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Rien n’est plus fantastique ,
en definitive, que la precision
A. Robbe Grillet
Meglio un qualsiasi senso,
che l’assenza di senso,
F. W. Nietzsche
1) L’INTUIZIONE
La sala è buia.
Come conviene ad un qualsiasi teatro.
Immersa in un’aurea di luci e ombre che si inseguono tra le note di una canzone che viene da lontano.
Una canzone testimone di una cultura che si perde nel tempo con le sue suggestioni, i suoi misteri, i suoi valori, il suo gusto estetico.
Lontano nel tempo e nello spazio rivive, per un attimo, in una melodia nel contempo melanconica e assurdamente allegra
Improvvisamente ciò che sento e che vedo s’illumina di un’altra luce, quasi che quel canto, quella musica provenisse da un luogo ben più remoto del palco e sollevasse il mio essere spettatore verso una tale, infinita lontananza.
Respiro un’atmosfera strana in cui mi sembra di avvertire l’eco di un sussurro, la presenza di un misterioso suono.
«La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l’ha mai ascoltata non conosce il potere del canto. Non c’è nessuno che non sia trascinato dal suo canto, il che è da valutare tanto di più in quanto la nostra gente, nel complesso, non ama la musica.» (1).
La canzone che sto ascoltando mi ricorda, dunque, un racconto di Kafka quasi vi potesse essere quella identificazione tra vita e libro che, in fondo, ogni lettore ingenuo, tra cui posso essere annoverato anch’io, ricerca.
Il suono evocativo di un sax e quello di un clarino amplificano questa commistione tra letteratura e realtà creando un ponte fatto di suggestione che mi consente di essere contemporaneamente in due luoghi diversi.
Soprattutto però è la voce della cantante che mi confonde mentre insegue il ritmo scandito dal piano e da una batteria delicatamente accarezzata dalle bacchette virtuose di un uomo barbuto.
«Innanzitutto è canto? Nonostante la nostra immusicalità abbiamo tradizioni di canto, nei tempi antichi, il nostro popolo cantava, lo raccontano le saghe … Abbiamo un’idea di che cos’è il canto e questa idea non corrisponde propriamente all’arte di Josefine. Ma innanzitutto non è canto? Non è soltanto un fischiare?» (2).
E’ mai possibile che una suggestione simile a quella che ora mi spinge alla riflessione possa aver ispirato il racconto di Kafka?
Aspetto questo che al di là del singolo episodio potrebbe contribuire a spiegare e comprendere l’opera dello scrittore praghese tenendo conto di quanto affermato da Baioni secondo cui: «L’opera di Kafka si chiarisce e non di rado si ridimensiona nel contesto della sua biografia.» (3)
Ma non appena giungo a queste riflessioni il pensiero sembra quasi vacillare come se non fosse possibile proseguire oltre.
Di fatto l’avvenimento in cui sono immerso mi reclama e per quanto curioso non posso, per il momento, proseguire nel mio percorso di ricerca.
Inutile, pertanto, resistere al richiamo della musica rimandando al futuro la ricerca di una risposta sulla possibile ispirazione di Kafka.
La voce della cantante torna ad avvolgermi e mi lascio ritraghettare completamente nel mondo reale come fosse l’unico al quale appartengo.
2) UNA RIFLESSIONE PIU’ APPROFONDITA
La curiosità è parte della mia natura e così non posso esimermi da cercare una risposta o meglio, verificare la correttezza o la fondatezza dell’intuizione della sera precedente.
Tuttavia mi trovo da subito immerso in una “selva oscura” perché, come scrive sempre Baioni, i libri con argomento “Kafka” sono ormai diverse migliaia e questo è dovuto al fatto che «ogni interpretazione critica è la proposta di una un determinato modo della letteratura»(4) e che, aggiungerei io, l’opera dell’autore praghese sembra particolarmente adatta alle interpretazioni, anche alle più disparate e alle più conflittuali.
Anche un racconto come questo, tra l’altro l’ultimo scritto da Kafka, ha avuto diverse interpretazioni che ipotizzano scenari spesso assai diversi.
Non è mancato, ad esempio, chi abbia visto rappresentato nella cantante Josefine lo stesso Kafka, per altri sarebbe, invece una più ampia riflessione sull’arte e sul rapporto dell’artista con il mondo (5).
Personalmente vorrei ripartire dalla suggestione del concerto.
Kafka non era scevro dal partecipare ad avvenimenti musicali.
Preferiva quelli legati alla tradizione.
Come ricorda Sara Belluzzo: «Nei Diari si trovano alcune osservazioni sulle melodie ascoltate durante le rappresentazioni. Esse mettono in luce un primo aspetto della sensibilità dello scrittore verso la musica. Le descrizioni di Kafka si soffermano spesso sull’impressione di irresistibile attrazione provocata dalle melodie: esse determinano un coinvolgimento immediato e addirittura fisico, in particolare negli attori. Anche il coinvolgimento emotivo di Kafka è intenso» (6).
Si ricordi quanto scriveva lo stesso Kafka nei suoi Diari sulle recite della signora Klug, attrice che egli ammira molto: «Quando cantava ero raggiante, ridevo e la guardavo tutto il tempo che stava in scena, ripetevo con lei le melodie, più tardi le parole, e dopo alcune rappresentazioni andai a ringraziarla» (7).
Non manca, inoltre, di annotare la propria predilezione per alcune sue canzoni: «(Così lei mi pregò) il lunedì andassi a vedere Sejdernacht, benché mi fosse già nota. Allora la sentirò cantare quella canzone (bore Isroel) che, come lei ricordava da una mia precedente osservazione, mi piace in modo particolare» (8).
Kafka quindi subiva, per sua stessa ammissione, il fascino e l’emozione del canto.
Non è pertanto improbabile che possa avere trovato ispirazione e spunto per il suo racconto in un concerto (così come un effetto similare può averlo fatto a me).
Musica e canto come base solida su cui il mio argomentare possa poggiare per procedere verso quella ricerca di senso originario che attrae il mio pensiero.
In questo percorso, invero piuttosto accidentato, mi sovviene l’analisi di uno studioso di Kafka: Harmut Binder.
Hartmut Binder, ordinario di letteratura tedesca all'Università di Ludwigsburg (Germania), biografo e filologo kafkiano, nella sua opera cerca di fare luce fra la miriade di letture critiche, spesso fuorvianti, che nel corso degli anni sono cresciute sull’opera kafkiana.
Lo fa ricercando con pazienza e attenzione riscontri biografici arrivando a sostenere che determinante per la nascita delle opere di Kafka furono, non tanto la mistica ebraica ma, la realtà quotidiana dello scrittore, i rapporti con il mondo praghese, non solo ebraico, le singole letture, l'esperienza del mondo familiare e di quello amicale o sociale.
Tale fatto potrebbe essere confortato dalle stesse parole di Kafka che afferma: «quando scriviamo non è che abbiamo espulso la luna … ma sulla luna ci siamo trasferiti con tutto ciò che possediamo» (9).
In altre parole chi scrive per quanto possa desiderare di astrarsi da ciò che lo circonda, di fatto, non può estraniarsi totalmente dalla propria esperienza, non può allontanare i ricordi, i volti visti, quelli amati od odiati.
Commistione tra realtà e creatività in cui lo scrittore è immerso e di cui Kafka sembra convinto quando scrive nel suo Diario riferendosi al padre: «Nei mie racconti parlavo di te».
Allora la risposta, la chiave interpretativa, potrebbe essere trovata nella biografia di Kafka.
Un esercizio meno complesso di quello che potrebbe sembrare.
E’ strano, spesso sappiamo poco o nulla di quello che riguarda i nostri prossimi antenati, lavoro, studi e a volte, perfino, il nome o il volto ma conosciamo, grazie all’opera di benemeriti biografi, la vita di scrittori, musicisti, pittori e similari. (10)
Anche Kafka, per quanto poco famoso in vita, non sfugge a questa regola.
Si viene così a sapere che Kafka in quegli anni frequentò alcuni personaggi che, per alcune caratteristiche, possono essere avvicinati a Josefine.
La prima è Emmy Salveter amica di Max Brod.
Emmy era una aspirante cantante d’opera, secondo alcuni non di sommo talento (11).
Tuttavia era convinta che la musica la elevasse e la salvasse.
La seconda è Puah Ben Tovim.
Come ricorda Camilla Miglio (12), Puah Ben Tovim era detta la “palestinese”.
Kafka la conobbe come insegnante di ebraico a Praga (13).
Sembra fosse l’unica madrelingua ebraica a Praga dove si trasferì per motivi di studio.
Era, infatti, una studentessa di matematica che venne nella capitale Boema per perfezionare le sue conoscenze.
La sua abilità linguistica unite alle sue idee la portarono ad essere animatrice del gruppo sionista “Blau - Wess” ed insegnante alla scuola talmudica.
A Praga, inoltre, oltre a tenere lezioni private, teneva concerti di canti della tradizione ebraica.
Di fatto tale tradizione si era a Praga fortemente affievolita.
Infatti, per quanto non siano mancati studiosi come Eisner che ricostruendo la Praga di Kafka propone l’idea di una società divisa in distinte etnie tra loro contrapposte, appare abbastanza comprovato (14) che, nell’epoca considerata, i tre popoli non si trovassero confinati in insiemi non intersecanti: al contrario, essi si mescolavano e si confondevano a più livelli, mostrando una vicinanza implicita, rivelando una convivenza naturale e relativizzando quell’immagine dei fronti “l’un contro l’altro armati” che è stata a lungo proposta.
«A inizio secolo, i quartieri di Praga, le scuole, le professioni vedono cechi, tedeschi ed ebrei convivere fianco a fianco. Anche nell’ambito più intimo, l’amicizia, la convivenza, il matrimonio misto si rivelano spazi affettivi di incontro ceco - ebreo-tedesco.
Se muri all’interno della società praghese esistevano, essi dunque non si innalzavano tra le nazionalità, in orizzontale, bensì tra le classi, in verticale, a causa dell’ingiustizia nella distribuzione del potere e dei beni» (15).
Proprio da questa, parziale assimilazione e dalla perdita di conoscenza della lingua ebraica potrebbe derivare la possibile spiegazione del perché i topi abbiano smarrito la capacità di cantare (presente nella loro tradizione) e forse anche di capire e dare un senso alle parole che Josefine/Puah pronuncia.
Ma queste parole, pronunciate in una lingua foresta, hanno un senso o sono solo un rumore, un fischio?
Sarà capitato anche a Kafka di ascoltare una lezione e di trovare difficile la pronuncia di certi vocaboli.
Parole e suoni che il suo orecchio, abituato al tedesco, non era in grado di recepire appieno, di distinguere.
Questa interpretazione, trova una possibile conferma nelle stesse parole di Puah Ben Tovim che intervistata a molti anni di distanza, una volta tornata a Gerusalemme, affermava che non aveva mai saputo nulla del racconto mentre Kafka lo scriveva ma che in seguito fu informata da qualche studente della somiglianza con Josefine.
Aspetto questo che non la meravigliò. (16)
Non posso, in questa sede, dilungarmi ulteriormente nella ricerca di altri particolari a sostegno della mia intuizione-ipotesi.
Con gesto non privo di arbitrarietà la do per acclarata e passo oltre.
Probabilmente, una sera ascoltando Puah, Kafka iniziò a pensare all’ultima cantante di un popolo che stava perdendo la sua tradizione.
La portatrice di una storia che si stava dissolvendo.
Kafka provò a descrivere quegli avvenimenti non con eccessiva enfasi ma con una buona dose di ironia che divenne la base su cui poggiare il suo racconto descrivendo così sia la cantante sia il suo popolo.
3) DUE POSSIBILI OBBIEZIONI
Per quanto sia convinto, che la mia ricostruzioni possa trovare riscontri storici e biografici abbastanza fondati, non mancano piccole incrinature che potrebbero gettare una luce sinistra sulle mie affermazioni.
Per brevità mi soffermerò su due possibili obiezioni.
La prima trova il suo fondamento nel pensiero ebraico.
Sostiene a tale proposito Fingerhut, riferendosi alla frase conclusiva del brano («Forse non ne sentiremo molto la mancanza, ma Josefine redenta dalla pene terrene , destinate secondo il suo parere agli eletti, si perderà allegramente in mezzo all’innumerevole massa degli eroi del nostro popolo, e presto, dal momento che non coltiviamo la storia sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli in una superiore redenzione» (17)) che Kafka scrivendo del popolo dei topi non avesse in mente il popolo ebraico (18): «Il grande individuo come “breve storia della perenne storia del nostro popolo” che si dimentica in una redenzione superiore”: un fenomeno del genere è del tutto estraneo alla conoscenza storica ebraica»(19).
In realtà, a mio giudizio, in questo caso si da una lettura troppo integralista delle parole di Kafka.
Senza riaprire l’annoso problema del rapporto di Kafka con l’ebraismo è probabile che il suo essere inserito in un mondo occidentale, come si è sottolineato in precedenza non fatto a compartimenti stagni ma abbastanza integrato (20), non privo quindi di suggestioni provenienti da altre religioni e dalla lettura di molti libri, lo abbia fatto propendere per una chiusura più poetica ed aperta rispetto a quella che avrebbe avuto se si fosse mantenuto nella ortodossia ebraica che, tra l’altro, non gli apparteneva (21).
Una conclusione con maggiore speranza che, in fondo, non poteva rattristarlo, provato com’era dalla malattia e in bilico tra la vita e la morte.
Per quanto, infatti, l’individuo (o nello specifico Josefine) una volta scomparso sarebbe stato, con tutta probabilità, dimenticato sulla terra ci sarebbe, comunque, stata una speranza.
La possibilità di una redenzione superiore in cui sublimarsi e guadagnarsi un pezzetto, sia pur modesto, di immortalità.
Lasciando però le considerazioni autobiografiche e tornando a Puah Ben Tovim, la chiusura del racconto potrebbe riferirsi anche alla sua partenza da Praga (che di fatto avvenne).
Lasciata la città dopo un breve periodo, come spesso avviene, sarebbe stata dimenticata (giorno dopo giorno).
Nei discorsi degli ebrei praghesi, nei loro ricordi la sua memoria si sarebbe fatta più flebile («e presto, dal momento che non coltiviamo la storia sarà dimenticata»).
Ma l’essere dimenticati non necessariamente rappresenta la fine.
Si entra a far parte di un corteo di ombre che pure sono esistite e che con il loro vivere hanno modificato, in modo più o meno radicale, il mondo.
Corteo d’ombre che trova il suo senso in una dimensione ulteriore, non necessariamente ultraterrena ma, magari, posizionata in un diverso luogo (ad esempio la Palestina, dove alcuni ebrei si trasferivano, e dove anche Kafka, forse, avrebbe voluto andare) (22).
La seconda incrinatura si potrebbe ravvisare nel passo del racconto in cui ad Josefine viene attribuita la volontà di non lavorare per potersi dedicare interamente alla sua arte.
Tale desiderio, infatti, non sarebbe stato del tutto estraneo allo stesso Kafka, che trascorse l’ultimo periodo della sua vita preoccupato da questioni economiche, tanto è vero che fu lui stesso a spingere l’amico Brod a darsi da fare per la pubblicazione di questo racconto (23).
Ritorna così un apparente sostegno alla teoria di chi considera Kafka stesso l’ispiratore di Josefine avvalorando questa affermazione con il cambiamento di voce (ridotta quasi ad un sibilo) che Kafka aveva avuto a causa del danno riportato dalla laringe colpita da una laringite tubercolare, che gli impediva di parlare (restano i suoi ultimi biglietti di conversazione) e alla fine anche di inghiottire.
Fermo restando che, non necessariamente un’ispirazione debba essere unidimensionale, è bene ricordare che Puah Ben Tovim venne a Praga per ragioni di studio e che cercò sempre di mantenersi dando lezioni private con risultati, invero, alterni.
La necessità di soldi probabilmente era un problema comune e l’insegnate probabilmente si lamentò delle sue condizioni di vita giungendo ad affermare che, se non avesse avuto un contingente problema di denaro, avrebbe potuto dedicare più tempo all’insegnamento dell’ebraico.
Magari avrebbe vissuto meglio se avesse potuto insegnare in una vera e propria scuola, dove avrebbe potuto “cantare” portando la sua voce al popolo senza assilli economici.
Una spiegazione che credo sia organica al testo e che quindi possa essere accettata come verosimile se non proprio (sicuramente) vera.
4) DAL PARTICOLARE AL GENERALE: PERCORSO PER UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE DEL TESTO KAFKIANO
Passando dal particolare al generale ci si può, legittimamente domandare: ma ha un senso il percorso da me ipotizzato?
Ha un senso cercare di ricostruire le fonti di ispirazione o i motivi che hanno spinto gli autori a realizzare uno scritto?
Credo che la risposta differisca a seconda di come si intenda la letteratura.
Se la lettura è (o è anche) comunicazione allora, per comprendere appieno il messaggio, può essere utile ricostruire il contesto e le motivazioni nel quale si è creato in quanto questi elementi possono fornire maggiori indicazioni per una corretta decodifica.
Se al contrario si considera che, il libro, lo scritto viva di vita propria e sia soggetto solo alla fruizione del lettore che lo interpreta secondo i suoi stati d’animo, la sua cultura individuale e sociale, il suo senso estetico allora, il cercare di ricostruirne la genesi, diviene solo un, più o meno, interessante sfoggio di erudizione che nulla aggiunge allo scritto e alla sua interpretazione.
Interpretazione che necessariamente si richiama al problema della natura polisemica del testo.
Nel 1962 Umberto Eco, influenzato dalla “semiosi illimitata” di Peirce, definì l'opera d'arte (e quindi il testo letterario) come un'"opera aperta", ossia come una generatrice di interpretazioni (24).
Per quanto con il tempo e con l’avvento del decostruttivismo, Eco abbia ammorbidito questa sua posizione precisando entro quali limiti debba essere posta l’interpretazione e cioè nel limite della coerenza con il testo, tuttavia il terreno interpretativo rimane piuttosto ampio.
Terreno che viene limitato solo in modo negativo.
A un testo non si potrebbe far dire tutto ciò che si vuole: un testo può «significare molte cose, ma ci sono sensi che sarebbe azzardato suggerire», ossia c'è perlomeno qualcosa che il testo «non può effettivamente dire» (25).
Tuttavia queste considerazioni non mi convincono appieno
Da un lato perché rifacendomi alle considerazione di Foucault (26) sulle interpretazioni smascheranti, quelle cioè che in un testo e di un testo cercano il reale celato significato dietro ad altre interpretazioni fittizie e che richiedono il costante passaggio da una interpretazione all’altra, il rischio è quello che alla fine non vi sia nulla da interpretare e che l’intero processo ermeneutico si risolva in se stesso dimentico del testo originario.
Dall’altro lato perché considerando l’interpretazione così suggerita, in ultima istanza, si giunge ad una sostituzione dell’interprete all’autore che viene relegato, colpevolmente, in secondo piano, facendogli dire (e facendogli assumere la responsabilità di aver detto) ciò che neppure aveva accarezzato nelle sue cogitazioni più estreme e azzardate.
In questo senso mi sembra possa essere considerato anche lo stesso pensiero di Kafka.
Secondo Brod, infatti: «Con Kafka, naturalmente non si poteva mai parlare di interpretazione nemmeno nei momenti di massima intimità. Egli stesso interpretava nel senso che le interpretazioni avevano bisogno di nuove interpretazioni»(27) .
Personalmente, forse più ingenuamente di quanto fanno i teorici dell’interpretazione, credo che come nota Francesco D’Episcopo: «La letteratura nasca da una evidente esigenza di comunicazione» sia pur vincolata da una serie di codici istituzionali che ne hanno segnato profondamente i percorsi.
Comunicazione di un messaggio principale, di un pensiero.
Quando lo scrittore “si rifugia sulla luna” per scrivere se da un lato è vero cha non riesce totalmente ad estraniarsi dal mondo dall’altro crea qualcosa che influenzerà il mondo. Potrà farlo in misura modesta o maggiore a seconda della validità della sua opera ma, comunque, lo farà.
E’ il suo das sein nel mondo.
E’ probabile, se non certo, che lo scrittore (e in generale l’artista) desideri che ciò che “introduce” nel mondo, sotto forma di parola scritta, sia conforme al suo pensiero (del quali è, in fondo, anche responsabile).
Per non allontanarci da Kafka in questo senso mi torna in mente un altro racconto dell’autore praghese: Il messaggio imperiale.
«L’imperatore – così si dice - ha mandato a te, al singolo, all’umilissimo suddito, … proprio a te l’imperatore ha mandato un messaggio dal suo letto di morte» (28).
Per trasmetterlo è stato scelto un messaggero dotato di tutti i crismi e, come sottolinea Scaramuzza, «fisicamente e psicologicamente adeguato alla sua missione: è dotato di un corpo sano, adatto allo scopo» (29).
Tuttavia il messaggero è destinato a fallire il suo compito.
«Il suo cammino è oltremodo accidentato, forze enormi anche per lui gli si oppongono; difficoltà insuperabili gli si parano incessantemente davanti, nonostante i suoi poteri, la sua buona volontà, il suo buon diritto.
Il messaggio, sconosciuto fin dall’inizio nei suoi contenuti, resta indecifrato e incomunicabile» (30).
Come non vedere in questo racconto una “specie” di testamento di Kafka?
L’imperatore morente, simile a Kafka consapevole del suo pessimo stato di salute, l’affidare agli altri la sopravvivenza del proprio pensiero, il probabile (se non certo) fallimento, legato all’impossibilità fisica della sua trasmissione e/o della sua comprensione.
Come non riconoscere in questo racconto le paure che porteranno Kafka a chiedere a Brod di bruciare i manoscritti e di non far ripubblicare quelli già editati?
Nulla sopravvivrà all’Imperatore per quanto si sia sforzato di lasciare qualcosa.
(Sottilmente di nulla sarà responsabile l’Imperatore. Compreso di quell’ultimo messaggio che non sarà mai ricevuto. Così come Kafka non sarà mai responsabile di ciò che ha scritto e che, almeno ufficialmente, chiede sia distrutto perché non sopravviva al suo autore e alla sua intenzione).
L’impossibilità di comunicare non è poi che la declinazione della generale impossibilità dell’uomo di agire e di portare a compimento una qualsiasi azione tanto bene esemplificata dal racconto Il villaggio vicino.
«Mio nonno soleva dire: “La vita è incredibilmente breve. Oggi, nel ricordo, mi si accorcia a tal punto che a malapena, per esempio, riesco a concepire come un giovanotto possa decidere di recarsi a cavallo fino al villaggio vicino senza il timore che, a prescindere da accidenti sfortunati, il tempo stesso di una vita normale e serenamente vissuta sia di gran lunga inadeguato a tale viaggio».
Anche in questo caso si tratta di una suggestione, solo di una suggestione, di una delle tante vie percorribili (31).
Non necessariamente di quella corretta.
Il mio intento non è, infatti, quello di fornire (o almeno provare a fornire) l’unica interpretazione possibile.
Penso, infatti, che ognuno dovrebbe accostarsi a queste tematiche seguendo il proprio estro nella piena libertà individuale.
Questo considerando (anche) il momento della lettura come una attività che ognuno “possa” (si può, infatti, anche decidere di non leggere) fare svincolato da rigidi canoni estetici o interpretativi (a meno che non voglia lui stesso seguirli), ricordando, tuttavia, sempre il monito di Nietzsche che ho riportato all’inizio del presente lavoro: Meglio un qualsiasi senso, che l’assenza di senso.
NOTE AL TESTO
1. Gli scritti di Kafka sono citati dall’edizione italiana: Kafka, Newton Compton, Roma 2011.
F. Kafka Josefin la cantante, ovvero il popolo dei topi, in Kafka op. cit, p. 604.
2. Ivi, p. 605.
3. G. Baioni, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1997, p. 76.
4. Ivi, p.11.
5. In questo senso si veda, ad esempio: W. Emrich, Franz Kafka, Athenaion, Wiesbaden 1975 .
6. S. Belluzzo, Kafka e il silenzio della musica, in Materiali di estetica, CUEM, Milano maggio 1999, pp. 100-140
7. F. Kafka, Confessioni e Diari, Mondadori, Milano 1976², p. 233.
8. Ivi, p. 322.
9. Citazione tratta da M. Pasley, Scrittura e stesura del testo. Sulla genesi dei testi in Kafka, in E. Gini, Franz Kafka. Antologia critica, Led, Milano 1993, p. 66.
10. Nel caso di Kafka si ricordano, tra le altre, le opere di Max Brod, Kafka, Mondadori, Milano 1988, e Klaus Waghenbach: Franz Kafka. Biografia della giovinezza 1883-1912, Einaudi, Torino 1997.
11. C. Miglio, Note ai testi, in F. Kafka, Josefine la cantante, Donzelli, Roma 2000, p. 119.
12. C. Miglio, op. cit.
13. Puah Ben-Tovim incontrò Kafka attraverso la comune conoscenza con Hugo Bergmann. Hugo Bergmann, filosofo e sionista, era stato compagno di classe di Kafka dalle elementari fino alle scuole superiori.
14. Mi riferisco in particolare a: Hartmut Binder (soprattutto nei saggi Paul Eisners dreifaches Ghetto e Entlarvung einer Chimäre: Die deutsche Sprachinsel Prag) e Gary B. Cohen (in particolare lo studio Deutsche, Juden und Tschechen in Prag: das Sozialleben des Alltags, 1890-1914). Con le loro ricerche i due studiosi hanno “scardinato” gli stereotipi di “ghetto” e “isola” praghesi,
15. M. Ragazzi, Ricordare Praga e l’ombra del suo mito, in La giovane germanistica in Italia, Atti convegno di Pisa 2007.
16. E. Pavel, Literary footnote; Kafka's hebrew teacher, New York Times, 16-8-1981.
17. F. Kafka, Josefine, op. cit. p. 614.
18. Per un accostamento del popolo ebraico al popolo dei topi si veda invece: G. Scaramuzza, Deformazioni incrociate, CUEM, Milano 2002. Scaramuzza a sostegno del suo pensiero ricorda sia quanto affermato da Brod che vede rappresentata nel racconto «l’insostenibilità della situazione degli ebrei» e il loro tragico destino, sia l’accostamento fatto da Art Spiegelmann tra topi ed ebrei nel suo Maus?.
19. K.H. Fingerhut, Die Funktion der Tierfiguren im Werke Franz Kafkas, Bonn, 1969 p. 203.
20. Si rimanda alla nota 14
21. Sull’idea della fine come passaggio voglio ricordare quanto scritto da Kafka nei quaderni in Ottavo: « Il lato crudele della morte è che porta con sé il dolore reale della fine, ma non la fine stessa». (Kafka, op cit. p. 822),
22. Tra gli amici di Kafka che si trasferirono in Palestina ricordo Max Brod che nel 1939 vi andò (portando in salvo con sé le opere di Kafka), vi si stabilì e diresse il Teatro di Stato (teatro Habimah di Tel Aviv). Simile fu il destino di Felix Weltsch, amico di Kafka che lasciò Praga assieme a Brod. E’ noto che anche Kafka pensò di trasferirvisi superando le difficoltà di lasciare Praga. Anche per questo si impegnò nell’apprendimento della lingua.
23. Su questo fatto si rimanda a A. Lavagnetto, Note ai testi in F Kafka, La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Feltrinelli, Milano 1991.
24. U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani 1962.
25. U. Eco, I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani 1990, p. 9.
26. C. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, in Cahiers de Royaumont, Ed. Minuit, Parigi 1967, pp. 182-192.
27. Dichiarazione di Max Brod riportata in G. Baioni, Kafka. Romanza e parabola, Milano 1962.
28. F. Kafka, Il messaggio imperiale, in Kafka, op. cit. p. 580.
29. G. Scaramuzza, Deformazioni incrociate, op. cit p. 44.
30. ibidem
31. J. M. Gagnebin riferendosi a questo racconto sostiene sia «la plus perfaite narration contemporaine de l’imposibbilité de narrer». (in J. M. Gagnebin, Historie et narration chez Walter Benjamin, Parigi 1994.). Personalmente ritengo si tratti della narrazione non dell’impossibilità di narrare ma, dell’impossibilità di comunicare.
A cura di Maurizio Canauz
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