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Il vecchio della montagna
Capitolo 06
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 06

I rimanenti giorni d'agosto passarono sereni e tranquilli.

Fermo nel suo proposito, Melchiorre s'acquietò nella rassegnazione amara di chi tutto ha perduto; e continuò nelle solite occupazioni, scendendo all'alba in città per portarvi il latte sempre più scarso e denso, coltivando l'orto ove i pomodori s'imporporavano, tagliando fronde alle capre, vagando in silenzio per il bosco: zio Pietro proseguì a intagliare e inchiodare arnesi di ferula, a preparare i pasti con gli erbaggi dell'orto, a spazzar le mandrie, a ricordare ed a pregare davanti a quell'orizzonte sul quale egli non vedeva salire in lente spire i primi vapori cinerei che annunziano l'agonia dell'estate.

Nella pace dell'ovile solo Basilio sembrava a un tratto preso da una misteriosa sofferenza: la febbre gli serpeggiava nel sangue, dandogli un malessere nervoso che a volte lo faceva correre, ridere, saltare e gridare dietro le capre; a volte lo gettava in un cupo torpore da cui nulla valeva a scuoterlo. Pareva stordito dal caldo, e invero gli ultimi giorni d'agosto furono afosi e snervanti: non una foglia si moveva e le roccie ardevano come blocchi di cenere e di brage: eppure in certe ore d'invincibile languore, Basilio si sdraiava al sole come un gatto, lungo disteso tra il fieno giallo e si assopiva in un'acre ebbrezza di calore.

Il bosco taceva, tacevano le campanelle delle capre meriggianti; il cielo era quasi fosco per i caldi vapori che salivano dal mare. In quelle ore di immobilità ardente le foglie degli elci avevano bagliori d'acciaio brunito, l'orizzonte sembrava coperto di cenere azzurrognola, e le erbe bionde così molli e lucenti nei dì sereni, pungevano come fili metallici. Basilio si levava affranto e indolenzito, con la voce rauca e la mente pervasa da visioni febbrili. Dopo il folle buonumore del mattino, verso sera diventava poltrone, taciturno e cupo; e se il padrone lo sgridava, egli imprecava e talvolta scoppiava a piangere: poi di notte aveva freddo, si accucciava accanto al fuoco e batteva i denti, col volto cenerognolo e gli occhi smarriti. E nel sonno agitato mormorava continuamente strane parole.

«Cosa diavolo hai?», gli domandava Melchiorre guardandolo fisso. «Tu sei malato e non vuoi dirlo. Dove hai male? Parla!»

«Qui», rispose Basilio, curvandosi e toccandosi il collo del piede1; e rise, ma nel suo riso forzato, che non aveva più la freschezza infantile di pochi giorni prima, era la conferma alle supposizioni del padrone.

«Lì? Ah, benissimo; allora hai qualche grillo per il capo. A che pensi? Se ti ammali quassù e muori, in verità mia, ti lascerò divorare dai corvi.»

Basilio alzò le spalle con stoica indifferenza, mentre i suoi occhi si velavano d'ombra.

«Lasciatemi pure ai corvi od ai cani, come vi piace. Tanto, cosa ci faccio io nel mondo?»

«E gli altri cosa ci fanno?», gridò zio Pietro.

Melchiorre, che invidiava la spensierata adolescenza di Basilio, lo guardava stupito. Anche quello era dunque scontento? Chi dunque poteva esser contento?

«Gli altri? Gli altri? Quali altri?», disse Basilio con sprezzante franchezza. «Voi credete che, perché voi siete così, gli altri non si divertano? Vedete i signori del Monte, che il diavolo li rapisca! Che fanno quelli? Giocano, ridono, mangiano bene, dormono meglio, suonano la chitarra, ballano, cantano, fanno all'amore con tutte...»

La sua voce vibrante d'invidia e quasi d'odio echeggiava nell'anima di Melchiorre.

«Anche tu, Basilio!»

Ma tosto si pentì del suo grido perché zio Pietro volse il viso verso di lui, e parlò, rispondendo in apparenza al mandriano, ma in realtà a tutti e due:

«I signori! Cosa credi che sieno i signori? Uomini come noi. E credi che siano contenti? Un corno! Ohi, ohi, ragazzo, perché te lo fai dire? siamo tutti nati per soffrire, per portar la nostra croce. Al posto di quei signori che ti sembrano felici, - se tu sapessi cosa bolle nella loro pentola - tu non ti ci vorresti neppure morto. Dietro i loro giochi c'è un mostro che li divora: sono deboli e malati di corpo, e vili e miseri d'anima. Sono pieni di debiti, di cure, d'ansie, e il loro riso è come il tinnìo argentino di un piatto già rotto e che pur sembra nuovo. Fanno all'amore con tutte, ma non amano e non sono amati da nessuna donna, come potrai esserlo tu se lavorerai e ti procurerai onestamente un ovile e un branco di capre. Suonano, suonano! Ah, figli del cuor mio! Suonano come ronza la mosca in autunno quando sta per morire. E a te chi impedisce di suonare? Va nella valle, taglia le canne tenere e fa un paio di leoneddas come i pastori del Campidano. La tua musica sarà sempre migliore di quella della chitarra dei signori. Mangiano e dormono? E tu forse non mangi e non dormi? Perché non mangi cose buone? Ma sai tu che quelli le cose buone le digeriscono assai peggio che tu il pane d'orzo? Sa matta siat prena, siat de paza o siat d'arena...2 Purché sia pulita l'anima!...».

«È vero...», cominciò Melchiorre.

«Bah! Cominciate ora voi un'altra predica!», disse Basilio seccato; e se ne andò fischiando.

Più che tutte le prediche dei padroni gli fece bene il permesso di scendere una mattina a Nuoro. Nel cortiletto di zia Bisaccia, invece che al solito posto, legò il cavallo ad un palo intorno al quale s'attortigliava un'esile pianta di vite, e prima di partire staccò una manata di foglie che si ficcò in tasca per portarle alla lepre. Anche il cavallo allungò un po' troppo il collo, annusò la vite e ne strappò coi lunghi denti gialli qualche foglia. Mai ciò fosse accaduto! Zia Bisaccia si slanciò urlando nel cortile, percosse la bestia ed ebbe un fiero battibecco con Basilio che dovette saltare a cavallo con una violenta scarica d'insulti, di minacce e di fiche.

«Lo vedi il villano mal venuto dal suo paese! Al diavolo chi t'ha portato qui! Asino, cialtrone, bestia! Truh, truh, truh!3 Lasciami venir qui il tuo padrone ché aggiusteremo i conti. Lo vedi! che vieni in casa mia a rovinarmi? Sentito lo hai? In casa mia sto meglio di quello che sta tua madre nella sua buca, e non voglio seccature. Se non fosse perché non hai che il cielo da vedere e la terra da calcare, ti citerei per i danni; la vedremmo. Truh, l'asino, truh...»

Basilio era sparito. Nonostante i vituperi di zia Bisaccia si sentiva lieto e leggero come un uccello, mentre il cavallino spaventato dalle percosse e dalle grida della donna trottava rapido e colle orecchie erette.

Il mattino era diafano e azzurro: invece di tornare direttamente all'ovile Basilio andò sul Monte e cercò Paska.

Nonostante le sue conquiste, i suoi trionfi e le alte protezioni di cui godeva, ella viveva d'ansie e di paure: scorgendo il mandriano cambiò colore, ma gli si mostrò ironicamente benevola.

«E di laggiù?», chiese, accennando col mento verso l'ovile. «Altra minaccia hai da comunicarmi?»

«Pare così!», diss'egli facendo il coraggioso. «Se non fai attenzione, vedrai cosa ti accadrà, agnella mia!»

«E cosa m'accadrà, agnello mio? L'altro giorno hai fatto presto ad andartene, e non hai atteso la mia risposta.»

«Qual era?»

«Questo solamente!» Sputò e passò il piede sulla saliva.

Basilio seguì con gli occhi l'atto di lei; poi la guardò fisso e sorrise.

«Eppure quel giorno non avevo voglia di scherzare così, bella mia: e adesso ho fretta e se tardo egli mi massacra, altrimenti ti direi qualche parolina...»

«Di', di', di'...», incalzò Paska, più paurosa che curiosa.

«Non posso indugiare, adesso!»

«Aspetta, aspetta!» Ella lo tratteneva per il braccio; ed egli rabbrividiva di piacere al contatto di lei; ma a un tratto si divincolò, quasi sofferente per tanta gioia e fuggì, rosso in viso, gridandole da lontano:

«Tornerò domani!».

«Domani torniamo tutti a Nuoro; non mi troverai più. Vieni stasera», rispose Paska.

Basilio non rispose, ma il cuore gli batteva forte: saltò sul cavallino e fuggì attraverso la radura. E quel giorno egli fu allegro e spensierato come prima: erano grida, risate, fischi, belati che si sperdevano nell'aria pura del bosco. A colazione raccontò ridendo la storia di zia Bisaccia che voleva citarlo per le foglie strappate alla vite.

«Pascolo abusivo! Quella donna deve aver in corpo lo spirito del male! Va al diavolo!»

Ma tacque dell'incontro con Paska, e per tutta l'ora della siesta, invece d'assopirsi morbosamente come nei giorni passati, sdraiato pancia a terra, con le punte dei piedi e i gomiti fissi al suolo, il mento sulle mani intrecciate, escogitò il modo di tornare segretamente da lei. L'idea di rivederla gli dava un piacere ardente: la vampa di sole che gli batteva sul dorso e sulle reni gli ricordava il contatto con lei. Non sapeva come avrebbe fatto per andare, ma sapeva che a tutti i costi sarebbe andato. A un tratto si alzò e assicuratosi che nessuno lo vedeva, afferrò per le corna una giovane capra nera che meriggiava alla corta ombra di un cespuglio, la fece alzare e se la trascinò dietro riluttante, parlandole dolcemente per convincerla a seguirlo con docilità.

«Vieni, vieni con me, Fior di pervinca, vieni, che non è poi per ammazzarti. Cammini o non cammini, bella mia? Andiamo, caprettina, andiamo, che il portarti dove ti porterò io non è poi un colpo d'archibugio sardo che ti trapassi il cuoricino! Vieni: resterai là solo fino a stanotte; sì, laggiù; ti butterò fronde e siepi, e non creperai; vieni, vieni, Fior di pervinca; è necessario che tu venga, alò!»

Ogni tanto si volgeva scrutando le chine deserte; anche la capretta torceva il capo belando, ma nessuna delle sue compagne già lontane rispondeva. Così la povera Fior di pervinca si trovò in fondo a uno speco ombreggiato da folti cespugli, imprigionata fra grosse pietre che Basilio fece rotolare dall'alto. Come aveva promesso, egli buttò poi fronde d'elce e manate di fieno, e rimase finché la capretta cessò di belare. Poi s'allontanò di corsa: le capre meriggiavano tranquille, nessuno s'era accorto della sua presenza; e solo sul tardi, al declinar del sole, egli fece sapere al padrone che Fior di pervinca mancava.

«Va a cercarla!», disse Melchiorre, dopo essersi assicurato della verità.

«E se non la riconduci, non ricomparirmi davanti, poltronaccio accidioso.»

Egli se ne andò allegramente verso la chiesetta: all'uscir del bosco vide il sole, senza raggi e vermiglio come una enorme melagrana, cader lentamente dietro l'infuocata catena delle montagne, sul cielo che pareva insanguinato.

Tutto era rosso; i boschi che tacevano, le roccie simili a enormi brage, le felci e le erbe: e in quel gran silenzio, in quella intensa luce d'incendio, Basilio rivide Paska, il cui viso pareva smaltato di rosa e gli occhi pieni di fosforescenze.

Ella doveva aspettarlo, perché l'accolse con un sorriso malizioso.

«Ora c'è la novena: la diciamo presto, stasera, perché noi andiamo ad accendere l'ultimo falò sul Monte Bidde. Vieni alla novena, agnello mio?»

«Sì.»

«Poi verrai a Monte Bidde!»

«Sì.»

Egli rispondeva sempre sì: era possibile rispondere altrimenti alla bella Paska?... E se riferivano al padrone d'averlo veduto a chiacchierare con lei, a seguirne i passi?

Ma il padrone era lontano, ed egli in quel momento non pensava che al piacere di star vicino a Paska.

Il campanello per la novena squillava, chiamando, insistendo, vibrando. Basilio seguì la donna, come il cagnolino dal collare lucente, che non destava più i suoi desideri infantili, seguiva il padroncino di lei.

Entrato nella chiesetta si fece il segno della croce, e non sapendo altro recitò alcune preghiere popolari apprese nella sua infanzia.


Deo mi sinno sa rughe,

Sa vera rughe,

Sa rughe vera,

Sa Madalena,

Santu Franziscu,

Santu Filippu,

Santu Juanne;

Morte mai no' m'inganne,

Né a die né a notte,

Fin'ass'ora 'essa morte,

Fin'ass'ora 'essa fine;

S'anghelu serafine,

S'anghelu biancu;

In nomen de su Babbu,

De su Fizu e de s'Ispiridu Santu.4


Poi, sollevando gli occhi alla Madonna, col cuore pieno di tenerezza recitò fervidamente:


Frisca sezis cale rosa,

Frisca sezis cale lizu,

Mama de su Santu Fizu,

Mama de su Fizu Santu,

In nomen de su Babbu,

De su Fizu e de s'Ispiridu Santu.5


La novena finì tardi perché, essendo l'ultimo giorno, oltre le solite preghiere il sacerdote recitò con voce alta e cadenzata una lunga e monotona invocazione, pregando pace ai defunti devoti della Madonna, felicità e prosperità ai vivi, vittoria contro le eresie, conversione degli infedeli, gloria al Sommo Pontefice e alla Santa Chiesa cattolica, vittoria degli angeli contro i demoni...


S'anghelu serafine,

S'anghelu biancu,

In nomen de su Babbu,

De su Fizu e de s'Ispiridu Santu


mormorava Basilio fervidamente, e pregava per il Papa, per la conversione dei Turchi, per la vittoria degli angeli. I ginocchi gli facevano male, pungendolo i legacci delle ghette, e il suo pensiero cominciava a volgersi con inquietudine verso l'ovile, verso lo speco ove Fior di pervinca dovea gemer lamentosi belati; ma Paska era lassù, inginocchiata sui gradini dell'altare, la testa reclinata da un lato con civetteria, il corsetto di velluto color sangue di drago rosseggiante al luminoso crepuscolo. Essa pregava e Basilio pregava; essa non si muoveva e Basilio non poteva muoversi; essa fu l'ultima ad uscire, e Basilio dietro di lei.

Fuori l'orizzonte aveva preso una calda tinta violetta venata di rosso; e in quel melanconico veto di viola la luna nuova calava rossa come un doppio corno di corallo. Quel giorno doveva essere stato ardentissimo nel piano, se tanti caldi vapori si adunavano sull'orizzonte, ma sull'Orthobene, sebbene il bosco tacesse immobile nel silenzio rosso della sera, l'aria aveva solo un tepore gradevole, una ineffabile pace di sogno. E in quella pace e in quel sogno, attraverso il bosco e le roccie che sembravano assorte nella contemplazione dei grandi orizzonti e del novilunio vermiglio, la gente se ne andò ad accendere l'ultimo falò sulle creste donde si scorgeva Nuoro lontana.

Le voci vibravano con cadenze flautate; i gridi dei bimbi parevano pigolii d'uccelli.

Tutti trascinavano rami, sterpi, fronde; i fanciulli salivano sulle roccie, scendevano, saltavano, risalivano, apparivano neri sullo sfondo rossastro del cielo.

Basilio veniva dietro, serio, con gli occhi spalancati, stupito di trovarsi fra quella gente allegra e in quel luogo: la sua inquietudine aumentava, Paska non badava a lui. Perché era venuto, perché andava dietro quelle serve che ridevano, quei signori che fischiavano, quei fanciulli che saltavano sulle pietre?

E il padrone che l'attendeva? E la capretta che belava in fondo allo speco?

E perché Paska, che se lo tirava dietro, non sembrava neppure ricordarsi di lui?

Giunto alle rupi di Monte Bidde, un signore gli ordinò di accomodare i rami e le fronde che tutti gettavano una sull'altra, e di attaccar fuoco. Sulle roccie i piccoli elci selvaggi sfumavano sul cielo cinereo; sotto Monte Bidde i boschi scendevano compatti, stendendo giù per le chine una cascata di verde.

E giù le valli dormivano nell'ombra; Nuoro biancheggiava nel crepuscolo, ed altri borghi lontani apparivano come greggi dormenti, nei paesaggi cinerei: le montagne dell'orizzonte s'ergevano come un immensa muraglia di bronzo, su quell'ardore di cielo che verso est e nord s'illanguidiva in vaporosità di perla.

Il fuoco guizzò scoppiettando; un denso cirro di fumo roseo punteggiato di scintille d'oro s'alzò tortuoso, poi s'abbassò e si sparpagliò sulla cascata del bosco; la fiamma gettava sprazzi di luce rossa sulle roccie circostanti.

In piedi qua e là sulle roccie, le figure dei villeggianti campeggiavano come statue sui piedistalli di granito: il cagnolino nero fermo sulle esili zampette, proprio sulla cima più alta abbaiava da lontano contro la fiamma, e Paska attirò Basilio dietro una sporgenza di rupe.

Il chiacchierìo delle donne, le grida dei bimbi e degli uomini ritti presso il falò coprivano la loro voce.

«Ancora qui sei?», ella disse beffarda. «Ti avevo perso di vista. E se il padrone ti cerca?»

«Non mi trova!»

Basilio la fissava arditamente, esasperato dal dispetto e dall'inquietudine.

«Dunque, chiacchieriamo. Cosa è, cosa è che egli dice? Che ha detto quando ha saputo che le sue ingiunzioni e le sue minaccie m'entrano in un orecchio e m'escono dall'altro? Di' di', parla, ragazzino.»

Indispettito da quest'ultima parola Basilio sogghignò.

«E perché vuoi saperlo, se t'entra in un orecchio e t'esce dall'altro?»

«Così, per curiosità. Parla, parla... come ti chiami tu?»

«Col mio nome.»

«Lasciamo gli scherzi, anima mia», ella riprese facendosi seria. «Ripetimi l'ambasciata dell'altro giorno... ripeti quelle precise parole.»

«Non ricordo.»

«Via, non far l'asino. Mi dicevi che se non me ne andavo subito subito, avrebbe pensato lui a por fine ai miei spassi. È così o non è così?»

«È così: perché domandi giacché lo sai?»

«Che cosa voleva dire con quelle parole? Che mi avrebbe ammazzata; o non è vero che voleva dir così?»

«Sicuro!»

«E allora perché non l'ha fatto? Vedi che gli spassi non li ho ancor finiti. Vedi stasera che bel divertimento?» (Ma Basilio sporse il labbro inferiore con noia sprezzante.) «Non ti pare? Forse vi divertite altrettanto fra le vostre capre? Dunque, parla, ripeti le altre minaccie, parla, parla, che il diavolo ti porti via, ragazzo straniero.»

Lo afferrò per le braccia e lo scosse vigorosamente: egli barcollò e fu per precipitare nell'abisso roccioso che sprofondavasi ai loro piedi. Non cadde perché Paska lo tenne, dando in un leggero grido di spavento; ma da quel momento egli precipitò in un abisso ben più profondo.

Disse tutto ciò che ella gli fece dire: sì, Melchiorre minacciava sempre di ammazzarla, di rapirla e di portarla legata all'ovile, ove ne avrebbe fatto scempio, lasciandola poi morir d'inedia, o precipitandola giù per i dirupi dove neppure le capre passavano.

«E sono il suo sangue!», esclamò Paska con terrore. «Il suo sangue sono! I nostri padri eran figli d'una stessa madre, proprio fratelli! Cosa gli ho fatto io, cosa?»

«Facevate all'amore, voi...»

«Facevamo un corno! È lui che s'era messo in testa delle idee sciocche, a cui io rispondevo no, e no, e no! Poi, quando compii il ventun anno, nel mese d'aprile, gli dissi:

"Ora sono padrona di fare quel che mi pare e piace; scostati, e non molestarmi più che non voglio esser appestata dall'odore del siero..."»

«L'odore del siero!», ripeté Basilio, parlando a se stesso.

Ella capì di averlo offeso, e siccome le premeva tenerselo amico, gli sorrise e aggiunse:

«...quando proviene da una bestia come il tuo padrone. Non è vero che sembra una bestia? Sembra una pecora bianca a cui il fango abbia ingiallito il vello. E diglielo pure, se vuoi dirglielo!...».

«Tu parli così perché sai ch'io non gli dirò nulla!»

«C'è pastore e pastore», ella osservò seguendo la sua idea, «ma egli non è neppure un pastore; è animale sporco, mentre ci son pastori che valgon più dei signori in soprabito.»

Basilio credette ch'ella accennasse a lui, e cominciò a tremare di piacere.

«E diglielo pure da parte mia, e digli che se egli vuol beversi il mio sangue, io terrò forte finché potrò per riguardo a quel povero cieco; ma che non stanchi troppo la mia pazienza, perché allora metterò da parte ogni riguardo, e giacché lo vuole ci beveremo il sangue a vicenda...»

«Io non gli dirò nulla.»

«Ah, non gli dirai nulla? Farai bene, perché potrà poi pigliarsela con te. È così matto! Ma non temere, tu; tu pure sta forte, ragazzino. C'è Paska Carta che ti protegge», e si toccava il petto con un dito, «e Paska Carta ha chi la difende. Se io avessi voluto», aggiunse abbassando la voce, «a quest'ora egli sarebbe in prigione, come un grillo entro un tubo di canna. E se continua a molestarmi gli farò vedere chi è lui e chi sono io; e non basteranno le corna delle sue cento capre a liberarlo dal laccio in cui verrà avvinto.»

Basilio non seppe che rispondere a tanta minaccia; restò silenzioso, con gli occhi fissi in lontananza, triste e felice nello stesso tempo.

Il falò andava spegnendosi, e al suo rosso chiarore seguiva l'ultima luce violacea dell'orizzonte.

Ma già l'ombra copriva i boschi e la luna era presso al tramonto.

«Basta», sospirò Basilio, scuotendosi, «io ora me ne vado. Voi aggiustatevi: a me basteranno le grida e gli improperi con cui egli stasera mi coprirà. Ora me ne vado.»

Ma sospirò ancora e non si mosse, vinto da una indistinta tristezza, da un doloroso desiderio di non più tornare all'ovile, e di restar lì, su quella sporgenza di roccia, ma di restarvi con Paska finché tutta la gente se ne fosse andata. E allora, quando tutta la gente se ne fosse andata, quando all'orizzonte si fosse spento quel misterioso chiarore di luna, egli forse si sentirebbe il coraggio e la forza di dir a Paska cose mai prima dalle sue labbra pronunziate. Ella contava tre anni più di lui, ma sembrava una ragazza quindicenne: egli era tanto fanciullo ancora, ma il suo cuore pulsava come quello di un uomo fatto, e ogni palpito era un grido di passione quasi feroce.

«Io ho gettato la capretta in fondo allo speco per poterti venire a trovare, e sarei pronto a commettere un delitto per te, Paska; Paska, vuoi che ammazzi ad una ad una tutte le capre di Melchiorre? Vuoi che uccida lui? Vuoi che uccida il vecchio zio Pietro? Parla, parla: io mentirò, io ucciderò, io farò tutto quello che tu vorrai per amor tuo. Ma restiamo qui soli. Soli. Lascia andare questi signori che io odio perché preferiti da te: restiamo soli, restiamo soli, Paska, occhi di stella...»

E la gente cominciò ad andarsene; ma avendo veduto i piccoli occhi del padrone rifulgere a poca distanza, Paska saltò giù dalla sporgenza della roccia, e Basilio si scosse dal suo sogno appassionato. Dal basso ella gli disse:

«Ci rivedremo a Nuoro qualche volta, se tu verrai a cercarmi. Verrai?...».

«Non lo so», egli rispose sgarbatamente.

La seguì con gli occhi, la vide saltar svelta di pietra in pietra, voltarsi per chiamare il cagnolino che le corse dietro, e sparir nel crepuscolo. E rimase solo: udì le voci e le risa perdersi lentamente nel bosco, dietro le roccie, nel rosso novilunio; poi vide l'orizzonte diventar livido e poi nero come un focolare spento. Allora tornò all'ovile triste e avvilito.

Dalla capanna ove era acceso il fuoco, usciva un buon odore d'arrosto; e al di fuori nell'ombra rotta dal barlume dell'apertura, Basilio vide pendere un corpo rossiccio con le zampe spezzate. Era la povera Fior di pervinca scorticata. Cercando di uscir dallo speco aveva ficcato la testa fra due pietre, e ricercandola Melchiorre l'aveva trovata morta.

Basilio palpò le coscie della bestia per assicurarsi che gli occhi non l'ingannavano; e non osò entrar nella capanna e si sdraiò al di fuori gemendo sommessamente.

«Sei ritornato?», chiese zio Pietro.

Egli non rispose.

«Tornato sei, Basilio? Cos'hai?»

«Sono mezzo morto, zio Pietro mio! Ho percorso tutto il Monte, ma vedo che avevo sbagliato strada. Ohi, zio Pietro mio, che sono morto.»

«Sta zitto!», gridò Melchiorre, che arrostiva allo spiedo i visceri della capra. «Se vengo fuori ti faccio morir davvero, e peggio del come è morta questa povera bestia.»

E Basilio tacque, trattenendo persino il respiro, con le orecchie tese come la sua lepre.

 

3Voce per aizzar le bestie.

4Io mi segno la croce,

la vera croce,

la croce vera,

la Maddalena,

San Francesco,

San Filippo,

San Giovanni;

morte mai non m'inganni,

né di giorno né di notte,

fino all'ora della morte,

fino all'ora della fine;

l'angelo serafino,

l'angelo bianco;

In nome del Padre,

del Figliuolo e dello Spirito Santo.


5Fresca siete quale rosa

fresca siete quale giglio,

Madre del Santo Figlio,

Madre del Figlio Santo,

In nome del Padre,

del Figliuolo e dello Spirito Santo.

© Grazia Deledda







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