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Poe: L’uomo della folla
di Maurizio Canauz
Pubblicato su SITO


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Poe: L’uomo della folla

I

Londra 1840 circa.
Una città tumultuosamente viva e in rapida espansione.
Una crescita iniziata già qualche decennio prima come testimonia William Wadsworth nel suo Book Seven del Preludio(1).
Il poeta mentre attraversa Londra descrive e sublima lo stupore provato per ciò che la città sta diventando. La meraviglia è lo stato d’animo prevalente che accompagna l’incedere di questo flâneur(2) antelitteram.
Incanto per come la città si sta trasformando e per ciò che osserva, che lo rende consapevole della crescita urbanistica ma anche di quella della popolazione.
«La osservavo da vicino giorno dopo giorno con piacere acuto e vivace […] […] la danza veloce di colori, luci e forme; il frastuono babelico; il flusso ininterrotto di uomini e oggetti in moto; per ore e ore il passeggio senza termine sempre su vie con sopra cielo e nuvole, la ricchezza, l’affaccendarsi e la fretta […].»(3)
Crescita costante che la porta a diventare, in breve, la più popolata città europea.
«Non tanto “libro di pietra” (Victor Hugo) Londra è piuttosto un grande palcoscenico —” masquerade”, “pantomimic scene”, “exhibition”, “walking pageant”,“raree-show”, “mimic sight”, “parade”— ove lo sguardo incontra la qualità intrinsecamente spettacolare della città, il suo essere intrattenimento infinito. Scene curiose e “strane” si susseguono e si accavallano, e strane (straniere) sono le facce che il poeta- flâneur comincia a mettere a fuoco.(4)
«La Londra vittoriana, dove la ricchezza delle abitazioni ancora si misura dal numero delle finestre e una larga parte della popolazione di umile estrazione lavora, mangia e dorme per strada, è una città tutta orientata verso i suoi esterni, caratterizzata da un’intensa “vita di strada”, sia tradizionale (mercati rionali, fiere, sagre) che proiettata sulle nuove forme di intrattenimento di massa, organizzate in spazi dedicati e dislocate in aree suburbane.»(5)
Proprio da questa moltitudine di personaggi è attratto, nel racconto di Poe un uomo, al termine della sua convalescenza (stato di mezzo preferito dai sognatori, dagli osservatori e dai flâneur a metà strada tra la veglia e il sonno) che se ne sta seduto, un po’ prima della metà del XIX secolo, in un caffè del centro cittadino.
Un uomo il cui principale passatempo è rappresentato dall’osservazione dei passanti che transitano sul marciapiede e che, in un suo gioco fisiognomico, cataloga a seconda dei loro tratti somatici, del loro incedere, della loro postura deducendone mestieri e posizioni sociali. Tra lui e il mondo solo un vetro che lo separa (e lo protegge) dalla metropoli.
«Dapprima, le mie osservazioni assunsero un colorito astratto, di fina e generale analisi. Osservai questi passanti muoversi nelle masse, e il mio pensiero non li considerava che nei loro rapporti collettivi. Nondimeno, in breve, trassi dei particolari, ed esaminai con minuzioso interesse le varietà innumeri delle figure, gli abiti, l’incesso, le telette, l’aria, i visi, l’espressione delle fisonomie, insomma.»(6) 
Lo sguardo dell’uomo si sofferma su commessi, uomini d’affari, giocatori di professione finché la sua attenzione è attratta da un uomo vecchio magro e di bassa statura del quale non riesce a comprendere né la posizione sociale o lavorativa, né il carattere.
Per questo incuriosito e terrorizzato decide di seguirlo per avere altre informazioni.
«Quale strana storia, dissi a me stesso, è scritta in quel petto! — E allora mi colse un desiderio febbrile di non perdere più di vista quell’uomo, — di conoscere quanto più potessi di lui. In tutta fretta m’infilai il soprabito, e, preso il cappello e il bastone da passeggio, mi lanciai nella via, affrettandomi ad attraversare la folla nella direzione ch’io gli aveva veduto prendere, poiché egli mi era già sfuggito di vista.»(7) 
I due, in un inseguimento senza sosta, vagano per la città e capita più volte che si ritrovino negli stessi luoghi già percorsi.
«Attraversò e riattraversò replicatamente la via, senza scopo, manifesto; e qui la folla era sì fitta ch’io era sempre obbligato a stargli vicino.»(8) 
Nel suo vagare l’uomo non sembra mai accorgersi del suo inseguitore, non tanto perché questi sia abile nel pedinamento ma perché non vi presta nessuna attenzione, come se sia immerso in un “Universo parallelo”.
L’unico fatto certo è che l’uomo non voglia tornare a casa per nessuna ragione e che il suo unico scopo sia quello di ricercare per le vie di Londra, anche quando cala la notte, qualcuno con cui confondersi con cui scacciare la sua solitudine.
Non gli fanno differenza gli altri, i compagni di viaggio possono essere, infatti, santi o malfattori, uomini dabbene o ladri, l’unico suo desiderio è quello di stare in mezzo alla folla.
Infine il protagonista, stanco di quel pedinamento, decide di affrontare l’anziano ma l’uomo non lo desta, con sua grande sorpresa, di nessuna attenzione, quasi sia trasparente alla sua vista.
«E quando le ombre della giornata, cominciarono lentamente a distendersi, mi sentii quasi annientato per mortale angoscia: — ci pensai, mi decisi, e infine piantatomi imperterrito innanzi l’uomo errante, gli sbarrai profondamente gli occhi sopra. Ma egli non si accorse del mio atto e calmo e solenne proseguì la sua corsa.»(9)
A questo punto il protagonista si rende conto che è inutile continuare a seguirlo. Di quell’uomo non avrebbe saputo altro se non che non poteva vivere al di fuori dalla folla. Era un vero e proprio “animale sociale” incapace di affrontare la solitudine.
A ben vedere L’uomo della folla non è uno dei tipici racconti dell’orrore o del fantastico di Poe, ove i terrori della psiche si materializzano nella presenza di spettri e situazioni che sconvolgono improvvisamente la plausibilità del reale.
In questo caso si tratta della descrizione di una città maligna e misteriosa che sovrasta e annienta l’individuo. La Londra di Poe, quella che l’uomo del caffè osserva curioso, rimane sempre in bilico tra realtà e letteratura(10).
Non è, dunque, il solo frutto dell’osservazione di Poe ma è una rivisitazione anche di scritti precedenti che offrono all’autore statunitense diversi spunti.
Mi riferisco, soprattutto, ad alcuni scritti di John Gay che aveva ironicamente definito “arte” il camminare per le insidiose vie di Londra, Wadsworth del quale si è già scritto(11), Defoe(12) e soprattutto Dickens i cui «Sketches by Boz offrono inoltre un’accurata descrizione della stratificazione sociale della città(13).
Gli Sketches dickensiani sono frutto della combinazione di una osservazione della realtà di tipo giornalistico e fiction, prodotto della sua abilità creativa. Dapprima pubblicati singolarmente nei quotidiani, vennero raccolti nel 1836 in due volumi che contenevano circa 56 piccole rappresentazioni di scene e persone, tratte dalla sua osservazione di Londra in molti dei suoi aspetti, tra cui alcuni meno manifesti e facili da individuare. Dickens, che firmò la sua opera con lo pseudonimo “Boz”, realizzò questi scritti abbozzando personaggi di ogni cultura o gruppo sociale, cogliendone non solo i tratti distintivi ma, persino, i differenti accenti.
Il risultato voluto e in parte raggiunto attraverso i suoi sketches era quello di consentire ai lettori non solo di “vedere” Londra, ma anche di “ascoltarne” le voci. Come scrive Sara Podda: «L’opera, dunque, si sviluppava su tre dimensioni: visiva, vocale e narrativa.»(14)
Poe nel suo breve racconto mostra alcuni personaggi che popolano il nuovo contesto sociale apparentemente senza moralismi ed esaltando lo studio fisiognomico convinto, attraverso di esso, di poter collocare ogni soggetto in un ruolo sociale. Paradossalmente è proprio il soggetto più massificato, colui il quale vive solo tra la folla, “l’animale sociale per eccellenza” a sfuggire alla sua classificazione.
Dallo scritto, mi pare, possa derivare una domanda: chi è il vero indagatore sociale? L’osservatore che scruta i suoi simili o il vecchio che si aggira per la città fiutandone odori, umori alla ricerca, tra le sue pieghe e il suo rapido sviluppo, di segni di un mondo che sta trasformandosi e forse svanendo? Forse a questo quesito non c’è risposta e forse, proprio per questo, l’osservatore, al contempo preda e cacciatore, rinuncia alla sua caccia.
«Egli è l’uomo della folla. Vano il tenergli dietro, che né ora, né mai io potrei saperne di più di quanto ora so, e di lui e delle sue azioni. — Sì, lo ripeto: il peggior cuore del mondo è un libro più schifoso dell’Hortulus animæ, e forse è una delle grandi misericordie di Dio che: Es læsst sich nicht lesen, - cioè, che non si lasci leggere»14. Il racconto si conclude con la ripresa letterale della proposizione «“es lässt sich nicht lesen”» già enunciata nella prima frase del testo, forse per «ripropone con grande enfasi la centralità del discorso sui limiti dell’interpretazione, riportando circolarmente il racconto al punto da cui era iniziato.»(15) 
Poe non vuole con questo prendere una posizione filosofica sull’affermazione di Nietzsche «che «non vi siano fatti ma solo interpretazioni», quanto affermare, forse a malincuore, che anche l’osservatore più attento e motivato, non può penetrare in tutti gli aspetti della vita e che ci sarà sempre un particolare, un aspetto, un uomo che non si svelerà mai completamente a lui. Il mistero sulla sua identità rimane tale: le ipotesi più varie possono essere avanzate (assassino, delinquente, evaso), ma anche persona normale, ma in realtà l’osservatore e i lettori con lui non riescono ad andare oltre alla conclusione: he is the man of the crowd. Qualche commentatore si è spinto oltre e ha cercato una risposta, provando a dare un’identità all’uomo della folla, per quanto essa appaia improbabile a causa dei pochi elementi che emergono dalla narrazione di Poe, mentre qualcun altro ha cercato di dare un’interpretazione all’intero racconto.
Tra le altre può essere interessante ricordare quella data da Cagliero secondo cui, non senza un certo ardimentoso sforzo di immaginazione, il libro che non può essere letto arriva a non essere altri che Dio(16).
Diversa è la riflessione fatta da Grunes secondo cui «La conclusione a cui giunge il narratore, che l’uomo deve essere un mostruoso criminale, è pateticamente autorivelatrice. La storia di Poe è tragica, non accusatoria: insieme, o piuttosto, separati per sempre, il narratore e il vecchio drammatizza il fallimento del fraterno mito romantico, l’impossibilità per i fratelli di ricongiungersi».(17) 
L’individuo, forse più semplicemente, ha sopravvalutato la sua capacità di osservazione o ha mostrato l’incapacità di comprendere un mondo che, come quello della Londra del tempo, sta rapidamente cambiando così come i suoi abitanti portatori di nuovi interessi e (dis) valori, sconosciuti all’osservatore per cui, di fatto, incomprensibili.

(II)

Il racconto di Poe, per quanto breve, può essere spunto (e lo è già stato) per molteplici riflessioni.
Tra queste voglio sottolinearne due che mi paiono particolarmente interessanti: il modo di osservare e scrutare la realtà dell’uomo del caffè e l’interesse per la folla.
Partiamo dalla prima. Per quasi la prima metà del racconto Poe si concentra sull’uomo del caffè e sul suo modo di osservare i passanti.
«Dapprima, le mie osservazioni assunsero un colorito astratto, di fina e generale analisi. Osservavo i passanti a masse, e il mio pensiero non li considerava che nei loro rapporti collettivi. Nondimeno, in breve, trassi alcuni particolari, ed esaminai con minuzioso interesse le varietà innumeri delle figure, gli abiti, l’incesso, le telette, l’aria, i visi, l’espressione delle fisonomie, insomma»(18).
Procede quindi con un’osservazione che va dal generale allo specifico quasi si potesse, man mano, sempre più scendere a fondo, penetrare, affinando lo sguardo, nell’animo umano riconoscendone i tratti a partire dai lineamenti e dalle movenze esterne.
Questo modo di operare diverrà, poco tempo dopo, il tratto caratteristico di un personaggio successivo di Poe: Auguste Dupin.
Dupin è considerato il primo detective della storia letteraria e appare in The Murders in the Rue Morgue, pubblicato nel 1841 sul Graham’s Magazine. Dupin, comune cittadino appassionato di enigmi, riesce a spiegare, grazie alle sue eccezionali doti di osservatore, un caso di omicidio ritenuto irrisolvibile dalla polizia. Viene così proposto per la prima volta il modello di “racconto a enigma”, che si risolve attraverso un’indagine pensata come esercizio intellettuale di osservazione e ragionamento. La detective story che viene creata pone il lettore nelle stesse condizioni del detective, inizialmente all’oscuro di come si sono svolti i fatti e attraverso le sue osservazioni e i suoi acuti ragionamenti viene condotto, per mano, alla soluzione del caso.
Tale modello è stato in seguito utilizzato per una serie di personaggi come ad esempio quelli di Sherlock Holmes, Hercule Poirot o Nero Wolf.
Sherlock Holmes ha proprio tra le sue precipue caratteristiche, che ne hanno determinato il longevo e importante successo, la sua sviluppata capacità di osservazione, che gli permette di risolvere anche i misteri più intricati, raggiungendo rapidamente risultati positivi nelle indagini superiori a quelli di qualsiasi altro poliziotto o investigatore.
Vediamone brevemente il procedimento raccontato da lui stesso: «Il filo del ragionamento è stato questo: ecco un signore che ha il tipo del medico ma l’aria di un militare. Quindi, un medico militare. È appena arrivato dai Tropici poiché è abbronzato, e quello non è il colore naturale della sua pelle; infatti, i polsi sono chiari. Ha attraversato un periodo di stenti e di malattia, come rivela chiaramente il viso teso e stanco. Ha una ferita al braccio sinistro. Lo tiene in modo rigido e innaturale. In quale zona dei Tropici un medico militare inglese può aver passato tante traversie e riportato una ferita al braccio? Ovviamente in Afghanistan. Questa sequenza di pensieri è durata meno di un secondo. Le dissi quindi che lei proveniva dall’Afghanistan, e ne restò sbalordito»(19).
Il brano è tratto da Uno studio in rosso e rappresenta il momento in cui Sherlock Holmes spiega al nuovo amico e coinquilino John Watson come ha fatto a capire così tante cose di lui dopo averlo visto solo di sfuggita. Si tratta della prima volta in cui Holmes, nel corso delle sue numerose avventure, dimostrerà a Watson e agli altri presenti le sue capacità deduttive.
Le stesse capacità deduttive di Dupin e di quelle, sia pur minori, mostrate dall’osservatore del caffè, che da pochi particolari giunge a dedurre diversi aspetti della vita e delle occupazioni dei passanti.
Un ulteriore somiglianza tra il narratore del racconto, l’osservatore - narratore e Dupin è il rapporto con la folla. Proprio la folla è il secondo tema che voglio approfondire.
In entrambi i casi, Dupin e l’osservatore – narratore, vi è una separazione tra l’osservatore e la folla. Nel racconto questa separazione è rappresentata, anche materialmente, dal vetro del caffè. Separazione che crea una situazione di isolamento accompagnato da un atteggiamento che, nel caso di Dupin, lambisce i contorni di un aristocratico solipsismo.
Dupin in realtà sembra rendersi interprete di un sentimento di diffidenza nei confronti delle masse urbanizzate del tutto simile a quello con cui lo stesso Poe guardava ai paradossi più evidenti del processo di livellamento degli strati borghesi.
Tuttavia è innegabile, che l’interesse per la folla, non sia unicamente di Poe ma riguarda diversi autori dell’epoca.
Comune a questi scrittori è l’attenzione per questa massa di persone che si muove all’interno della città e che diviene fonte di ispirazione letteraria.
Questi “cantori del moderno” hanno spesso trattato questo agglomerato di persone in modo originale e determinante, superando di gran lunga il concetto tradizionale di folla come massa informe che funge da sfondo storico, sociale o coloristico all’azione.
Tipica in questo senso è l’idea di Manzoni che la considera un «miscuglio accidentale di uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo», prestandosi a fare la storia, o a farsi guidare in questa funzione, senza esserne sempre del tutto coscienti.
La folla acquista ora una connotazione più precisa e soprattutto una maggiore attenzione tant’è che spesso questi scrittori la fanno osservare ai loro personaggi, proprio come avviene nel racconto di Poe. Personaggi che, alcune volte, entrano a contatto con la stessa folla, mentre, in altri casi, ne rimangono all’esterno come, semplici spettatori.
In questi casi l’individuo che osserva si contrappone alla moltitudine ritagliandosi un ruolo di indagatore, quasi fosse un etnobiologo.
L’interesse per la tematica urbana e le sue componenti fondamentali, si ritrova evidente, ad esempio, in autori quali Dostoevskij e Hoffmann.
Per quanto riguarda Hoffmann l’osservazione della folla è presente, negli scritti: La finestra d’’angolo del cugino e Il cavaliere Gluck. Memorie dell’anno 1809.
Proprio quest’ultimo racconto musical - fantastico inizia con una descrizione della folla.
«Il fine dell’estate ha sovente bellissimi giorni in Berlino. Il sole passa gioiosamente attraverso alle nubi, e l’aria umida, che si spande sulle strade della città, leggermente svapora sotto ai suoi raggi. Allora si vedono lunghe file di gente che passeggia, una strana unione di giovani eleganti, di buoni borghesi colle loro mogli e coi loro figli vestiti da festa, di sacerdoti, di ebrei, di meretrici, di professori, di ufficiali e di ballerini passa sotto i viali di tigli e si dirige verso il giardino botanico. Bentosto tutte le tavole sono assediate presso Klaus e Weber; il caffè di radicchio fuma in piramidi a spira, i giovani accendono le loro pipe, si parla, si disputa sulla guerra o sulla pace, sulla calzatura di madama Bethmann, sull’ultimo trattato di commercio, e sul ribasso delle monete, sinché tutte le discussioni si perdano nei primi accordi di un’arietta di Fanchon, con cui un’arpa scordata, due violini screpolati, ed un clarinetto asmatico vengono a tormentare i loro uditori e sé stessi.»(20)
Nell’aria tiepida di Berlino la massa gaudente si riversa per le strade per oziare e parlare di nulla, con il sottofondo di una musica d’accatto.
Una folla variegata composta da personaggi appartenenti a diverse estrazioni sociali che tuttavia si livellano in quell’andirivieni pigro e apparentemente senza scopo. Uniforme, però, solo per chi non riesce a interpretarla.
Ma la folla può però essere letta ed interpretata come viene esplicitato ne La finestra d’angolo del cugino. In questo racconto del prosatore tedesco, il punto di osservazione è posto a Berlino, in una casa d’angolo, che si affaccia su un’affollata e multicolore piazza del mercato. Il piccolo e modesto alloggio in cui risiede il protagonista è una tipica residenza da artista: «piccolo e basso, ma a un piano piuttosto alto, come va di moda fra scrittori e poeti.»(21)
Il cugino è costretto all’immobilità da una malattia e il suo unico passatempo consiste nell’osservare la folla dalla finestra, dall’alto della sua stanza. Un giorno riceve la visita del narratore a cui illustra la propria attività quotidiana di osservatore. Ma ciò non basta, infatti, cerca, coinvolgendolo sempre più, di far capire all’ospite in che cosa consista lo studio della folla: «ma questa finestra è la mia consolazione, per essa la vita multicolore e varia mi si è di nuovo dischiusa ed io mi sento riconciliato col suo incessante turbinio.»(22)
Il cugino diviene allora la guida che insegna al narratore come si possa scrutare tra la folla per trovarvi «i principii dell’arte di guardare»(23).
«Tu in quel mercato non sai scorgere altro che un variegato, frastornante brulicare di gente affaccendata in attività insignificanti. Oh, oh, amico mio: io invece vedo svolgersi in esso le più svariate scene di vita borghese.»(24)
Con il nuovo sguardo folla e merce, la finestra si affaccia infatti sul mercato(25), acquisiscono nuovi e inaspettati significati
Per osservare meglio la folla il cugino usa il cannocchiale che gli permette di isolare i particolari dalla visione panoramica d’insieme. La massa informe recupera così le individualità che inizialmente si erano confuse come in chiazza di colori,
La narrazione, si allontanerà poi dall’osservazione per cedere il passo a un dialogo fra i due protagonisti, entrambi controfigure dell’autore, che mettono in scena una interessante riflessione sulla visione e sulla molteplicità dei significati che può avere una stessa immagine.
Partendo dalla realtà cosiddetta oggettiva che osservano dalla loro finestra, passano poi alle immagini che questa realtà evoca, ai ricordi che emergono alla loro mente, fino ad arrivare alle pure fantasie che la vista della piazza produce in loro.
La folla tornerà alla fine del racconto di cui forma in un certo senso la cornice.
Ma la folla non è presente e non attrae l’attenzione degli scrittori solo a Londra o a Berlino, ma anche nella Russia di Dostoevskij.
In realtà a ben vedere un approccio interessante tra Dostoevskij e la folla avviene nella Londra descritta da Poe. Anche Dostoevskij, infatti, sarà colpito, venti anni più tardi, dalla stessa folla che attraversa la capitale britannica dipingendola (in chiave negativa) nelle sue Note invernali su impressioni estive del 1863.
Non è certo che Dostoevskij conoscesse L’uomo della folla di Poe.
Come ricorda Gian Piero Piretto(26), secondo alcuni studiosi come Maria Vidnas non l’avrebbe letto mentre Joan Delaney-Grossman(27) «nel suo fondamentale contributo su Poe in Russia, uscito pochi anni dopo l’articolo della Vidnas, riporta invece che The Man of the Crowd era stato tradotto e pubblicato in Russia nel 1857, quattro anni prima che Dostoevskij manifestasse il proprio apprezzamento per Poe nell’articolo a lui dedicato, dove per altro non faceva esplicito riferimento a questo racconto»(28).
Comunque sia, la folla londinese per Dostoevskij è descritta con raccapriccio, tanto da diventare un argomento per criticare la modernità occidentale. Lo scrittore russo prova una forte repulsione per la moltitudine rumorosa e informe accresciuta a dismisura per partecipare all’esposizione universale presso il Crystal Palace.
L’atteggiamento di Dostoevskij verso la folla sarà sempre duplice: di repulsione, soprattutto in quanto livellatrice dell’individualità, ma anche di attrazione in quanto rassicurante per chi ne entra a far parte.
La stessa ambiguità si ritroverà nei suoi personaggi.
«È duplice l’atteggiamento dei personaggi dostoevskiani nei confronti della folla, pur avendo una matrice comune nell’attrazione morbosa e malsana che questa, prima o poi, esercita su di loro: da un lato il desiderio di adeguarcisi e di confondercisi, dall’altro di ignorarla e attraversarla, restando ben consci della propria individualità. Vi si può leggere sia il rifiuto della realtà (la realtà di una città come Pietroburgo), l’allontanamento dalla concretezza della vita e il rifugio nella fantasia, che la condanna di questo stesso comportamento come peccato.»(29)
Un esempio può essere trovato nel personaggio di Goljadkin de Il sosia, che nella folla della prospettiva Nevskij cerca da un lato la convinzione di essere come gli altri, dall’altro è spaventato da quella folla tanto è vero che è il suo doppio a trovarsi sempre e ostentatamente a proprio agio fra la gente(30).
In Dostoevskij tuttavia, a differenza di Poe, vi è un aristocratico distacco che supera la curiosità per penetrare in quell’apparente indistinta massa di persone per scoprirne le individualità e le storie riconoscibili nella fisionomia, nella postura o nell’abbigliamento.
È il caso, ad esempio, di Raskol’nikov in Delitto e castigo che attraversa la piazza e i luoghi circostanti, riconoscendone gli spazi, ma senza mettere a fuoco nulla. La solitudine, la separazione da tutto e da tutti sarà il solo risultato.
Sia pur con sfumature diverse e con intenti differenti in tutti questi autori vi è quindi l’attenzione per questo nuovo fenomeno che è cresciuto a dismisura nelle città sempre più popolose.
Un agglomerato apparentemente indistinto e perennemente in movimento di persone che si spostano nei nuovi ed immensi centri urbani come branchi di pesci nel mare. Attenzione che viene spesso vissuta con gli occhi indagatori dello scienziato che mantiene un distacco tra soggetto osservante e oggetto osservato frapponendo tra i loro personaggi e la massa spesso un vetro, una finestra che impedisce la contaminazione.
Si sta preparando, attraverso la letteratura, quell’osservazione che assumerà una rilevanza psicologica e sociologica con il saggio Le psicologie della folla di Gustav Le Bon che fu il primo psicologo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, cercando di identificarne i caratteri peculiari e proponendo tecniche adatte per guidarle e controllarle.
Allo stesso tempo, però, l’interesse e la paura per il potere massificante della folla porta questi scrittori, superando una prima aristocratica repulsione, a cercare di penetrarla per recuperare l’osservazione dell’individuo.
Viene così introdotto un ragionamento di tipo logico deduttivo che anticipa, in qualche modo, sia la letteratura poliziesca sia, più indirettamente, la fisiognomica lombrosiana con il suo rigido determinismo attraverso il quale le manifestazioni delle condotte, soprattutto quelle anomale sono, indipendentemente dall’atto di scelta volontaria e cosciente, direttamente da deviazioni della struttura fisica osservabili nell’uomo.
Proprio Poe appare essere un precursore di questo metodo deduttivo e deterministico per quanto dovrà ammettere che non tutto può essere compreso e che forse è meglio così.
«Sì, lo ripeto: il peggior cuore del mondo è un libro più schifoso dell’Hortulus animæ, e forse è una delle grandi misericordie di Dio che: Es læsst sich nicht lesen, - cioè, che non si lasci leggere».

NOTE
1. W. Wordsworth, The Prelude, Oxford University Press, London 1960
2. Sulla figura del flâneur si rimanda a: E. Coco, Pensare la città. Lo sguardo dei flâneurs, Bollettino della Associazione Italiana di Cartografia 2017 (160); M. Canauz, Viaggiando per la città nel Tempo e nello Spazio: il Flâneur, Stanzaunozerouno, dicembre 2019. https://stanzaunozerouno.wordpress.com/.
3. W. Wordsworth, The Prelude, op. cit.
4. R. Bonadei, Londra capitale del moderno. Lo spettacolo infinito, in Prospero’s Rivista online, pubblicato online il: 12 dicembre 2011 https://prosperos.unibg.it
5. Ibidem
6. E. A. Poe, L’uomo della folla, in Racconti straordinari, Facchi, Milano 1920, da dove saranno tratte anche le successive citazioni.
7. Ibidem
8. Ibidem
9. Ibidem
10. Come noto, Poe abitò a Londra dal 1827 al 1830. Ma si pensi ai Murders in the Rue Morgue, dove la descrizione di Parigi è dedotta da testi letterari, in quanto lo scrittore non l’aveva mai visto la città di persona.
11. W. Wordsworth, The Prelude, op. cit.
12. D. Defoe, A Journal of the Plague Year, Oxford, Blackwell, 1928.
13. C. Dickens, Sketches by Boz, Wildside Pr, 2008. La citazione è tratta da: F. Castigliano, Il Detective e l’uomo della folla: il doppio volto del flâneur in The Man of the Crowd di Edgar Allan Poe, in (a cura di) G. Sertoli, C. V. Marengo, C. Lombardi Comparatistica e intertestualità studi in onore di Franco Marenco, Tomo II Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010.
14. S. Podda, TESI DI LAUREA, Little Dorrit di Dickens e The Great Fire of London di Ackroyd: modelli, risonanze e transtestualità, Università di Pisa, Anno Accademico 2013-2014.
15. E. A. Poe, L’uomo della folla, op. cit.
16. U. Rubeo, Tra alienazione e mercato: la città moderna secondo Edgar Allan Poe, in Fictions Studi sulla narratività, METROPOLI ORDINE CASO, (a cura di Rosy Colombo), Serra, Roma – Pisa 2007.
17. R. Cagliero L’uomo della folla: Poe e la città, in: La citta. 1830-1930. Atti del seminario interdisciplinare (Genova 2-3 maggio 1988), a cura di G. Cianci e M. R. Cifarelli, Genova, Schena Editore, 1988, pp. 23-39.
18. D. Grunes, Fraterna’ Hopes Dashed: Poe’s The Man of the Crowd. — College Language Association Journal III (1982) p. 25.
19. A. Conan Doyle, Uno studio in Rosso, Mondadori, Milano 2016.
20. Ibidem
21. E. T. A. Hoffmann, Il cavaliere Gluck. Un ricordo dell’anno 1809, in Il vaso d’oro: Pezzi di fantasia alla maniera di Callot, Einaudi, Torino 1995.
22. E. T. A. Hoffmann, La finestra d’angolo del cugino, Marsilio, Padova 2008.
23. Ibidem
24. Ibidem
25. Hoffmann abitò dal 1807 al 1808 a Berlino in Friedrichsstrassc (che in qualche modo rappresentò ne il Il cavaliere Gluck) e dal 1815 visse nella Taubenstrasse, di fronte al teatro (che ispirò, La finestra d’angolo del cugino).
26. G. P. Piretto, Gli uomini della folla di Dostoevskij, senza dimenticare Hoffmann e Poe, in EUROPA ORIENTALIS 12 (1993).
27. J. Delaney- Grossman, Edgar Allan Poe in Russia. A Study in Legend and Influence, Wtirzburg 1973.
28. G. P. Piretto, Gli uomini della folla di Dostoevskij, senza dimenticare Hoffmann e Poe, op. cit.
29. Ibidem
30. Come sarà per il Poprykin gogoliano (Diario di un pazzo, 1848), questi vuole dimostrare a sé stesso dì essere come gli altri e i suoi affanni, il suo moto perpetuo e caotico in giro per Pietroburgo, mirano sostanzialmente a questo risultato.

A cura di Maurizio Canauz



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