Il Medico Siciliano e le sue molteplici sfaccettature: il barbiere, l’erbaiuolo, il Ciáraulo.
Il culto di San Paolo e le sue virtù terapeutiche raccontate in una lettera di S. A. Guastella al Pitrè.
Non c’è guarigione se non si passa all’azione concreta. La praxis (pragmaticità della cura) si rese da sempre l’elemento distintivo del fare del popolo, nel rimediare ai suoi problemi. Di qui la guarigione concepita come momento catartico, di liberazione dal virus, nell’accezione letterale del termine, ossia ‘veleno’, che fuoriusciva dal corpo del malato, che ne era affetto, pervaso e afflitto, appunto.
Ricollegarci al rapporto simbiotico medico-paziente è di fondamentale importanza per comprendere -e quindi giustificare- la credulità del paziente vulnerabile, il quale protendeva verso l’abbandono totale alla cura, anche in virtù della dimensione onirica della e nella realtà patologica. Realtà che non era razionale, in quello ‘status’ di malattia, laddove i comportamenti umani erano motivati e mossi da forze inconsce che spiegherebbero l’attecchire, soprattutto in un mondo, quello dei secoli scorsi, ancora non pervaso dalla moderna esasperazione del progresso, di forme superstiziose di ogni genere. Ciò che accomuna le culture primitive è la forza della Parola associata a quella delle Immagini.
Esiste tutto un vocabolario simbolico che rende cose, immagini, saperi, abitudini apparentemente normali e tipici della quotidianità di ciascuno di noi, speciali. Strumenti di cura indispensabili e ‘magici’ grazie ai quali, ad esempio, si praticava la purificazione con l’ abluzione (lavaggio del corpo o di una sua parte -con un’acqua resa speciale- a scopi terapeutici), il trasferimento del male dal malato alla terra o ad un animale (allontanandolo quindi da sé), corroborati da amuleti e oggetti ‘pregnanti’ che fungevano da protezione.
In Sardegna tutto ruotava attorno alla figura femminile: sa mèigadora, ad esempio, era una donna ‘speciale’, perché nata in giorni ‘forti’ per il calendario cristiano, o perché chiamata Maria, o perché la terza di tre sorelle, capace di apportare guarigione mediante sa mèiga (la cura appunto) e detentrice di un patrimonio di conoscenze segreto lasciato in eredità ad un’altrettanta figura femminile, alla mezzanotte del 31 dicembre. Invece colei che, secondo il popolo, accompagnava naturalmente il destino infelice di un malato al suo compimento, era detta s’accabadora, ‘colei che pone fine’, appunto. Ciò spiega come, in una società agropastorale ‘ipnotizzata’ dal carisma di simili figure, giammai si sarebbe potuto giudicare assassinio l’atto di una guaritrice mossa da una pietas tutta cristiana nel porre fine ad un patimento.
Pitrè, dal canto suo, ci conferma che tra il popolo siciliano tutti manifestavano la tendenza a volersi improvvisare un po’ medici, anche di sé stessi, offrendo sempre un consiglio su come curare questa o quella malattia e risultando, paradossalmente, più credibili e attendibili dei medici, le cui prescrizioni venivano frequentemente messe in dubbio.
Se un malato guariva, infatti, il merito era della protezione di un santo. Se invece moriva, la colpa era del medico verso cui non si riponeva alcuna fiducia.
Ed è questo il tappeto sociale, contesto socio-culturale su cui vennero a crearsi delle figure ‘alternative’ di chi era deputato, più d’altri, alla cura delle malattie. I principi in virtù dei quali alcune persone venivano fregiate di tali prerogative e capacità erano i più svariati.
In Sicilia, già l’appartenere a famiglie note e importanti, insigniva di un’autorità e autorevolezza che donava grande credibilità a queste figure, presso il popolino.
Secondo la mentalità siciliana il vero medico doveva essere vecchio, il farmacista ricco e il barbiere (chirurgo) giovane.
Il barbiere collaborava con il medico, che aveva il potere decisionale riguardo ai particolari interventi da eseguire; egli si occupava della maggior parte degli atti pratici come i salassi, essendo specializzato nella cosiddetta ‘’bassa chirurgia’’. Poiché tante erano le malattie causate dal sangue, “in tutte le affezioni dell’albero circolatorio, pulmonali e pleurali, nelle paure, nei dispiaceri, nella gravidanza il contadino cerca il salasso” (G. Pitrè - Medicina Popolare siciliana.), era quindi molto usuale e frequente ricorrere a tale metodo di cura che si serviva delle cummìa (lenza) legata al di sopra della vena. Allorquando non si potesse effettuare il salasso, si ricorreva alle mignatte, dette anche sancisuchi (sanguisughe), applicate in ogni parte del corpo. I morsi si lasciavano aperti per il necessario sgorgo del sangue e venivano poi medicati con l’olio d’oliva e comprimendovi sopra fave sbucciate. Cadevano, staccandosi da sole, solo se piene di sangue. Era detto popolare, infatti, che “la sancisuga nun cadi s’ ‘un si sazia”.
Ma anche per tutte quelle problematiche di cui non si sapeva fare una diagnosi precisa né tanto meno dare una cura efficace come ad esempio le fratture, ascessi, lussazioni e malattie veneree, il salasso era il rimedio più frequente.
Un’altra figura, altrettanto importante, era quella dell’ erbaiuolo che, ricorrendo ai suoi cataplasmi, tisane, decotti di malva, gramigna, infusi, vini medicinali, pomate, sciroppi e unguenti vari, riusciva a curare, rinfrescare e purificare il sangue di moltissime persone. La Malva Silvestris, ad esempio, era una pianta indispensabile e dalle mille proprietà emollienti ed espettoranti.
La credibilità dell’erbaiolo era di gran lunga più consistente e rinomata rispetto a quella del normale medico, di cui egli contestava spesso le prescrizioni fatte ai pazienti, che sostituiva con le sue, frutto della sua antica esperienza. Gli erbaioli erano depositari di un sapere, fatto di tante ‘ricette’ destinate a tante specialità. Polveri magiche di “attiramento’’ (per avvicinare, ad es, moglie e marito), polveri d’amore .. Era un’arte che si trasmetteva di padre in figlio, per infinite generazioni, vere e proprie dinastie di erbaioli che si tramandavano questi segreti. Nelle botteghe, immancabili le teche con le erbe medicinali essicate, raccolte in virtù della scrupolosa conoscenza dei rispettivi tempi balsamici di raccolta e, accanto, le immagini votive cui attribuire la guarigione. Delle piante si usavano tutte le parti: corteccia, foglie, fiori e radici.
Gli strumenti del loro mestiere erano certamente le cannate, ossia boccali di terracotta contenenti un liquido color fulvo; recipienti di rame, mestoli e stringituri, usati per separare e comprimere olii come quello di mandorla.
Al medico non si doveva nascondere niente, era il confessore, il confidente, e sebbene vi fossero un’infinità di malattie originate da cause ignote, misteriose e quindi soprannaturali era necessario condividerle con lui. Lo spavento, in primis. Generato da paura improvvisa e in siciliano detto scantu. Poteva provocare addirittura la febbre e la cui cura, si rifaceva al culto di San Vito. Anche la risipola aveva origini misteriose: era considerata alla stregua di uno spirito maligno e si attaccava al viso o a qualunque altra parte del corpo. E i rimedi usati erano scongiuri, con i quali la si persuadeva a lasciare la casa in cui era entrata. Malattia tanto temuta, da non essere neppure chiamata per nome, ma genericamente detta ‘brutta bestia’.
Ma quali erano le malattie più comunemente diffuse, contro le quali i medici del popolo si cimentavano?
Tra la gente siciliana si aveva certezza che la maggior parte delle malattie era provocata da irritazione e che la bocca fosse l’organo principale attraverso cui essa si manifestava. Reuma e nervi, l’aria che si inspira, tutte causa di epidemie vere e proprie. L’acidità causava malesseri allo stomaco. E anche la jettatura, era considerata una particolare patologia, dalle scarse possibilità di guarigione. E, come già detto, il cattivo sangue e gli umori in generale erano forieri di malesseri di varia natura. Osservati, studiati, esaminati, ‘letti’, davano quindi ‘responsi’ sulle possibili cause di una malattia.. Sangue, urina, sudore, starnuto, febbre erano quindi elementi di diagnosi tenuti in alta considerazione per elaborare poi una cura.
La puntura di una vespa veniva curata passando una lama sopra la ferita, il prurito e l’orticaria in generale cingendosi un cordone attorno alla vita, le malattie più varie e difficili da diagnosticare erano curate con salassi, e il fiore di fico d’india era utile per preparare un infuso che lenisse i dolori causati dai calcoli renali.
Vi erano famiglie che per il nome che portavano si credeva avessero speciali capacità taumaturgiche. Erano insignite di virtù ‘gratis’; ad esempio coloro i quali erano settimi figli, nati senza interruzione di femmine (chiamati Settimo, appunto), chi aveva valicato per due volte lo stretto di Messina il venerdi santo e chi nasceva la notte della conversione di San Paolo.
L’insieme di questo immenso patrimonio culturale ha ragion d’essere in virtù della pregevole e indispensabile opera di ricerca, raccolta e sistemazione degli usi, costumi, credenze, conoscenze e capacità del popolo siciliano, che il grande medico Giuseppe Pitrè ebbe modo di strutturare, organizzare e classificare sommamente. Il Maestro dei folkloristi italiani che, nel conservare i mores del suo popolo, si avvalse di importanti collaboratori, i quali gli fornivano materiali interessanti provenienti da ogni parte della Trinacria. Egli, animato da forte spirito critico, e mosso dalla sollecitudine di non voler alterare l’autenticità dei preziosi documenti su cui lavorava, cercò sempre di non perdere -nel processo di traduzione dal dialetto all’italiano- la veridicità della lingua e le immagini, sapori e significati che sapevano veicolare importanti realtà, e che trasudavano tradizione, appunto.
Ma il Pitrè non fu il solo a porsi queste problematiche: anche l’insigne antropologo, insieme letterato e poeta, barone Federico Amabile Guastella (1819-1899) diede il suo importante contributo in materia. Intraprese con il Pitrè un’interessantissima corrispondenza epistolare che durò ben 25 anni, attraverso la quale il Barone di Chiaramonte Gulfi trasmise al Pitrè testimonianze di usi e costumi di Modica e di tutta l’area iblea. Iniziò dai canti popolari, passando poi per i più svariati argomenti: proverbi, giochi infantili, meteorologia popolare, usi nuziali, superstizioni etc.. E l’approccio a questo materiale fu ben diverso rispetto a quello del Pitrè, così come diverse furono le loro personalità. I due studiosi, infatti, non si conobbero mai di persona, ma solamente attraverso il carteceo epistolare, rispettandosi, confrontandosi senza ‘mischiarsi’ mai. Mantenendo, ciascuno di essi, la propria individualità e autonomia di pensiero, e riuscendo nel contempo ad arricchirsi reciprocamente. Sostanziale differenza metodologica tra i due fu data dal convincimento, da parte del Guastella, che i canti popolari, ad esempio, avessero un’origine culta. Divergendo in ciò dall’amico folklorista che riteneva che i canti avessero origine da un poeta rustico e non certo da persone dotte.
Partendo da questo assunto, che considerava ‘culta’ l’origine di ogni prodotto ‘culturale’ del vulgus, il Guastella diede sempre un taglio ‘letterario’ alle sue opere, frutto di una collazione che partiva da un testo-base confrontato con altri testi di tradizione orale. E con un piglio tutto ‘filologico’, al fine di migliorarlo, ne mutava forme sintattiche, grammaticali ed espressive riducendole a vera lezione, a suo dire più consona all’indole plebea.
E il frutto di questo suo metodo di ricerca, che non tralasciava di ascoltare tutti, dall’umile plebeo all’artigiano e alla vecchia, focalizzava la sua attenzione proprio su quelle abitudini di vita e modi di pensare della gente più umile che erano l’espressione di quel ‘bello’ autentico e ancestrale che andò a cercare lungo il corso di tutti i suoi studi. E che tradusse in forma letteraria mescolando rappresentazione narrativa e saggio di costume.
Alla luce di questa Curiositas che caratterizzò i suoi lavori e le sue ricerche, di notevole interesse è una lettera, fra le numerose che inviò al Pitrè, datata Modica 22 luglio 1879 in cui il Guastella, in materia di medicina popolare, racconta al suo amico un’ interessante credenza legata al culto di San Paolo. E ci presenta un’altra figura di ‘guaritore’ che potremmo accostare a quelle succitate: il Ciáraulo.
E’ la tradizione orale a tramandarla, in tutto il meridione, e a farla sopravvivere. Si aveva convinzione che, quasi tutti coloro che nascevano nella notte del 25 di gennaio, data della conversione di San Paolo, possedessero delle qualità taumaturgiche donate loro dal santo. Essi riuscivano a guarire dai morsi di serpente o dalle ‘passiature’ (eritemi da contatto provocati da rettili o altri animali velenosi.). Al riguardo, così Egli scriveva: <<tale potere viene esercitato direttamente per intervento soprannaturale, scongiurato dalle preghiere e dalle grida di spavento [………..] ovvero indirettamente per l’intermedio di uomini privilegiati, detti volgarmente Ciárauli. (Lettere di S.A.Guastella a G.Pitrè, 1979).
E l’autore, addentrandosi nella descrizione di questa misteriosa e carismatica figura, la descrive come connotata anche fisicamente da queste particolari doti: incarnato scuro, rilievo pronunciato delle vene sotto la lingua, quasi a richiamare la figura di un ragno. Talora poteva avere la figura del ragno o di qualche rettile sull’avambraccio. E l’elemento principale di cura che utilizzava era la saliva; si credeva infatti che il suo sputo fosse talmente efficace da impedire la diffusione del veleno, introdotto dalla morsicatura del rettile o dell’insetto. Anche la mano del Ciáraulo poteva essere dotata di queste virtù. Il momento della cura era accompagnato da preghiere e segni incomunicabili agli altri, grazie ai quali il frizionamento della sua mano sulla parte malata e dolorante risultava così ulteriormente benefico ed efficace.
Secondo quanto il Pitrè e il Gustella attestano, questa è una leggenda che tutt’oggi viene tramandata a Palazzolo Acreide (SR) e a Solarino (SR) laddove il Santo viene venerato e rappresentato in tutte le icone con una spada attorno alla quale vi è attorcigliato un serpente.
E, a riprova dell’intrinseco sincretismo religioso quale elemento costitutivo della medicina popolare, si narra che l’origine di questa leggenda risalga ad un episodio descritto da San Luca negli Atti degli Apostoli in cui Paolo subì una morsicatura da una vipera, nell’isola di Malta, che – dinnanzi allo stupore degli astanti – non gli produsse alcuna conseguenza nefasta.
Certamente con il passare del tempo cultura e scolarizzazione hanno ridimensionato questi convincimenti, relegando il tutto a pura leggenda metropolitana e apportando un impoverimento di quella che era la accezione originaria del termine Ciáraulo, termine derivato dal greco “kerayles”, suonatore di tromba, o meglio, ‘colui che prima di ciarlare soleva convocare il popolo con la tromba’, passando da figura carismatica ammaliante e positiva, dotata di coraggio illimitato e capace di maneggiare vipere, rettili velenosi d’ogni sorta, guarendone i morsi e ricorrendo anche ai ciarmi (incantesimi e scongiuri) a mero ciarlatano ed imbonitore, un indovino premonitore di eventi nefasti.
Ci troviamo ancora una volta dinnanzi ad un amalgama di più elementi: religioso, superstizioso, fantastico e storico, tenuti insieme dalla capacità che l’uomo ha di conservare il proprio passato, mediante quel collante che è la memoria, benché inesorabilmente esposto all’usura del tempo e alle metamorfosi che ne conseguono.