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L’universo maledetto dei Contes Crépuscolaires
di Ilaria Biondi
Pubblicato su PB19


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L’universo maledetto dei Contes Crépuscolaires

A partire dal 1936 Michel de Ghelderode, conosciuto all’epoca come autore di testi teatrali, sprofonda in una grave crisi depressiva e risente di una serie di disturbi psicofisici che minano pesantemente il suo stato di salute, già piuttosto precario; le punture di morfina, che si somministra con crescente frequenza, sembrano rappresentare la sola forma di sollievo contro gli atroci mal di testa e i soffocanti attacchi di asma che lo assalgono ripetutamente.
Le ossessioni dello scrittore, rese più acute e profonde dalla malattia che lo devasta, confluiscono nella stesura di una raccolta di racconti dall’atmosfera inquietante e allucinata, Sortilèges, dato alle stampe per la prima volta nel 1941.(1)
Franz Hellens per primo attira l’attenzione sul valore di questi pezzi, a lungo trascurati e misconosciuti a favore della ben più nota produzione teatrale ghelderodiana, e si azzarda persino ad affermare che essi rappresentano la parte più notevole e significativa della sua opera:

«La produzione teatrale di Michel de Ghelderode è inferiore alla sua produzione di autore fantastico, ben più sobria ed esigua.»(2)

Lo stesso Ghelderode si sente particolarmente legato a queste storie e si rammarica di non riuscire a consacrare più tempo alla composizione di racconti , forma narrativa “primigenia”, che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo:

«Soffro per non poter scrivere racconti e una volta terminata la pubblicazione dei miei scritti teatrali (ancora due volumi), voglio sacrificare l’ultimo mio inchiostro, l’ultimo mio respiro a queste storie meravigliose e terribili, di cui gli uomini hanno più bisogno che del pane; torno ad essere ciò che ero in origine, uno scrittore di favole…»(3)

Il fantastico di questi racconti (e della produzione ghelderodiana più in generale) è strettamente legato alla tradizione folklorica delle Fiandre medievali, con le loro feste, i loro usi e costumi, i loro racconti e proverbi di origine pagana, un mondo di fate, gnomi e diavoli, affascinante ma ormai lontano e scomparso che la fantasia del poeta cerca di far rivivere in tutta la sua non di rado sinistra e inquietante magia. La presenza del folklore fiammingo, al quale Ghelderode viene iniziato fin da bambino da una madre superstiziosa e ipersensibile, è evidente in alcune costanti della sua opera, primo fra tutti nel rapporto privilegiato che i suoi personaggi, ad immagine e somiglianza del loro autore, intrattengono con gli oggetti, verso i quali dimostrano un singolare attaccamento. Ghelderode si dice infatti convinto in più circostanze che gli oggetti siano dotati di una vita particolare, che portino impressi i segni di chi li ha creati o utilizzati in passato e che possano agire in modo benefico o malefico a seconda delle forze di cui sono investiti. Nei “racconti crepuscolari” il fantastico si manifesta proprio attraverso la presenza di oggetti magici, testimoni silenziosi e inquietanti del mistero che abita il mondo: sono elementi inerti che appartengono alla realtà, alla dimensione quotidiana dell’esistenza e che inaspettatamente cominciano a prendere vita, provocando un profondo senso di malessere e di paura nel protagonista, che assiste attonito e incredulo allo strano evento. In Nuestra Señora de la Soledad lo scenario dello stupefacente prodigio è una chiesetta buia e solitaria, che l’io narrante è solito frequentare nei pomeriggi di festa: con stupore dell’anonimo protagonista la statua della vergine nera custodita all’interno di una cappella, e alla quale egli è da sempre devoto, si anima inspiegabilmente: dapprima essa solleva le palpebre e con i suoi occhi scuri incrocia lo sguardo stupefatto del protagonista poi, dopo che questi è stato sollevato fino a lei come levitato da una forza magnetica, comincia a parlargli a labbra serrate, come se stesse infrangendo un superiore divieto. In Ti hanno impiccato! (Tu fus pendus)4 ad essere investito di poteri imperscrutabili è invece un animale, una sinistra e beffarda gazza nera che fa trasalire il protagonista ogni volta che questi mette piede nella desolata taverna cittadina denominata La petite potence.  Le parole confuse e incomprensibili dello strano uccello, unitamente al suo sguardo acuto e indagatore, rivelano che essa è depositaria di una sapienza secolare , di segreti ai margini dell’umano e del razionale; la sua voce sprezzante e la sua risata sardonica sembrano prendersi gioco crudelmente dell’inconsapevole protagonista, che non comprende a fondo i suoi discorsi enigmatici ma che pur intuisce la sua natura “altra”, il suo inquietante e lugubre ruolo di “messaggera di morte”. La stessa strana e curiosa contaminazione tra umano, animalesco e inanimato la si ritrova anche nell’arte fiamminga, che riesce ad ottenere le immagini più autenticamente fantastiche proprio attraverso la tecnica dell’ibridismo tra forme appartenenti a mondi diversi.
L’incontro con la misteriosa e imperscrutabile dimensione dell’”alterità”, sia essa personificata dal manichino di cera di un museo, che muove le mani e comincia a vergare delle parole su un foglio come in L’écrivain public, da un gatto purulento e luciferino che si muove furtivo tra le fronde e i cespugli di rovi che crescono selvaggi in Le jardin malade, o dalla diabolica, laida e nauseabonda governante di L’odeur du sapin, muta e sinistra portatrice di morte, avviene sempre in un contesto notturno; l’oscurità porta con sé il sonno, spalanca le porte all’inquietante altrove del sogno. In linea con la tradizione della narrazione fantastica, in primo luogo con l’estetica del romantico E.T.A. Hoffmann, anche nei racconti ghelderodiani è la notte ad avere il potere di risvegliare nell’individuo la potenza creatrice ed immaginativa, ad aprire al soggetto la segreta dimensione dell’inconscio, a rivelargli i cupi misteri che si celano nel profondo dell’io e dietro la fallace superficie della realtà quotidiana. I protagonisti dei “racconti crepuscolari” sono incapaci di tollerare la luce del giorno e la calura del sole estivo, che li acceca e li fa cadere in uno stato di desolante e disperante prostrazione; è solo con il calare delle tenebre che essi cominciano davvero a vivere, sensibili come sono ai richiami del misterioso mondo che si cela nelle pieghe dell’oscurità:

«Il caldo tropicale non smette d’infierire. La vegetazione fuma dalla mattina alla sera; a mezzogiorno sembra colare, come una lava verdastra, e l’odore di magma, che sprigiona la terra, cresce d’intensità. È come la narcosi. Il mio olfatto è così debole che non sento più niente? Questo trionfo estivo mi relega in uno stato di permanente nostalgia e mi fa sentire di piombo; la luce eccessiva mi avviluppa, come un sudario, e la poca ombra delle stanze dove entro solo per noia, non mi è di nessun aiuto.»(5)

I protagonisti dei racconti di Sortilèges quasi invocano e ricercano questo momento privilegiato di comunione con le forze soprannaturali, momento in cui le frontiere tra il qui e l’altrove si annullano quasi magicamente;  sono dei visionari che bramano di scoprire ciò che sta dietro la superficie del reale, che chiedono a gran voce di poter vivere l’incontro con l’inconnu pur nella consapevolezza che tale esperienza “del limite” possa risultare devastante, se non fatale.  Si veda a tal proposito quanto afferma il protagonista di L’écrivain public:

«L’estate fu di un caldo eccessivo. La mia prostrazione peggiorò al punto che non uscii più di casa. Il quartiere di Nazareth era immerso in un vapore rovente e tutto dormiva, anche gli uccelli. Era il trionfo del sole, il soffocamento dell’universo, splendido e terribile. Le ore troppo luminose non finivano mai e trascorrevano in attesa di una notte fin troppo breve. Nella stanza, chiusa al riverbero dell’esterno, soffrivo come i vegetali e le pietre, intossicato dall’azzurro violento e anelavo l’ombra, che poteva esistere solo all’interno della terra indurita, dove sgorgano le sorgenti nelle tenebre. Il mio malessere iniziava col cammino del sole e finiva solo al tramonto. […] Fisicamente stremato, solo la mia testa sopravviveva, mentre il pensiero si scaldava gradualmente con l’atmosfera. E poiché l’estate persisteva, mi sentivo morire lentamente, per pietrificazione. […] Al crepuscolo tuttavia la folle corsa [del mio pensiero] rallentava, il mio cervello diventava opaco, il casco di fuoco che l’aveva imprigionato si raffreddava a poco a poco. […] Cercavo di sottrarmi all’ebetismo e di andare incontro alle tenebre.»(6)

L’evento perturbatore che si insinua d’improvviso nella quotidiana routine dei protagonisti, e al quale questi non riescono a dare un nome, ingenera in loro un senso di smarrimento, un malessere e un turbamento profondi che evolvono pian piano verso una paura tragica e indicibile che rischia di condurli alle soglie della follia. Con la sola eccezione di Rhotomago, l’universo di Sortilèges è cupo, desolato e solitario, un mondo allucinato e allucinante dominato dalla sensazione di terrore e da un’inquietudine metafisica. L’angoscia può materializzarsi in un essere dalle forme ben definite come in Le jardin malade, ove assume le mostruose sembianze di un gatto malefico al quale il protagonista ascrive dei poteri diabolici, ma può anche identificarsi con un nemico invisibile e inconoscibile e nascondersi entro le pieghe oscure di un paesaggio nebbioso e ostile come in Brouillard; in quel caso l’eroe non ha nemmeno la possibilità di difendersi, deve solo attendere che l’avversario temuto e temibile allenti la presa sulla sua vittima e decida di lasciargli scampo:

«A più riprese mi voltai bruscamente per smascherare il fantasma o il malintenzionato inseguitore, perché poteva anche trattarsi di un malvivente, che protetto dalla nebbia ordiva le sue trame. Ma dovetti arrendermi all’evidenza, perché non c’era nessuno all’infuori di me in quelle tenebre livide, striate di un giallo sporco. D’altra parte non mi sentivo incline a nessun atto eroico, sapendo per esperienza che davanti a qualsiasi pericolo, reale o no, visibile o immaginario, conviene fuggire, imitando il saggio esempio degli animali. Arrivai nei pressi di casa. Sapevo di essere ancora seguito. Ansimavo. Caldi brividi mi percorrevano la nuca e non pensai che potevo avere la febbre, conseguenza di quella corsa assurda. Malato o no, dovevo mettermi urgentemente al riparo, perché sentivo i passi dell’inseguitore ancora più vicini ai miei. Finalmente potei lasciarmi andare, stremato, contro la massiccia porta che difende la mia dimore.»(7)

Lo spettro della morte aleggia ovunque in questo mondo malato e putrido, cupo, grigio, squallido e inospitale e il protagonista ogni volta la sfiora da vicino, ritraendosi da essa un passo prima della fine. Il racconto con cui si chiude la raccolta reca con sé un messaggio in cui la speranza sembra avere infatti l’amaro sapore della disillusione: il protagonista de L’odeur du sapin riesce ad allontanare dalla propria casa la Nemica Suprema, che si presenta al suo cospetto con sembianze umane grottescamente deformate, ma la paura non lo abbandona nemmeno dopo la dipartita del terrificante essere poiché egli sa che, presto o tardi, quella sinistra maschera tornerà a bussare alla sua porta. E quel giorno sarà per sempre.
Lo stesso paesaggio dei “racconti crepuscolari” riflette da parte dell’autore una visione ossessiva dell’esistenza, dominata dall’idea di male, di peccato e di morte, le cui origini sono da far risalire all’educazione puritana e rigidamente moralistica ricevuta da Ghelderode durante l’infanzia; ovunque si volga la sguardo nei pezzi di Sortilèges è tutto un susseguirsi di abitazioni vetuste e malandate, di mura che cadono a pezzi, di giardini abbandonati e selvaggi, di acque stagnanti e fetide, di città sporche e malate, a immagine  dei fantomatici esseri che abitano questi poveri luoghi e che appaiono fugacemente sullo sfondo. Si legga, a titolo d’esempio, questa descrizione della capitale inglese, con cui si apre il suggestivo racconto Le diable à Londres:

«Vagavo in un cupo e brumoso mattino per non so più quale sordido quartiere di magazzini, una sorta di fetido fondaco e di asfissiante meandro lungo il fangoso Tamigi. Piovigginava. Gli individui che incrociavo avevano facce o da banditi o da malati. Posso dire che era un ozioso passeggiare quel vagare sul selciato viscido, in una bruma che sembrava contenere tutte le pestilenze della storia?»(8)
 
Sortilèges è una raccolta di racconti visionari e allucinati, di sogni e tenebre, un universo nel quale lo spazio e il tempo si sovrappongono e si mescolano, curiosamente e quasi impercettibilmente, tanto che sovente il lettore dura fatica a comprendere se i personaggi agiscono in stato di veglia oppure se la storia si svolge in una dimensione puramente onirica; all’irrazionalità degli eventi descritti fa però da contraltare una sapiente e razionalissima struttura narrativa, che Ghelderode governa con grande maestria e abilità. L’autore si sforza continuamente di rendere credibile e verosimile l’evento inquietante e terribile che apporta uno strappo, una frattura nel quotidiano fluire dell’esistenza del protagonista; la precisione del vocabolario utilizzato unitamente al realismo degli scenari descritti contribuiscono ad attirare il lettore nella “trappola” narrativa sapientemente messa a punto dall’autore, trascinandolo lentamente ma inarrestabilmente nella dimensione del soprannaturale, attirandolo nell’inquietante ma oltremodo affascinante mondo della surnature. L’autore non ambienta le sue storie in scenari straordinari, esotici, lontani e inaccessibili, bensì in luoghi ben delimitati, che appartengono al vissuto del protagonista.
Lo sforzo di far apparire il più verosimile possibile l’evento insolito che perturba di colpo la quotidianità dell’io narrante si estrinseca anche nella pretesa autenticità dei fatti avanzata dal narratore, segnalata dall’utilizzo del je, espediente con il quale  la voce narrante presenta se stessa anche in veste di protagonista, di testimone oculare degli eventi riferiti. Spesso l’io narrante dei “racconti crepuscolari” previene ed anticipa apertamente dubbi e perplessità del lettore implicito, sottolineando lui per primo il carattere incredibile delle vicende personalmente esperite, ma avendo cura al tempo stesso di mettere in luce la veridicità e la realtà fattuale delle stesse. Così ad esempio il protagonista di Le jardin malade, che registra accuratamente nel suo diario le bizzarre avventure in cui viene coinvolto, nel tentativo di conferire una dimensione quanto più possibile oggettiva a ciò che sembra sottrarsi ad ogni spiegazione logica e razionale. Egli si propone dunque in qualità di garante, rassicurando il lettore circa la natura rigorosamente vera delle vicende: «Questo diario raccoglie solo fatti assolutamente veritieri.»(9)
I racconti di Sortilèges si presentano come un enigma da risolvere, in cui il lettore si dibatte tra due possibili spiegazioni, una realistica che fa appello al raziocinio e al buon senso e una totalmente irrazionale, soprannaturale che contrasta con le conoscenze e le esperienze comunemente acquisite e condivise. Il protagonista, ed il lettore insieme a lui, pur avendo una naturale propensione per ciò che è insolito e strano, non accetta di primo acchito la motivazione irrazionale, esita a lungo fra le due possibili opzioni, tentenna e ritorna continuamente sui propri passi, è incapace di decidersi, benché alla fine tenda a propendere – ma mai in maniera assoluta e univoca – per la soluzione non realistica.(10) Il protagonista de L’écrivain public ad esempio, che ama trascorrere le sue giornate all’interno di un vecchio convento adibito a museo, prova un costante senso di perplessità in presenza del manichino di cera Pilatus poiché, pur essendo razionalmente consapevole di avere di fronte un essere artificiale, è anche intimamente convinto che quella creatura sia segretamente dotata di una qualche forma di vita:

«Ora la vita animava la sua mano, nient’altro che quella ; la sua mano scriveva lentamente, appoggiata sulla pagina, e io sentivo stridere la penna. In verità non ebbi l’idea che si trattasse di un prodigio né di un’illusione soave; era molto tempo che quell’istante stava maturando, che il mio pensiero stava caricando magicamente quella mano meravigliosa.»(11)  

Questa raccolta “sulfurea”, popolata da inquietanti creature spettrali, da cupe apparizioni della Morte e del Diavolo, da statue che magicamente si animano, da personaggi che affondano disperati negli abissi senza fondo dell’allucinazione, è forse una delle migliori e più autentiche rivelazioni dell’animo di Ghelderode, del suo paesaggio interiore, un lucido riflesso della sua angoscia esistenziale, della sua disperante solitudine, che proprio in quegli anni di recrudescenza della malattia sembrano farsi ancora più intolleranti. I “racconti crepuscolari” rappresentano una delle più belle pagine del fantastico belga di lingua francese, capaci di ammaliare il lettore con loro straordinaria potenza visionaria delle loro immagini e con la non comune forza incantatrice di un linguaggio lussureggiante che sa unire magistralmente l’elegiaco e lo scatologico.  
 
Note:
1 In questa prima edizione è incluso il racconto Eliah le peintre, in seguito estromesso a causa della posizione dichiaratamente antisemita del protagonista. Nelle successive edizioni il suddetto racconto è sostituto da L’odeur du sapin, composto nel 1942.
2 Citato in Karl Canvat, Fantastique et carnavalesque dans les “Contes crépusculaires” de Michel de Ghelderode, «Textyles», X, 1993, p.97. La traduzione è nostra.
3 Karl Canvat, Fantastique…, pp.97-98. La traduzione è nostra.
4 L’edizione di riferimento in lingua francese da noi utilizzata è la seguente: Michel de Ghelderode, Sortilèges, Bruxelles, Labor, 2001. Quanto alla traduzione italiana, dalla quale sono tratte le citazioni contenute nel presente articolo, si tratta invece della la seguente: Michel de Ghelderode, Sortilegi, Rimini, Panozzo, 2001 (trad. it. di Manuela Raccanello).
5 Michel de Ghelderode, Il giardino malato, in Sortilegi…, cit. p. 54.
6 Michel de Ghelderode, Lo scrivano, in Sortilegi…,  cit. pp.12-13.
7 Michel de Ghelderode, Nebbia, in Sortilegi…, pp.127-128.
8 Michel de Ghelderode, Il diavolo a Londra, in Sortilegi…, cit. p.19.
9 Michel de Ghelderode, Il giardino malato, in Sortilegi…, cit. p.50.
10 Da questo punto di vista i racconti di Ghelderode sono conformi alla definizione di narrazione fantastica data dallo studioso Tzvetan Todorov (Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970) secondo la quale il fantastico coincide con l’incertezza provata da un essere che conosce solo le leggi naturali, quando questi è posto di fronte ad un avvenimento che apparentemente travalica i confini del razionale, del naturale.  
11 Michel de Ghelderode, Lo scrivano, in Sortilegi…, cit. p. 12.

A cura di Ilaria Biondi



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