nel mitologico, e usa del linguaggio come d’uno strumento per confondere, o meglio, sopportare, il tormento del vivere.
“Scrivevo versi come altri passeggia o sta alla finestra: era un fatto naturale” dice di sé. Un fatto naturale che però attinge al pozzo della sapienza, di una conoscenza che spazia dalla musica all’arte, la filosofia, l’esoterismo, la matematica, il cinema, la poesia, la letteratura (conosceva nella lingua originale i classici latini e greci e recitava a memoria i poemi omerici). E a proposito di letteratura, è il cugino Lampedusa, sin dalla prima giovinezza, il suo immediato allelo e rivale. “C’era fra noi” racconta il barone “una sorta di gara a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui io il primo a leggerlo, prima ancora di Lampedusa, quando ancora Yeats non aveva avuto il premio Nobel”. E le meditazioni infinite su Rilke, Joyce, Mann, Proust. E gli anglosassoni, quel Dylan Thomas che disse a Montale di non conoscere e sulle cui pagine, invece, si era lungamente esercitato. E gli spagnoli: “Sul mio altare c’è Lope De Vega”. Ma anche Montale, i cui versi contribuirono a scardinare la preparazione classicistica, liceale, appassionata e ingenua del barone: “Ossi di seppia coi loro ritmi costanti, incisivi, espressione di una vita interiore reattiva e drammatica, furono in me il primo distacco, la prima influenza che doveva svolgersi e durare in quella che credo essere la mia personalità di oggi”.
Una personalità ben complessa, che va oltre il ciarpame aneddotico (di pessimo gusto quello relativo alle vicende della sua tarda paternità) e brucia il silenzio. Uno strano poeta, fuori dal tempo in quella casa attraversata dal “meridiano della solitudine” dove si gela d’inverno e nonostante ciò si mangiano gelati al gelsomino, e dove gli spifferi parlano greco, Gide conversa con Proust e Joyce rincorre l’ectoplasma d’un cane fedele, e ciotole d’acqua sono sparse a ogni angolo per rinvigorire gli spiriti esausti. E dove la risacca del mare – l’azzurrino mare d’Orlando – seguita a riplasmare le stesse storie.
A cura di Tea Ranno
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