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L'anno senza estate
di Marco R. Capelli
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L'anno senza estate

Il battito d’ali di una farfalla in Brasile, può provocare un tornado in Texas”. (Effetto Farfalla)

Il Tambora o Tomboro (in tempi antichi chiamato Aram) è uno stratovulcano[1] con cono simmetrico; probabilmente aveva due camini, quasi sicuramente due vette, se dobbiamo credere a Heinrich Zollinger, il botanico svizzero che per primo visitò l’isola nel 1847 e parlò con gli indigeni di Bima. Citiamo il dettaglio dei camini, in quanto pare sa particolarmente caro a geologi e vulcanologi che su questo discutono da oltre un secolo. In ogni caso, il Tambora, si trova nell´isola di Sumbawa, arcipelago indonesiano della Sonda. Proprio sulla linea di subduzione della placca australiana ed all’interno di quella che viene chiamata Cintura di fuoco del Pacifico. Coordinate, 8°15′S 118°00′E. A 12.384 chilometri dal Lago di Ginevra.                              
Oggi la montagna non supera i 2800 metri s.l.m. (e dei camini, fossero uno o due, non c’è più traccia) ma, fino al 1815, si innalzava tra 4000 e 4300 metri s.l.m., collocandosi tra le quindici montagne più alte del mondo, punto di riferimento per i navigatori che salpavano dall’isola di Bali. Un terzo della sua altezza andò perduto nel 1815, quando – dopo circa mille anni di inattività - una devastante eruzione le cui esplosioni vennero udite a oltre duemila chilometri di distanza -, una delle pochissime VEI-7[2] avvenute in tempi storici  -  creò l’attuale caldera di sette chilometri di diametro. 

L´eruzione, tra tsunami e flussi piroclastici, provocò la distruzione (e l’oblio) dei Regni di Tambora, Pekat e Sanggar[3]. I morti diretti, in totale, furono (per quanto è stato possibile calcolare) circa centoventimila, tutti in Indonesia, ma il conto sale a duecentomila (e oltre) se si considerano gli sconvolgimenti climatici che, come vedremo, furono diretta conseguenza dell’eruzione.  

Sir Thomas Raffles, nelle sue Memorie, riporta la testimonianza diretta del rajah di Sanngar. A quanto pare, c’erano già stati segni di attività a partire dal 1812, ma nulla di paragonabile con l’evento che, iniziato il 5 Aprile 1815 con enormi boati, proseguì, tra emissioni di vapore e cenere (la prima registrata il 6 Aprile), fino a 23 Agosto dello stesso anno, toccando il proprio apice con un evento parossistico alle 19:00 della sera del 10 Aprile quando:  “tre colonne di fuoco si innalzarono dalla cima del Tambora e piovvero pezzi di pomice di venti centimetri di diametro, seguiti da enormi quantità di cenere che raggiunsero, trascinate dai monsoni, l’isola di Java”. Ogni cosa, entro trenta chilometri dal vulcano, fu distrutta dal fuoco e dalle onde. La colonna di ceneri raggiunse i quarantatré chilometri di altezza e fu spinta in tutto il globo dalle correnti stratosferiche.

Nel mondo occidentale, l’evento fu registrato da geologi e vulcanologi ma passò inizialmente più o meno inosservato (se si escludono i suggestivi tramonti rosso-giallastri  registrati a Londra da Giugno a Ottobre, che furono assai apprezzati dai pittori paesaggisti – vedi le tele di William Turner (1775-1881) - e dagli spiriti romantici). Questo, almeno sino all’anno successivo, quando la polvere immessa nell’atmosfera (fino a duecento chilometri cubici di materiale, secondo alcune stime) iniziò a riflettere la luce solare modificando pesantemente il clima in tutto l’emisfero settentrionale, al punto che il 1816 sarebbe passato alla storia come l’anno senza estate. Già nella tarda primavera del 1815, in realtà, negli Stati Uniti, erano state segnalate  “nebbie secche” (dry fog), che si infittivano all’alba ed al tramonto - tanto da permettere la visione ad occhio nudo delle macchie solari - e che non venivano disperse né dalla pioggia né dal vento. Ma le cose peggiorarono presto: a Luglio ed Agosto dello stesso anno, le temperature nel nord Europa e nel Nord America subirono cali medi da 0,7 fino a 2,5°C. L’inverno 1815/1816 fu sostanzialmente normale ma, nel mese di Maggio del 1816, repentine gelate distrussero quasi tutti i raccolti sulla costa orientale degli Stati Uniti. Il 4 Giugno 1816, nevicò nel Connecticut ed il giorno seguente in New England e poi a New York. Peggio ancora andò in Canada, dove oltre trenta centimetri di neve caddero a Quebec City tra il 6 ed il 10 Giugno. Questi eventi estremi durarono per tre mesi e distrussero quasi tutti i raccolti sulla costa orientale, decimando il bestiame. Le ceneri vulcaniche disturbarono anche il ciclo dei monsoni, causando la carestia del Bengala del 1816 e l’esondazione del fiume Yangtze in Cina, che provocò lo sfollamento di milioni di persone. Carestie ed analoghi eventi ebbero luogo in Germania (dove si verificò una disastrosa inondazione causata dal Reno), Francia, Galles e Irlanda. Nel complesso, si trattò della carestia peggiore del XIX secolo e dette luogo a rivolte, proteste e saccheggi. In Svizzera si arrivò a dichiarare lo stato di emergenza nazionale.  Le precipitazioni aumentarono, a seconda delle zone, anche dell’ottanta per cento. Nevicate straordinarie furono registrate in Svizzera, Francia, Germania e Polonia. In Ungheria e Italia cadde neve “rossa”. In Russia, al contrario, le temperature furono al di sopra della media fino al 1818. Anno in cui piovve pochissimo in tutto l’emisfero. In generale, comunque, il 1816 è considerato il  secondo anno più freddo nell’Emisfero Settentrionale dal 1400 e la decade 1810/1820 la più fredda in assoluto. 

Per le produzioni agricole, già gravate dalla situazione post-napoleonica (e da anni di abbandono) fu un vero disastro. Il prezzo del pane salì a dismisura, folle di braccianti si trovarono senza lavoro, carestie si scatenarono in tutta Europa. L’incertezza che seguì fu molto probabilmente uno dei catalizzatori dei moti rivoluzionari del 1820-21, dove alle istanze dei repubblicani e dei napoleonici scontenti della restaurazione seguita al Congresso di Vienna (1814-1815), si sommarono quelle di diseredati ed affamati. 

La mancanza di foraggio (ed il relativo aumento dei costi), spinse molti ad immaginare nuovi mezzi di trasporto. Tra questi, il barone Karl Drais che sviluppò la draisina (o velocipede), da cui derivano la moderna bicicletta e quindi anche la motocicletta. 

Secondo il professor J.D.Post della Northeastern University, il freddo fu responsabile anche della prima pandemia colerica del mondo. La malattia, infatti, fino ad allora circoscritta alle zone di pellegrinaggio attorno al Gange, si diffuse, a seguito delle carestie, in Bengala e da qui in Afghanistan e poi in Nepal. Raggiunto in qualche modo il Mar Caspio, proseguì poi, lentamente (visti i mezzi di trasporto dell’epoca) ma costantemente la sua marcia diffondendosi in tutta Europa. 

Ancora, secondo diversi storici, masse di braccianti europei disoccupati tentarono una disperata fuga verso Ovest, imbarcandosi per gli Stati Uniti. Una volta arrivati, però, si resero conto con orrore che le condizioni sulla costa Orientale erano molto simili a quelle che avevano lasciato. Spinti dalla necessità, non trovarono altra soluzione che proseguire il loro cammino, spostandosi sempre più a Ovest, verso quelle zone meno popolate del Nord America che sembravano essere state risparmiate dal gelo e dalla neve. Iniziò così (o, comunque, ebbe ulteriore impulso) quella corsa all’Ovest che si concluderà con la conquista del midwest e poi del far west e segnerà, definitivamente e drammaticamente, il destino delle nazioni indiane. 

Nel frattempo, in Svizzera, un gruppo di amici, tutti letterati, tutti inglesi, tutti molto giovani (e geniali), trovando estremamente fastidiose le  piogge incessanti del luglio 1816 che rendevano ancora più noiosa una ´estate umida e non congeniale[4] decisero di riunirsi per qualche giorno nei pressi del Lago di Ginevra, nella speranza che il tempo migliorasse. 

I quattro amici erano, ovviamente: George Gordon Noel, sesto barone di Byron (1788-1824), meglio noto come Lord Byron. Sicuramente il più famoso del gruppo, forse anche più per i suoi comportamenti “scandalosi” (non soltanto secondo i canoni vittoriani, gli si attribuiscono quasi tanti figli illegittimi, quante accuse per sodomia) che per meriti artistici; John William Polidori (1795-1821) medico e segretario personale di Byron. Da questi assunto, dietro compenso di cinquecento sterline, per redigere i diari del gran tour, il viaggio attraverso l’Europa che era parte integrante della formazione di ogni nobile inglese (e forse anche perche, in quanto medico, poteva facilmente procurargli il laudano[5] di cui faceva ampio uso); Percy Bysshe Shelley (1792-1822), poeta e letterato - assieme a Byron (e Yeats), uno dei più famosi poeti inglesi viventi - e la sua compagna, la giovanissima Mary Godwin, meglio nota come Mary Shelley (1797-1851). I due si erano conosciuti nel 1812, nel salotto del signor Godwin, filosofo, si incontravano di nascosto al cimitero, accanto alla tomba della madre di Mary ed erano fuggiti all’estero assieme, contro il volere del padre di lei, nel 1814 - quando la ragazza era solo diciassettenne. Percy fuggiva dai debiti, che non poteva ripagare, Mary dal padre che adorava ma che, per quanto filosofo e moderno, non poteva approvare quella relazione. L’anno precedente, Mary aveva dato alla luce una bambina, morta dopo poche settimane, ma i due non potevano sposarsi, perché Percy era già sposato con Harriet Westbrook, figlia del proprietario di un bar di Londra, con la quale (recidivo) era fuggito in Scozia nel 1811, prima di abandonarla. 

Spendiamo ancora due parole su Polidori: figlio di Gaetano, che era stato il primo traduttore in italiano de The Castle of Otrant di Horace Walpole nonché romanziere e segretario personale di Vittorio Alfieri, John William era però nato in Inghilterra. La madre era una governante inglese e lui aveva iniziato gli studi nel 1804 all’Ampleforth College per iscriversi poi alla facoltà di medicina presso l’Università di Edimburgo nel 1810. Qui si era laureato, a soli 19 anni, con ottimi voti presentando una tesi sul sonnambulismo. Aveva, però, presto scoperto di amare più la letteratura che la medicina. Dopo le prime pubblicazioni, era stato presentato, in un un salotto londinese, da Sir Henry Haldord a Lord Byron, che - colpito e divertito dalla sua spavalderia - lo aveva voluto con sé nei suoi viaggi, come diarista e medico personale. 

Byron, dunque,  il 10 Giugno 1816  si stabilì a Coligny, affittando Villa Diodati (già Villa Belle Rive) così chiamata dal nome della famiglia che la possedeva; vi sarebbe rimasto fino al 1° Novembre. Era stato attratto dalla diceria secondo cui, in quella stessa villa, avesse soggiornato nel 1638 il poeta John Milton (1608-1674) in visita all’amico Charles Diodati. In realtà, l’informazione era infondata,  visto che la villa risaliva al 1710. Comunque fosse, Byron aveva necessità di allontanarsi dal doppio scandalo causato dalla sua separazione dalla moglie e dalla relazione avuta con la sorellastra Augusta Leigh, nonché dai creditori che lo perseguitavano, come già avevano perseguitato il padre causandone il suicidio nel 1791. Quando, in Aprile, aveva lasciato l’Inghilterra, lo aveva fatto sapendo bene che, probabilmente, non vi avrebbe mai più fatto ritorno. Shelley e la moglie, le cui disponibilità economiche erano più modeste, già si trovavano a Ginevra, ed avevano affittato un alloggio nei dintorni, Maison Chappuis, una piccola villa circondata da vigneti.

Il 16 Giugno 1816, i coniugi Shelly si recarono a Villa Diodati. A loro si aggiunse la sorellastra di Mary, Claire Clairmont (1798-1879), che era stata amante di Byron e che, proprio in quel momento, ne attendeva un figlio. Per capirci meglio, Claire ha diciotto anni, Byron ne ha ventotto, Percy ventiquattro, Mary diciannove e Polidori ventuno. Sono giovani, intelligenti, trasgressivi e maledetti. 

La giornata era iniziata con un timido sole, ma nel pomeriggio era sopraggiunta una vera e propria tempesta. Per tre interi giorni, il gruppo di amici non poté lasciare la casa. L’atmosfera era quella giusta. Si parlò di fantasmi, streghe, oscure presenze. Polidori raccontò di incredibili esperimenti scientifici, come quelli di Luigi Galvani che, con l’elettricità, aveva provato a rianimare i muscoli di esseri privi di vita. L'argomento affascinava molto sia Byron che Shelley i quali, proprio il giorno prima, ne avevano parlato a lungo, impressionando così tanto Mary che questa, una volta rientrata a Maison Chappuis – parole sue - non era più riuscita a prendere sonno.

Per combattere la noia, decisero di leggere, a turno, storie fantastiche e macabre tratte da Fantasmagoriana, antologia tedesca del genere gotico, dal  romanzo Vathek di William Beckford e dal poema Christabel di Samuel Taylor Coleridge, letture molto probabilmente supportate da opportune dosi di laudano. Al termine della serata, il padrone di casa propose una sfida letteraria: ciascuno di loro avrebbe dovuto elaborare un proprio racconto… terrificante!

´We will each write a ghost story,´ said Lord Byron; and his proposition was acceded to. There were four of us. The noble author began a tale, a fragment of which he printed at the end of his poem of Mazeppa. [6] (Mary Shelley, nella prefazione all’edizione del 1831 di Frankenstein)

Probabilmente, nelle intenzioni di Byron, la sfida era rivolta al solo Shelley. In fondo, c’era posto per un solo genio creativo a Villa Diodati. Polidori, nonostante le sue ambizioni, non era un vero scrittore ed i rapporti tra segretario e datore di lavoro si stavano deteriorando rapidamente. Mentre Polidori lo invidiava disperatamente, in un crescendo di desiderio di rivalsa e di imitazione, amore e odio, Byron era sempre più infastidito dai tentativi di Polidori di imitarne lo stile (ed i successi amorosi), così Polidori era diventato il bersaglio dell’umorismo caustico del suo idolo che sfociava ormai nel disprezzo palese. Byron arrivava spesso ad insultarlo pubblicamente storpiandone il cognome e chiamandolo “Polly Dolly” e ripetendo che, non fosse stato per rispetto a Mary, “lo avrebbe volentieri buttato nel lago”. 

In quanto a Mary, contava poco. Per quanto coltissima e intelligente, figlia della prima scrittrice femminista Mary Wollstonecraft e del filosofo William Godwin, era, per Byron, “solo” una donna. 

Del resto Byron era così, brillava di luce propria, incarnava il modello romantico del genio e della sregolatezza e rovinava, senza volerlo davvero, tutto quello che toccava. Tutto, in lui, era necessariamente epico, la bellezza, la voce, le capacità letterarie, la sregolatezza, le passioni dissennate, la ricerca continua del piacere. Persino la sua andatura claudicante – era  zoppo per un difetto di nascita ad un piede – contribuiva alla sua fama dannata, al suo fascino oscuro e al clamoroso successo delle sue opere. La villa stessa era la cornice perfetta per quell’uomo, evocatrice di illustri memorie, elegante, raffinata e circondata da un paesaggio pittoresco e sconfinato. 

Come ebbe a dire, di sé stesso: «I am so changeable […] I am such a strange mélange of good and evil, that it would be difficult to describe me[7]»

Questi, in ogni caso, furono i risultati della sfida: Shelley scrisse A fragment of a ghost story.

A shovel of his ashes took
From the hearth´s obscurest nook,
Muttering mysteries as she went.
Helen and Henry knew that Granny
Was as much afraid of Ghosts as any,
 And so they followed hard—
But Helen clung to her brother´s arm,
And her own spasm made her shake. 

Uno sguardo breve ma intenso sulla paura dell’ignoto. 

Byron raccontò l’abbozzo di una storia su un personaggio misterioso, un viaggio in terre lontane ed eventi inesplicabili, mentre Polidori prendeva scrupolosamente appunti. Il risultato fu un frammento narrativo, pubblicato poi nel 1819 col titolo di Fragment of Novel che termina col protagonista, Augustus Darvell, sepolto in un cimitero in Turchia. Era intenzione dell’autore farlo ritornare come vampiro, ma la trama non fu mai sviluppata. Probabilmente Byron perse interesse per la cosa, come gli capitava spesso. 

 Al contrario, Polidori si concentrò sull’idea di fondo – modificandola ampiamente ed utilizzando proprio Byron come modello per il suo vampiro - per sviluppare un breve romanzo che intitolò ‘The Vampyre’.

Nel romanzo, i ruoli si invertono, Polidori diventa il giovane Aubrey, aristocratico di buoni sentimenti che non riesce ad opporsi alla violenza del vampiro che lo perseguita, mentre Byron si trasforma in Lord Ruthven, conte di Marsden, di cui l’io narrante Polidori/Aubrey racconta le ben poco esaltanti avventure in giro per l’Europa. E’ soprattutto l’equivalenza vampiro-seduttore a dare originalità all’opera. Le vittime cedono al fascino più mondano che ultraterreno del vampiro, ma non si rendono conto che le sue necessità vanno ben oltre il piacere fisico, lo scopo ultimo di Ruthven è assai più turpe: prosciugare le loro energie vitali, senza le quali non può continuare ad esistere. 

Lord Ruthven è, necessariamente Byron, sensuale, irresistibile, seduce per colmare un vuoto incolmabile, non si accontenta di avere, vuole possedere, controllare. Non gli basta un bacio, vuole l’anima intera. Neppure il nome Ruthven è casuale: era stato infatti originariamente già usato nel romanzo Glenarvon di Lady Caroline Lamb (che del poeta era stata amante nel 1812) per un personaggio che era chiaramente (e polemicamente) l´alter-ego di Byron stesso.

Il romanzo di Polidori fu pubblicato anch’esso nel 1819 su The new monthly magazine e venne attribuito erroneamente (dall’editore) proprio a Byron. Nonostante i rapporti fra i due autori si fossero guastati, o forse proprio per questo…) Lord Byron si affrettò a chiarire pubblicamente l’equivoco e Polidori fece lo stesso, riconoscendo comunque all’antico datore di lavoro la paternità dello spunto iniziale: “I beg leave to state that your corrispondent has been mistaken in attributing that tale in its present form to Lord Byron. The fact is that though the groundwork is certainly Lord Byron’s, its developement is mine[8]”

“The Vampyre”, sia per l’interesse suscitato dall’errata attribuzione che per il tema, assai gradito ai lettori, fu un immediato successo. Venne tradotto in francese, tedesco, spagnolo e svedese e trasformato in un’opera teatrale, adattata da Charles Nodier, nel giro due soli anni. E’ rimasto famoso il commento (assolutamente sarcastico) di Goethe (1749-1832): “E’ probabilmente la cosa migliore che Byron abbia scritto”. 

Dal punto di vista della narrativa fantastica, con Polidori, il vampiro abbandona la forma diabolica e cadaverica di un Nosferat per trasformarsi in qualcosa  di più sottile ed inquietante. Il male è tra noi, indistinguibile dal bene, il male seduce, affascina. E tanto bello quanto letale. 

The Vampyre, inutile dirlo, ispirò largamente tutti i vampiri ottocenteschi, da Varney (dove l’autore viene omaggiato attraverso un personaggio minore chiamato Count Polidori) a Carmilla, fino a Dracula. Aubrey prefigura Harker, sua sorella, Mina, Ruthven, come Dracula, è aristocratico, irresistibile, affascina sessualmente le sue vittime, è privo di scrupoli e rimorsi nel suo desiderio di sopravvivere rubando l’altrui linfa vitale. I paralleli sono impossibili da ignorare. Perfino Dumas rende omaggio a Polidori nel Conte di Montecristo, laddove scrive: “La contessa G. che aveva conosciuto personalmente Lord Ruthven”. Polidori, infine, definisce  alcuni dei canoni del genere: il magnetismo del vampiro, il suo fascino irresistibile, l’estremo pallore, l’inevitabile, fatale consunzione che prende le sue vittime.

E, almeno in questo, Polidori fu certamente profetico. Licenziato da Byron, John tornò in Inghilterra e riprese a lavorare come medico. Ma dopo aver vissuto con Lord Byron, senza essere Byron, dopo aver rocambolescamente attraversato l’Europa assaporando ogni giorno come una nuova, sensuale avventura, quella vita di studi e titoli accademici doveva avere un ben misero sapore. Polidori morì nel 1821, a soli ventisei anni. Le circostanze della morte non furono mai chiarite, forse, fu un suicidio, forse – dopo aver provato tanto a lungo ad essere una copia di seconda mano di Byron, non riusciva ad accettare di essere “solo” un Polidori di ottima qualità. 

Piccola, tardiva consolazione, il giovane, tragico, romantico e geniale Polidori suscitò fin da subito (dopo la morte) un’estrema simpatia da parte di scrittori e artisti e divenne protagonista di infinite citazioni, nel cinema ed in letteratura, da Varney, appunto, ai più recenti  Las Piadosas (2014)  di Federico Andahazi e Bravoure (2007) di Emmanuel Carrère.

La vera vincitrice della sfida, la prima a pubblicare, quella che realizzò l’opera di maggior valore letterario (ed impatto artistico) fu comunque Mary Shelley. Influenzata sia dai racconti gotici che dai resoconti medici di Polidori sul galvanismo, quella notte fece un sogno molto vivido e, il giorno successivo – complice anche il romantico paesaggio svizzero - iniziò a scrivere il suo Frankenstein.  E’ il 1816, Mary ha diciannove anni, a Gennaio è nata la seconda figlia (la prima era morta ad appena un mese l’anno prima, come abbiamo detto).  Ad Ottobre morirà, suicida, la sorella Fanny. A Dicembre ha terminato il quarto capitolo e, quasi contemporaneamente, le arriva la notizia che Harriet, la moglie di Shelley, si è suicidata gettandosi nel Serpentine (il laghetto dei Kensington Gardens). Ora possono sposarsi. Nel 1817 nasce un’altra bambina, anche questa sopravvivrà meno di un anno e morirà quasi contemporaneamente all’uscita del romanzo: Marzo 1818.  Nel 1819 viene a sapere della morte di Polidori. Nel 1822 se ne andrà anche anche il marito, Percy. Stupidamente, inutilmente. Barbaramente ucciso nel golfo dei poeti da malviventi liguri. Lo assaltano mentre naviga con la sua piccola barca a vela, convinti che nasconda chissà quali ricchezze, cade in acqua, forse ferito e, pur essendo un abile nuotatore, annega. 

Frankenstein, in fondo, è anche questo: un romanzo di famiglia, il compendio del dolore di una vita. 

Il mostro che si ribella al creatore, che uccide ogni persone da lui amata, è la vita stessa. Il destino, l’inevitabilità del dolore. Per quanto oggi possa parere datato dal punto di vista narrativo e stilistico, l’idea di base di Frankestein resta prometeicamente eterna. Pietra miliare, assieme, del gotico, del racconto del terrore e punto di partenza della fantascienza a venire. 

Tre film hanno narrato quel che accadde a Villa Diodati nell’anno senza estate:  Gothic di Ken Russell (1986), Haunted Summer di Ivan Passer (1988) e Remando al viento di Gonzalo Suárez (1988).

Villa Diodati non portò molta fortuna ai suoi occupanti: Byron morì in Grecia, nel 1824, dove si era recato per combattere contro l’Impero Ottomano assieme ai ribelli greci. Non morì eroicamente, contrasse un qualche tipo di febbre infettiva e spirò in un letto sudato. Aveva trentasei anni. Shelley annegò assurdamente, come abbiamo già raccontato, nel 1821 ed il povero Polidori se ne andò nel 1819, a soli ventisei anni, (forse) suicida.  

Mary Shelley sopravvisse al marito per molti anni, morì a cinquantaquattro anni; non si risposò mai. Scrisse altri romanzi, nessuno dei quali raggiunse la fama di Frankenstein. 
Claire, la più longeva del gruppo, spirò nel 1879 all’età di ottantuno anni e con lei scomparve l’ultimo testimone del giorno in cui nacque la letteratura fantastica moderna.  
Per quanto riguarda Villa Diodati, dopo la morte di Byron essa divenne un luogo di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. Honorè de Balzac ne era tanto ossessionato da far dire, nel 1836, ad uno dei suoi personaggi, Albert Savarus, che “la villa è oggi visitata da tutti, proprio come Coppet e Ferney[9]”. Fu abitata per qualche tempo dall’artista francese Balthus (1908-2001), a partire dal 1945 e rimase di proprietà della famiglia Diodati almeno fino agli anni ‘60. Oggi pare sia stata ristrutturata e suddivisa in appartamenti di lusso. 

Sic transit gloria mundi. 

The Vampyre (1819) - John William Polidori 
Incipit

Accadde che, nel mezzo delle dissipazioni che accompagnano l’inverno londinese, apparisse nelle feste più eleganti un nobile, assai più rimarchevole per le sue stranezze che per il suo titolo. Guardava all’allegria che lo circondava come se non potesse parteciparvi. Apparentemente solo la risata leggera della bellezza attraeva la sua attenzione, così che potesse congelarla con uno sguardo e lasciare un velo di sgomento in quei petti dove regnava, un istante prima, la spensieratezza. Quelli che provavano questa sensazione di angoscia, non avrebbero potuto spiegare da dove venisse: alcuni l’attribuivano all’occhio grigio, spento, il quale, fissato su un soggetto, non sembra in grado di penetrarlo o di percepire il profondo lavorio del cuore; ma ricadeva sulla superfice con un raggio plumbeo che gravava sulla pelle e non poteva passare. 

Queste sue peculiarità, facevano sì che fosse invitato in ogni casa; tutti desideravano vederlo, e quelli che erano abituati alle emozioni più forti, ed ora sentivano il peso della noia, erano felici di avere qualcosa di fronte a loro in grado di attrarre la loro attenzione. Nonostante il colorito mortale del suo viso, che non prese mai una tinta più calda, né per il rossore della modestia, né per la forte emozione della passione, il suo aspetto ed i suoi modi erano attraenti e molte cacciatrici di notorietà tentarono di attrarre le sue attenzioni ed ottenere, almeno, qualche segno di quel che esse potessero chiamare interesse: Lady Mercer, che era stata oggetto di ogni possibile pettegolezzo nei salotti sin dal momento del suo matrimonio, provò a gettarsi su di lui, e fece di tutto tranne vestirsi da buffone, per attrarre la sua attenzione - del tutto invano – quando fu di fronte a lui, sebbene i suoi occhi fossero apparentemente fissi su di lei, si accorse che era come se non la vedessero; persino la sua irraggiungibile sfrontatezza fu beffata, ed abbandonò il campo. Ma se le normali adultere nemmeno attraevano il suo sguardo, non è che le donne gli fossero indifferenti: tuttavia tale era l’apparente circospezione con la quale parlava con le mogli virtuose e le figlie innocenti, che pochi si resero conto anche solo del fatto che un interesse vi fosse. Aveva, tuttavia, la reputazione di gran conversatore e sia che ciò superasse la paura che incuteva il suo carattere singolare, sia che fossero attirate dal suo evidente odio per il vizio, egli era tanto spesso tra quelle donne che traggono il vanto del loro sesso dalle loro virtù domestiche, quanto tra quelle che sogliono macchiarlo con i loro vizi.

Note:
[1] Uno stratovulcano è un vulcano di forma generalmente conica costituito dalla sovrapposizione di vari strati di lava solidificata, tefra, pomice e ceneri vulcaniche. A differenza dei vulcani a scudo, gli stratovulcani sono caratterizzati da pendii piuttosto ripidi (fino a 45°) e da periodiche eruzioni di tipo esplosivo.
[2] VEI Vulcanic Explosivity Index, è un indice empirico atto a classificare le eruzioni vulcaniche in funzione dell´esplosività. Consta, appunto, di sette gradi. A titolo di esempio, l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei nel 79 d.C., è stimata VEI-5
[3] Solo nel 2004 l’archeologo e vulcanologo islandese Haraldur Sigurdsson ha intrapreso seri scavi nell’area. Arrivando a dichiarare di aver scoperto la “Pompei dell’Indonesia” sotto tre metri di cenere. La lingua del popolo di Tambora è andata invece perduta completamente. I linguisti hanno esaminato materiale lessicale dai rapporti di Zollinger e Sir Raffles stabilendo che essa non appartenesse, come ci si aspettava, al gruppo delle lingue austronesiane, ma forse era una lingua isolata; probabile che fosse parte delle lingue paupasiche, normalmente parlate più a oriente.
[4] “incessant rain of that wet, ungenial summer, secondo le parole di Mary Shelley
[5] Soluzione ottenuta tramite macerazione dell´oppio in alcol, con l´aggiunta di aromi e coloranti, dotata di potere antispastico e antidolorifico.
[6] ´Ciascuno di noi scriverà una storia di fantasmi, disse Lord Byorn, e tutti accettarono. Eravamo in quattro. Il nobile scrittore iniziò a raccontare una storia, un frammento che poi fece stampare in appendice al suo poema Mazeppa’ 
[7] “Sono così mutevole […] Sono una così strana mescolanza di bene e male che sarebbe assai difficile descrivermi”
[8] Vi prego di notare che il vostro corrispondente si è sbagliato nell’attribuire questo racconto nella sua forma attuale a lord Byron. If fatto è che, nonostante l’idea di base sia certamente di Byron, lo sviluppo è mio.
[9] Case natali di Madame de Stael e Voltaire, rispettivamente.

A cura di Marco R. Capelli



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