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La storia alimentare di Porto San Giorgio, tra folklore, letteratura e testimonianze Di Edoardo Mistretta
di Edoardo Mistretta
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La storia alimentare di Porto San Giorgio, tra folklore, letteratura e testimonianze Di Edoardo Mistretta

Nella zona dell’Adriatico centrale l’alimentazione della popolazione costiera negli ultimi trecento anni è cambiata radicalmente, passando da una dieta principalmente basata sul pesce a una dieta più ricca di carboidrati e pollame. Allo stesso tempo gli abitanti delle zone interne, collinari e appenniniche hanno avuto maggiori opportunità di consumare il pesce dell’Adriatico.

Ciò è quello che avvenne anche per quanto concerne il Porto di Fermo (Porto San Giorgio). Questo contributo indaga infatti proprio questo lembo di territorio.

Per poter approfondire ed entrare nel merito delle società costiere come ci ricorda Maria Lucia De Nicolò bisogna porre un’ulteriore attenzione sulle trasformazioni ambientali e territoriali del litorale adriatico. Lungo la fascia costiera di Marche e Romagna si verificò un avanzamento della linea di costa dovuto non solo a cambiamenti climatici “ma soprattutto ai depositi fluviali di limo e ghiaia derivati dal dilavamento dei terreni a causa di massicci disboscamenti effettuati per conquistare nuove aree da destinare all’agricoltura”. Le fasce costiere originate dall’arretramento del battente del mare, variamente denominate (albaioni, staggi, relitti o rilasci del mare, renacci), per natura sterili, prefigurandosi come terre di nessuno e sfuggendo, almeno sul nascere, al controllo delle autorità di governo, si prestano però a pratiche di sfruttamento che animano un’economia di sussistenza, con frequentazioni favorite dalla natura giuridica dei suoli, contrassegnata dal perdurare nel tempo di usi civici consentiti ab immemorabili.”

Ciò apre la strada ad una irreversibile opera di bonifica dei territori sabbiosi, che avrà il suo definitivo compimento nel XIX secolo, sia dal punto di vista agricolo attraverso la tecnica delle colmate (Le colmate avvennero attraverso tecniche di imbrigliamento dei corsi d’acqua superficiali, di formazione di canali di smistamento e di deposito di inerti, limi e terra nei terreni dei relitti di mare, per poi destinarli alla agricoltura), sia per la caccia dell’avifauna migratoria sia per una libera frequentazione dei pascoli fino a pratiche di raccolta di legna. Inoltre l’attività estrattiva di pietra e ghiaia lungo le rive alimenta un intenso traffico commerciale marittimo, si pensi ad esempio alle cave di Focara nel Pesarese.

La crescita di una particolare società costiera che non pratica più l’attività della pesca con il solo scopo della sussistenza personale, ma che ha come presupposto l’avvio dì un’economia legata alla produzione ittica, ha inizio intorno agli ultimi decenni del cinquecento e raggiunge un importante sviluppo nei secoli a seguire. Queste società sono il risultato dell’incontro tra gruppi forestieri professionali e gruppi autoctoni appartenenti ad ambiti geograficamente determinati: i primi già esperti delle arti marittime.

In pochissimi decenni a partire dalla fine del ‘500 si identifica una nuova classe di lavoratori del mare impegnata inizialmente in attività costituite dall’insieme di pesca e traffico marittimo costiero mediante l’utilizzo di piccole imbarcazioni.

È proprio così che dalla seconda metà del ‘500, nel litorale riminese, pesarese e fermano, le strategie di sfruttamento dell’ambiente portano ad un mutamento di quelle società costiere legate alla pesca come mezzo di sussistenza personale. “Il contatto con pescatori veneti e dalmati, richiamati ad esercitare la pesca lungo la costa occidentale dell’Adriatico con migrazioni stagionali” soprattutto nelle zone di porto, fornite quindi di case, botteghe, e di servizi stabili per i forestieri, come è appunto il Porto di Fermo, conduce a una contaminazione socio culturale, determinante nel processo di cambiamento, sia dal punto di vista dei saperi di natura culturale sia dal punto di vista tecnologico; ciò vale a dire delle tecniche di pesca fino ad allora rudimentali e non focalizzate sul commercio del pescato. Si ha di conseguenza l’evolversi e l’accrescersi dei quartieri di porto o borghi di marina.

Si incrementa tuttavia la diffidenza delle città capoluogo nei confronti di queste società marinare percepite come qualcosa che potesse alterare lo statu quo del centro delle città visto il contatto con il forestiero, a cui si aggiunge parallelamente quella nei confronti del mestiere del pescatore, facente parte del ceto marginale rappresentato molto spesso con termini disonorevoli, dove la disonestà e la malizia venivano collegate al lavoro svolto visto come razzia delle risorse marine, vale a dire lo sfruttamento delle risorse marine attraverso inganni e predazioni (fraus, dolus , furtum pelagi).

D’altro canto però già nel medioevo in alcune aree geografiche e ancor di più in età moderna, vista la crescita esponenziale delle attività alieutiche con metodi di pesca distruttivi e fortemente predatori conseguente all’espansione dell’economia intorno a questa risorsa, è proprio la voce dei pescatori stessi che si fa sentire, intenzionati a mantenere prelievi controllati a difesa delle risorse ittiche e dell’economia locale. Si potrebbe sostenere che il forte rapporto con l’ambiente e la conoscenza del ciclo biologico, dovuta ad un’esperienza millenaria, abbia indirizzato all’educazione di una pesca che oggi potremmo definire ‘sostenibile’ attraverso comportamenti attenti a garantire la conservazione nel tempo di una risorsa preziosa per le comunità proprio perché esauribile.

In questo contesto è perciò inevitabile porre la nostra attenzione sulle tecniche di pesca adottate nel corso dei secoli e per entrare nel merito è bene capire come un fenomeno già iniziato in età bizantina, ovvero il passaggio del nome della rete al tipo navale abbia poi condizionato maggiormente l’età moderna. I termini più importanti furono i Bragozzi (Baragozzi, Bragocci) nelle aree venete e le Tartane di origine provenzale. Se con il termine Bragozzo nel chioggitano viene ad intendersi un tipo particolare di rete, con questo termine nella seconda metà del ‘500 possiamo intendere l’intero apparato pescatorio della pesca a Bragoccio, formato dalla rete e dalle due barche che eseguivano la manovra di pesca. Col passare del tempo fino all’età contemporanea il termine verrà utilizzato soltanto per indicare il tipo di barca. Lo stesso fenomeno si può d’altronde notare con la Tartana, dove il termine fin dal trecento viene applicato alle omonime reti di origine provenzale con cui veniva effettuata la pesca a strascico. Questi termini dunque che rappresentano una denominazione di tipi di imbarcazioni “tradiscono un origine comune: la rete da pesca.” Prima di continuare e approfondire le tecniche di pesca adottate da queste imbarcazioni è bene ricordare che le così dette ‘acque esterne’ ovvero le acque di mare “ricominciano ad essere oggetto di pesca solo nel XIV secolo, poiché dalla caduta dell’impero romano si erano perse le capacità tecniche per poter effettuare fruttuosamente la pesca in mare.”

Inoltre la forte influenza della religione cristiana sull’alimentazione popolare con l’introduzione dei giorni di magro e quindi l’astinenza dalla carne ha fortemente influenzato il commercio e il consumo di pesce.

Fra le prime tecniche utilizzare nel territorio del fermano abbiamo quelle denominate di aggiramento che si servono di “rezze e rezzole”: reti più o meno grandi poste alla deriva vicino alla costa ed immerse verticalmente. Nelle fitte maglie di filo sottile si intrappolava il pesce che si recava alla costa per deporvi le uova; altre reti erano poste in punti strategici di obbligato passaggio del pesce. Una versione attuale di questo sistema viene denominato “pesca con le retine” ed è ancora utilizzato nella piccola pesca del litorale marchigiano.

 

Diffusa in tutto il litorale marchigiano ritroviamo la tratta (denominazione veneta) o sciabica (denominazione marchigiana), più veloce e redditizia dell’antica pesca a pelago fatta con gli ami. La tratta è una rete con cui si pesca nel lido del mare, ed ha due capi, o sia due corde, una delle quali rimane sempre nel lido, e l’altra mediante un barchettino si porta entro il mare, e facendo un circolo tornasi a riportare al lido medesimo dopo disteso, o sia calata la rete, all’estremità di cui trovasi legata, e con queste due corde si riduce tratto tratto la detta rete in esso lido, da che viene denominata.
Si ha inoltre notizia di questo tipo di pesca di aggiramento attraverso questo particolare strumento in uso nel porto di Fermo chiamato per l’appunto ‘trattolina’ dove è possibile trovarne descrizione in un atto del 1734 del notaio Gaspare Bonanni dove si affermava che: 
“In tempo delli nostri antenati vi era una trattolina o sia rete da pesca di lunghezza di braccia 100 circa, propria della città di Fermo, con la quale trattolina si pescava in mare il pesce e quello che con la medesima si prendeva, si portava tutto in città, e per non soggiacere la detta città ll’incertezza della pescagione, e spese per il mantenimento della medesima trattolina, si afittava or da uno or da altro di questo paese.”

Se prima le tecniche di pesca erano delimitate alle acque costiere descrivendole come arti sedentarie, poiché si basano sugli ami e sulle reti,  nel corso dei secoli a partire dalla seconda metà del ‘500 l’impresa di pesca diventerà più complessa e redditizia con una maggiore organizzazione sia in mare che a terra, arrivando a quelle arti che potremmo definire mobili, fondate sul sistema dello strascico, ovvero “un indiscriminata raccolta di tutto ciò che è posato sul fondo del mare o che si colloca nel raggio d’azione delle reti.”
Con l’introduzione di Bragozzi e Tartane possiamo notare come la pesca a strascico, già criticata nelle zone costiere tanto da portare ad editti che la vietavano durante determinati periodi dell’anno, grazie all’utilizzo di barche più grandi si sposta ad una pesca d’altura, fino ad allora effettuata soltanto con tecniche tradizionali, che dal punto di vista economico erano poco redditizie,  quale la pesca a pelago (ovvero con ami), destinata quasi esclusivamente  all’  approvvigionamento alimentare di mercati locali con la cattura del cosiddetto pesce “bestiale” o “selvatico” (come si legge negli statuti di Recanati), ovvero razze (tomacci, mucose), palombi ecc., classificati nella normativa statutaria come pisce pelagenses.
La pesca col ‘bragoccio’, era un antesignano della pesca a coppia, dove la rete denominata appunto bragozzo o successivamente tartana, veniva trainata da “due imbarcazioni, una grande e l’altra più piccola, detta gondola, che tendevano la rete” e procedevano appaiate. Si documenta nel secondo ‘500 che queste però raramente si allargassero verso la pesca d’altura. Difatti bisognerà attendere gli inizi del secondo decennio del ‘600 dove l’influenza delle Tartane provenzali, “natanti monoalbero attrezzati con vela latina” avviano la pesca a strascico d’altura aprendo la strada anche ad un nuovo modo di intendere l’economia e il commercio del pesce che si vedrà culminare con l’introduzione delle paranze.

 

“Abbiamo sentito dire dai nostri antenati che qui nel porto di Fermo vi era una trattolina, non essendovi in quel tempo alcuna barca pescareccia. Tempo dopo si principiò da persone del medesimo paese a fabbricare qualche piccola barca, e così a poco a poco sono sempre cresciute le barche pescareccie a segno tale che nel tempo presente vi sono venti barche pescareccie ben grandi.”

È questo ciò che si legge nello stesso atto notarile dell’1734 le imbarcazioni a cui si faceva riferimento sono proprio le tartane, “legno vigoroso, pesante e grave, comprendeva normalmente da sei a dodici uomini di equipaggio. Fornito di più vele, cioè la vela latina e bompresso nello stesso albero e altre vele minori, teneva bene il mare in burrasca e pescava isolatamente. I più grandi, tartanoni, stazzavano oltre le 40 tonnellate, quelli di minor mole, mezze tartane e trabaccoli, circa 35 tonnellate.” 
 A conferma della presenza delle tartane nel fermano troviamo un bando del 1611 “ove il vicegovernatore di Fermo, Tiberio Cenci, aveva severamente vietato ai «piscatori» del porto di «andare a pescare con le tartane» per tutto il periodo incluso tra “le calende di maggio” e la fine di ottobre.” 
Le tecniche di pesca sono culminate però proprio intorno al 1700 “quando si diffuse in tutto l’Adriatico a partire dalla Puglia la tecnica della pesca con le paranze e della pesca detta ‘alla gaetana”.
Le paranze erano imbarcazioni piccole, allungate e molto leggere, e rispetto alle tartane risultavano anche meno costose.” 
Queste portavano a indiscutibili benefici allungando per altro la stagione a differenza delle più rudimentali e tradizionali imbarcazioni, anche nei mesi invernali, poiché più manovrabili e leggere, in grado quindi di affrontare il mare in qualsiasi situazione; sono state tuttavia inizialmente soggette di ostracismi da parte dello stato con l’emanazione di editti e bandi per limitarne la pesca poiché si riteneva che:

“La pesca di paranza non sceglie i prodotti utili e maturi per l’alimentazione umana; ma toglie e riunisce quanto vi ha di massa viva o morta in grembo al mare. Zooiti, crostacei, molluschi, insieme le ova e lo allevime del pesce novello, e insieme i fuchi e le alghe, i frantumi degli scogli ed i resti dei naufragi, il tutto impastato delle arene del fondo si trova raccolto nel immenso sacco, che disteso dalla zavorra raccolta da una parte, e dalle funi tesate dal vento dall’altra, chiude siffattamente le maglie sue che nemmen l’acqua ne sfugge, non ostante l’ampiezza su rimarcata.”
Difatti inizialmente la pesca con le paranze risultò distruttiva e bestiale poiché la rete a strascico e la poca distanza dalla costa con cui pescavano non davano il giusto tempo al novellame di riprodursi, fu così che dopo determinate e attente analisi fu proprio da Roma con Editto di Pio VI, che notava carenza nel pescato di disporre delle regole ben precise:

 
“Dallo stesso giorno della Pasqua di Resurrezione insino al dì 15 di Ottobre di ciascun anno è proibito ad ogni sorta di legni pescarecci tanto accoppiati, che sciolti, i quali facciano uso di reti di trascino, e segnatamente alle Paranze, di far pescar in mare entro lo spazio di tre miglia d’acqua, computata tale distanza da ogni specie diversa di spiaggia, sia essa punta, seno, o costa.”

Lo stesso rapporto sulle paranze continua:

“Ora in ragione dei passi d’acqua che si ritrovano, diminuendo il numero delle immature vittime sacrificate dallo strascico della gomena peschereccia della paranza, chiaro apparisce avere con moltissima previsione i nostri legislatori presa la distanza alla quale la pesca possa effettuarsi. Crediamo quindi necessario di consigliare che non solo a 30, ma sebbene a 50 passi d’acqua (m.81), debba ogni rete di paranza essere calumata. Tale distanza, anche col tempo grosso, non toglie ai paranzellari la vista della riviera, assicura verso terra il tranquillo sviluppo dello allevime, e può facilmente conoscersi ed apprezzarsi dai pescatori, ed essere sopravvenuta al bisogno dagli ufficiali dei porti e dei legni guardacoste. Ad oggi potremmo definirla una prohibitio piscationis in piena sintonia con la scienza moderna, si tratta di una forte attenzione ambientale nei confronti dello ‘sforzo di pesca’ volto a garantire la conservazione della risorsa ittica ed economica nel tempo, che tuttavia continuava ad assicurare una rendita sempre crescente allo stato e un buono e sano cibo nei mercati cittadini.
“Ora per quanto riguarda il sud della Marca l’adozione di questa nuova tecnica di pesca non fu frutto di una scelta imprenditoriale, ma il risultato di una situazione economica che garantiva redditi e occupazioni,” tanto che nell’abitato sangiorgese è possibile notare l’incremento della popolazione residente che dall’inizio del ‘700 contava circa 1200 abitanti ed è aumentata a circa 4500 abitanti alla fine dell’ 800.
Per ottimizzare il commercio del pescato  si erano sempre affiancate tecniche di conservazione come la salagione, l’affumicatura, le marinate, pesce bollito, fritto, arrosto o in gelatina, anche se nel territorio marchigiano la diffusione del pesce conservato non ebbe mai grande diffusione per svariati motivi, in primis si preferiva il pesce fresco e si riteneva che un uso continuativo del pesce conservato fosse nocivo alla salute; inoltre enormi quantità di pesce conservato arrivano al porto di Ancona provenienti dai paesi nordici ad un prezzo davvero competitivo rispetto alla produzione in loco e in più la scarsezza del sale e le rigide regolamentazioni su di esso ne limitavano la produzione. Tuttavia la crescente domanda di pesce fresco vede affiancare le nuove tecniche di pesca ad una nuova tecnica di conservazione del pescato che ha come protagonista un uso massiccio del ghiaccio e “indicativo della diffusione di questa nuova tecnica di conservazione è il sorgere di numerose ‘neviere’ in luoghi poco distanti dalla costa. A Fermo erano presenti ben cinque neviere e una di queste apparteneva ai marchesi Azzolino”. Ciò comportava di conseguenza un nuovo modo di conservare gli alimenti che ha contribuito ad un incremento delle possibilità di conservare il pesce fresco, dello stoccaggio e della rete logistica di distribuzione. Di conseguenza si verificò una forte espansione economica della pesca e importanti cambiamenti nelle abitudini alimentari dei diversi ceti sociali.

 

La situazione economica fra Porto San Giorgio e Fermo è alquanto particolare e ricolma di rivalità, a chiarire questo aspetto risulta molto interessante un editto del 1695 del governatore generale di Fermo:
“Considerandosi sempre più l’audacia de Pescatori habitanti al Porto di San Giorgio di non voler introdurre in questa Città di Fermo il Pesce, come ordina lo Statuto, di andare a prender Portoin altri Luoghi anco fuori del nostro Stato, ordiniamo a tutti li pescatori, padroni di barche da pesca, garzoni et altri che hanno interesse in tal barche che non habbiano ordine di andare a sbarcare il pesce in altro Luogo e Riviera anco di questo nostro Stato sotto pena di scudi 200, tre tratti di corda darseli in Publico, ed altre pene a nostro arbitrio, anco contro quelli che havranno parte et interesse nelle dette Barche pescareccie detti volgarmente parcenevoli.”(BCF, ms. 715, c. 116r.)
  

L’interesse della città di Fermo di accaparrarsi tutto il pescato risulta subito evidente, impedendo ai p escatori la possibilità di un libero mercato e guadagni altrove. Essi furono così costretti a portare tutto il pescato a Fermo, vista la volontà della città di accaparrarsi il pesce migliore “a tutto ciò si aggiungeva che l’arcivescovo e i governatori della città esigevano il pesce a un prezzo stracciato. Così esasperati da tale situazione, i marinai si rivolsero direttamente alle autorità centrali di Roma.”   (R. Renzi, La regolamentazione del commercio ittico tra la città di Fermo e il Porto dal 16. al 18. secolo, pp. 131-143)

In seguito a provvedimenti nei confronti dell’Arcivescovo da parte delle autorità si stabilirono delle restrizioni per quest’ultimo, che però non concorde con tali provvedimenti si appellò all’antico diritto della decima concernente anche la pesca e fu così che il cardinale Giuseppe Firrao favorevole a tale ricorso dovette riconoscere gli antichi diritti della mensa arcivescovile.

 

 

Figura 1.

Quindi possiamo notare come la pesca che nel territorio era stata sempre un’attività di sussistenza ed integrazione delle società costiere diventa oggetto di attenzione da parte delle autorità interessate a garantire la disponibilità del prodotto ittico, soprattutto in occasione di ricorrenze e festività religiose, con norme, dazi e gabelle sul pescato che gravavano sul settore. 
È possibile avere un quadro generale del pescato nel litorale marchigiano, con particolare attenzione alla Città di Fermo, grazie al tariffario del pesce del 1736 (Figura 1) dove si ha una chiara descrizione delle specie di pesce allora in commercio. 
Appartenenti alla famiglia dei Gobidi, nel gergo comune di Porto San Giorgio, per quanto riguarda la lista del pesce di scarso valore economico, possiamo assegnare alla categoria di ghiozzo comune il termine ‘Buatto’, mentre il termine ‘villani’ rientra nella categoria di Ghiozzi rasposi; nella categoria dei ghiazzetti minuti buatti piccoli o mugnitti. Questo tipo di pesce tra cui anche le busbane, termine molto diffuso nel sangiorgese che indica a detta dei pescatori, “un pesce di carne bianca, buona, ma poco prelibata e di poco valore” rientrava infatti nella lista dei pesci cosiddetti inferiori e appartenevano all’alimentazione comune e popolare, tanto da discenderne un detto degli abitanti sangiorgesi: “La busbana e lu villà è boni tra pasqua e carnevà”.  
In una tariffa fermana del 1738, tra i pesci del ‘minuzzame’ ritroviamo anche la scarpina (scarpegna), conosciuta meglio sotto il nome di scorfano, con la quale i pescatori sangiorgesi erano soliti fare ‘li brodutti’.
In altri tariffari tra cui quello di Urbino è possibile risalire invece  alla denominazione di Konkola , concola, (vongola, chamelea gallina) ed ad un altro tipo di mollusco, la “tillina” che è un tipo di vongola più  piccola e bianca, dal sapore intenso che a Porto San Giorgio si trovano sulla riva. 

“La stagionalità di queste specie ittiche, da ricercarsi soprattutto in autunno-inverno, rispecchia esattamente il calendario venatorio e culinario dettato dalla tradizione popolare, che ha tramandato, fino all’odierno, le avvertenze dei pescatori di non consumare questi molluschi nei mesi senza la lettera R, cioè da maggio ad agosto, appunto nel periodo riproduttivo” 
La vongola ha un ruolo molto importante nella mensa popolare delle classi meno abbienti, grazie ad una attività piscatoria di antica tradizione, ad una abbondante presenza nel litorale sabbioso del Sud  delle Marche e quindi al bassissimo costo. Ne sono testimonianza i numerosi ricettari presenti dal Veneto fino alla Puglia a partire dalla seconda metà del ‘400. La dieta dei ceti popolari era infatti caratterizzata da una certa frugalità, dalla ricerca di ingredienti poveri, ma non per questo privi di gradevolezza. Tuttavia, vongole e telline entrarono a far parte anche delle mense aristocratiche, con

diversi metodi di cottura e di condimento. Vongole e telline venivano raccolte fin da tempi immemorabili direttamente con le mani, data la bassa profondità del litorale, dalla gente del luogo non necessariamente pescatori (uomini e donne). La pesca delle concole avveniva anche con un rudimentale strumento, composto da un palo di legno con in fondo una cesta di ferro dalle fitte pareti di rete metallica aperta da un lato, che veniva trascinata a mano. Successivamente lo strumento veniva caricato in una barca con tre persone che si allontana poco dalla riva e getta l’ancora, si getta poi il palo che raschia il fondo per il breve tratto permesso dalla distanza della corda legata all’ancora tirando a sé vongole e sabbia che viene lavata dal movimento dell’acqua. Il pescato viene tirato a bordo e rovesciato sulla barca. Inizia così un incremento nella produzione di molluschi bivalvi e della relativa commercializzazione, che si estende anche alle zone dell’entroterra, trasportata da carri e buoi, da biciclette e successivamente dagli automezzi. È un lavoro faticoso fintanto che si è svolto con le braccia dei pescatori. La pesca delle vongole ha avuto un fortissimo incremento con l’avvento della motorizzazione fino all’attuale sistema delle turbosoffianti, che tuttavia producono un pesante problema ambientale, provocando la desertificazione dei fondali di questa parte dell’Adriatico. Dalla prima metà del ‘900 si ebbe un’importante postazione di pesca delle vongole a Cupramarittima che è durato fino ai giorni nostri. 

Le barche hanno aumentato la stazza via via fino a raggiungere le 12 tonnellate, e il pescato ha permesso una occupazione stabile e molto redditizia con una progressiva espansione del mercato a livello nazionale e internazionale.
I folpi invece sono dei molluschi anche detti moscardini, invece i roscioli solo le famose triglie citate sia nel ‘Cuoco marchigiano’ che nell’Artusi, che ritroviamo appunto sia nel pesce ordinario che in quello nobile a seconda delle dimensioni. Le triglie dell’Adriatico, si legge, preferibilmente si mangiano d’agosto, settembre, fino alla metà di ottobre, arrosto e in umido con altri pesci e sopra l’agro di limone, mentre per preparare roscioli alla cacciatora occorre altro. Servono buon vino, salvia e presciutto e fuoco sotto e sopra, cotti e mangiati subito. Anche quest’ultima pietanza coincide in parte con la ricetta per Triglie in umido  raccolta nel volumetto anonimo Il cuoco delle Marche, dove si legge:
“Dopo lavate bene e mondate, le triglie si asciugano con un panno bianco; si mette entro il fondo di un testo uno strato di prosciutto grasso e magro o anche di fette di lonza unite a fronde di salvia, sopra ciò si pongono le triglie con un poco di sale e si fanno cuocere con fuoco sopra e sotto, allorché avranno preso un bel colore vi si versa un poco di vino generoso, e cotte che siano si servono calde.”
Questa stessa ricetta è recepita e riproposta da Pellegrino Artusi che, a proposito delle Triglie col prosciutto afferma: “Le triglie più grosse sono quelle di scoglio; ma per cucinarle in questa maniera possono servire triglie di mezzana grandezza che nella regione adriatica chiamasi rossioli o barboni”
D’altro grande interesse risultano i  “Tariffari de prezzi de pesci salati ed affumati” (2 marzo 1805) 321

messa in atto dalla municipalità di Rimini, le derrate di provenienza nordeuropea e atlantica sono rappresentate dallo stoccafisso (bagnato e asciutto), dal baccalà (“spaccato bagnato” e asciutto)”

A Fermo “invece il 30 dicembre 1802, risulta essere un tariffario gabellare recante titolo «Tariffa De Generi gabellati della città di Fermo per […] Comunitative regolata su quanto si prescrive dalla Santità di Nostro Signore Papa Pio VII nel suo Motu proprio non meno, che nei successivi ordini della sagra Congregazione del Buon Governo approvata per decreto di visita dal Sig. Abbate Riginaldo Angeli Delegato dell’Emo Busca». 

Nel presente documento sono riportati i prezzi di baccalà e stoccafisso, «Baccalà, e Stoccafisso alla libra (quattrino mezzo)». È interessante notare che le due pietanze qui hanno lo stesso prezzo, mentre solitamente lo stoccafisso era più costoso del baccalà”, dimostrazione che nel secolo ci fu incremento del consumo del pesce sotto sale e di come un tipo di pesce, quello conservato, destinato ai ceti meno abbienti compare addirittura in alcuni tariffati sotto la voce di pesce nobile, una contaminazione e integrazione fra cultura popolare e cultura d’élite.

Un periodo di grande fermento si ebbe nella città intorno alla fine dell’800 quando si intensifica l’attività volta alla commercializzazione con l’introduzione di “Traboccoli”, “grandi barche a vela da pesca o da trasporto, e altre attività di supporto alla pesca, con due alberi” , “Questo sistema prevedeva che i trabaccoli rimanessero nella zona di pesca per lunghi periodi, 17-19 giorni, con qualsiasi condizione di mare, mentre il collegamento con la riva per lo sbarco del pesce, i rifornimenti

alimentari e di cordame e i turni dei marinai era garantito da imbarcazioni più piccole.” I lavoratori addetti alla spola tra la riva e i traboccoli, per lo sbarco del pescato venivano chiamati barzocchi. Questo sistema di pesca venne poi velocizzato con gli investimenti sulla motorizzazione. Altro aspetto di rilievo risulta essere la liberalizzazione del mercato, che dopo l’unità di Italia torna completamente nelle mani dei padroni delle barche e degli armatori: “paroni”, a dimostrazione di un’evoluzione sociale di notevole importanza per quanto riguarda l’aspetto economico e commerciale. Poco dopo cresce di importanza la figura del pescatore e si formano le prime cooperazioni intorno a tale figura. 

Il novecento è un periodo tra alti e bassi a causa della prima e della seconda guerra mondiale che rallentano e riavviano il processo di motorizzazione con l’abbandono delle paranze e l’introduzione delle lancette che permettevano la pesca così chiamata a “scacciatella” che sfruttava la situazione climatica delle ‘brezze’ della valle dell’Ete, che soffiavano dalla mezzanotte alle nove del mattino. Questa tecnica interessava particolarmente la pesca delle piccole triglie e delle seppioline. Le barche a vela vengono piano piano affiancate e poi sostituite dai motopescherecci. “Dapprima si cercherà di motorizzare le barche esistenti, combinando la vela con il motore, successivamente, intorno alla fine degli anni ’30 del ‘900, si vedranno nuove imbarcazioni a propulsione con il solo motore”.

Con l’introduzione di questi nuovi motopescherecci, che appartengono direttamente al pescatore, la pesca è sicuramente molto più ricca e abbondante e si riserva all’interno delle imbarcazioni, una quota parte del pescato, la “muccigna”, che veniva suddivisa in parti differenti a seconda del ruolo delle figure presenti sull’imbarcazione divenendo cosi un incremento del reddito familiare.
E’ possibile notare come l’alimentazione sia cambiata nel tempo, attraverso la crescita del consumo di pesce nel territorio marchigiano in modo proporzionale alla crescita delle attività alieutiche legate al commercio del pescato. Se inizialmente il consumo di pesce era destinato soltanto alle popolazioni costiere che utilizzavano la pesca come mezzo di autoconsumo, dagli inizi del ‘600 vediamo l’accrescersi del consumo del pesce fin nelle città più interne; un esempio ne sono i tariffari di Urbino e Camerino. È desumibile, con ogni probabilità che, come sono cambiate le modalità di pesca e l’economia basata su questa risorsa, sono cambiate di pari passo le abitudini alimentari. Il pesce che veniva consumato inizialmente era un tipo di pesce, che ad oggi potremmo definire “povero”, poiché la pesca d’altura non era ancora diffusa, o per lo meno se lo era in alcune zone, le quantità raccolte non erano sufficienti per permettere una grande diffusione territoriale.
Con l’avvio di un’economia marittima ed un incremento del pescato e delle varietà destinate nelle tavole della popolazione possiamo notare una differenza notevole del pesce consumato nei diversi ceti sociali. Il consumo di pesce nobile era prerogativa delle tavole dei ceti più abbienti, per ragioni di differenza tariffaria e quindi la sua diffusione era prevalentemente urbana. Nel contado, invece, difficilmente riusciva ad arrivare, se non in quei giorni di quaresima e festività nella modalità di qualche pesce conservato sotto sale (Baccalà, acciughe, sardoncini). Nelle zone costiere, nel passato era consumato a scopo di sussistenza personale adottando  tecniche di pesca rudimentali e nel ‘700 era difficile ne era difficile il consumo, poiché doveva essere portato tutto in città; successivamente, con l’avvio dell’industrializzazione della pesca, il pesce  veniva consumato più regolarmente, ma era ciò che restava dalla ripartizione della muccigna, pesce povero che come abbiamo visto poteva diventare un’integrazione del reddito familiare, dando la possibilità di acquistare generi alimentari differenti quali carboidrati e pollame. 
Ne risulta di fondamentale testimonianza un’intervista redatta dallo scrivente alla signora Giovanna Iulitti, di famiglia marinara di Porto San Giorgio, che ci racconta un po’ come cambiano a sua memoria i paesaggi, le abitudini alimentari e il tipo di pesce che veniva pescato. 

D. “Quali sono i ricordi dei sapori, ma in generale i ricordi della sua infanzia?”

R. “Uscivamo alle 3 di notte e andavamo verso la riva con le biciclette ad aspettare il pescato del giorno che mio nonno e mio padre riportavano. Adesso ho un po’ di anni, ma ricordo ancora bene, che mio nonno veniva chiamato Barzocco, perché prendeva il pesce con la barchetta e poi lo riportava a riva poiché ancora non c'era il pontile, e lo lasciava a noi donne che poi andavamo a venderlo all'asta.

"Ahhh figlio mio, erano altri tempi!" Era uno spettacolo, una meraviglia per gli occhi, quando ti alzavi

perché gli uomini ritornavano dal mare, vedere il sorgere del sole, con tutti quei piccoli pescherecci che

portavano il pescato a riva, ti dico era un incanto, un incanto per gli occhi. Poi noi aspettavamo ansiose di vedere il pescato perché il prezzo lo faceva la quantità, più se ne prendeva e più poteva essere venduto ad un prezzo basso e di conseguenza più gente lo comprava.

Mi ricordo un signore che disse: «Andiamo li dalla frica (Espressione dialettale per bambina) che ce fa "sparagnà"» (risparmiare).

Pensavano che non fossi furba ma loro mica lo sapìa che ero la prima della classa in matematica

sull'avviamento, li conti li facevo a mente. Questo ricorda avveniva sempre prima del ‘60!

Le barchette comunque prendevano pesci come i cicinelli, che sono delle piccole triglie, li roscioli, li

vuatti (boatti), li grugnitti, l'arfaci e li sardò. Li vuatti ti dico ce li ho fino a quassù (indicando la gola).

Questa era la muccigna, il pesce povero ragazzo, era tutto uno sputa sputa però era pesce buono non

come quello di adesso. Mio nonno ricordo che gli arfaci, li appendeva su un filo e li faceva seccare, non del tutto però al calore del sole, poi li abbrustoliva velocemente a scotta dito, sulla brace; i forestieri ne andavano matti, ma questa era gente che aveva i soldi per mangiare il pesce.

Ah, la vuoi sapere un’altra cosa che era buonissima quando si prendevano? I cagnisitti, i granchi, "quelli pe fa lo sugo è una cosa incredibile". Poi c'era Pelacà che faceva la sciabica, un tipo di pesca da riva, dove si fa una specie di cerchio con la rete”.

D. “Ma poi dentro casa cosa mangiavate, come era l'alimentazione quotidiana?”

R. “Prima del ‘60, c'era il fiore (la farina), li ceci, le fave, l'erbe trovate, la cicerchia, agli, cipolle, patate, mele, la farina di mais, questo era grazie a mio padre che dava li sardò a un contadino e lui gli dava tutta questa grazia di Dio; poi c'avevamo le uova che facevano le galline che c'avevamo davanti casa. Avevo sei fratelli, eravamo sette figli di cui tre si sono dedicati alla cucina.”

Questa affermazione conferma e rende chiaro il detto locale: “Contadì e marinà fratelli carnà”.

“A volte avevamo il baccalà essiccato, e mia madre ci faceva il polentone, o lessava le fave o li ceci che

se vendevano sulla strada principale, ma prima li metteva in ammollo insieme con il baccalà, e poi dopo ci faceva un sughetto e ce lo metteva sopra. Ogni tanto mangiavamo anche li frascarelli, sennò si faceva la pasta a mano e quando si poteva si mettevano anche le uova.

Per fare i sughi di pesce non c'era l'olio chi te lo dava?! Mia madre comprava il lardo e li faceva.

Nei giorni di festa invece come Pasqua o Natale mangiavamo principalmente il sugo fatto con le interiora della gallina, poi si facevano gli gnocchi, mi ricordo che il sugo lo faceva cuocere sulla Rola (una stufa con la carbonella) vedi stava proprio lì (indicandomi la posizione dentro casa), poi faceva anche la gallina lessa e li filuncì de ciambellone che a volte le faceva senza zucchero perché era molto difficile da trovare, il giorno dopo però si mangiava pesce, seppie e i piselli che erano secchi e mettevamo a reidratare anche questi. Noi fortunatamente stavamo bene economicamente, ma questa era la via dei marinai e ci davamo una mano a vicenda, ci si aiutava.

Un'altra cosa quotidiana erano i brodetti che facevamo come d'altronde anche i sughi di pesce per

insaporire la pasta sempre con le conserve di pomodoro.

Dopo il ‘60 mi ricordo invece che il pescato è diventato molto più ricco, infatti mi ricordo che gli scampi e le mazzancolle che non mettevamo prima di allora nei brodetti perché non si trovavano, poi invece dopo il ‘60 abbiamo iniziato a metterli.

Mi ricordo anche che quando c'è stata la guerra era affondato in mare non lontano dalla costa un

peschereccio, ma solitamente non si andava a pescare lì in quella zona perché c'era il rischio di rompere le reti; mio marito un giorno è voluto andarci e si è riportato a casa un grosso san pietro e altri pesci.

Un giorno lo stesso ricordo perché è stato come un giorno di festa ha preso gli sgombri con la togna e ne ha riportati a riva più di 20kg. Ma non solo prese anche una Mugella (cefalo) da 7 kg, però era un cefalo buono quelli con l'orecchino giallo, gli altri non sono nulla di speciale, questi ragazzo sono i migliori, ricorda!”

 

Bibliografia

M. L. De Nicolò, Del mangiar pesce fresco, "salvato", "navigato" nel Mediterraneo : alimentazione, mercato, pesche ancestrali (secc. 14.-19.), Pesaro, Museo della Marineria ; Bologna : Università di Bologna. Dipartimento di beni culturali, 2019;

M. L. De Nicolò, Marineria pesarese in adriatico : mercanti, marinai, pescatori, Pesaro,  Fondazione Cassa di risparmio di Pesaro, 2005;

 AS Fermo, Scrittura sulla proibizione delle paranze cit., P. I, cap. 44, p. 25/B;

AS Fermo, Firmana Gabellae Piscium cit., fasc. a stampa n. 46 cit., riporta al n. 9 una attestazione legalizzata di Angelo Cesari, Gio. Vagnozzi ecc. del 22 luglio 1779;

AS Fermo, Firmana Gabellae Piscium cit., fasc. a stampa n. 6, “S.C.B.R., Malvasia ponente irmana gabellae piscium pro Ill.ma Communitate Civitatis Firmi, Summarium, Typis Lazzarini, 1774”. Riporta al n. 4 “Actum Gaspar Bonanni de Monaco not. pub. anno 1734 die prima Julii”;

https://www.academia.edu p. 27;

AS Fermo, Firmana Gabellae Piscium cit., fasc. a stampa n. 6, “S.C.B.R., Malvasia ponente irmana gabellae piscium pro Ill.ma Communitate Civitatis Firmi, Summarium, Typis Lazzarini, 1774”.  Riporta aln. 4 “Actum Gaspar Bonanni de Monaco not. pub. anno 1734 die prima Julii”;

R. Renzi, La regolamentazione del commercio ittico tra la città di Fermo e il Porto dal 16. al 18. secolo, in Marca/Marche : rivista di storia regionale, 18, 2022, pp. 131-143;

A. Livi e S. Sollini, si veda l’edizione del 1864 in La cuciniera economica 1818. Il cuoco delle Marche 1864, Fermo 2018, pp. 85-86; 

A cura di Edoardo Mistretta



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