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Il vecchio della montagna
Capitolo 08
di Grazia Deledda
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Capitolo 08

Zia Bisaccia preparava la salsa sciogliendo la poltiglia delle noci entro una conculina di creta rossa. Con una mestola di legno traeva l'acqua bollente dal paiolino e la versava sulla poltiglia: il fumo caldo la avvolgeva come in una nuvoletta. Il marito, seduto coi ginocchi serrati, curvo sopra di sé in atteggiamento di chi vive in continui timori, guardava in silenzio, seguendo con gli occhietti celesti ogni movimento della donna. Ella estrasse dal paiolino un maccherone e accostandosi la mestola alta bocca lo addentò.

«Son cotti. Cala giù il paiolino, Bakis.»

L'ometto s'alzò di scatto, afferrò per l'ansa il paiolino, lo sollevò e lo depose per terra bruscamente, soffiandosi sulla palma della mano scottata.

«Sciocco, pazzerello, non lo sapevi che scottava l'ansa?»

Zio Bakis non si lamentò per non provocarla oltre; si ripiegò con buona grazia sui ginocchi e presa la mestola cominciò ad estrarre i maccheroni dal paiolino, versandoli man mano sulla salsa che zia Bisaccia rimescolava.

Adesso la nuvoletta avvolgeva marito e moglie; sul focolare la fiamma saliva gialla nell'anello ardente del treppiede vuoto.

«Zia Caterina», disse Basilio, che sorrideva beato mostrando tutti i suoi denti scintillanti; «levo via il treppiede? Altrimenti cuoce il diavolo.»

«Siediti sopra, se non lo puoi vedere sul fuoco.»

«Chi, il diavolo?»

«No, no, il treppiede», disse bonariamente zio Bakis.

«Sta quieto, figlio mio.»

Conditi i maccheroni, zia Bisaccia preparò il pane e il vino e attese i figliuoli, ma suonarono le otto, suonarono le otto e mezzo e le nove, e i figliuoli non rientrarono.

Finalmente ne ritornò uno, somigliante assai al fratello bandito, alto, bianco e con gli occhi azzurri; ma la berretta gli scivolava sul capo, le sue gambe si piegavano, ed egli rideva stupidamente, ubriaco fracido.

La madre cominciò a gestire e a gridare:

«È per questo che ti ho atteso? Ubriacone, rovina case. Ceniamo, Bakis. Vedi se val la pena di attendere i tuoi figli per cenare».

«Ceniamo», rispose l'uomo rassegnato.

Il giovinotto taceva, intento a tener ferma sul capo la berretta che non voleva starci: prese solo un maccherone, lo masticò, lo sputò.

«Oh, non ti vanno? Cosa vorresti, bellino? Porchetto arrosto, vorresti?»

«Pare così!», egli balbettò, e ricominciò a ridere piano piano, fra sé e sé, come ricordando cose molto allegre; poi tese la mano per versarsi da bere, ma la madre tolse rapida la bottiglia e la sollevò minacciosa.

«Se vuoi, te la rompo sulla testa!»

Egli continuò a ridere.

Basilio e zio Bakis mangiavano intanto avidamente, prendendo dalla conculina i maccheroni a grandi cucchiaiate, tenendosi un pezzo di pane sotto il mento per raccogliere la salsa gocciolante dal cucchiaio di legno. Tacevano, e non s'intromisero neppure quando zia Bisaccia, vedendo il figlio alzarsi barcollante per andarsene, gli si gettò sopra e lo percosse e lo fece seder di nuovo.

«Fermo lì, fermo lì! O che vuoi andare dove sono i tuoi fratelli? In gabbia o nel bosco? Non bastano due, anzi tre? Che vi ho fatto nascere per questo? Fermo lì, e non ti muovere! altrimenti la notte di Natale la ricorderai a lungo.»

Ed egli continuò a ridere; ma appena la madre si fu seduta, si alzò di nuovo, e di nuovo ella lo rincorse, lo spinse indietro e chiuse la porta a chiave.

Zio Bakis accennava a Basilio di tacere, e socchiudeva un occhio e si stringeva le labbra con due dita: e Basilio mangiava, guardava e taceva.

Era così felice che anche una scena di sangue non lo avrebbe turbato.

Ma nonostante la prudenza di zio Bakis, la moglie se la prese con lui, dopo aver spiegato per terra una stuoia e costretto il figliuolo a sdraiarvisi.

«Li vedi i tuoi figli, li vedi, ometto di pasta, li vedi, ometto dagli occhi di gatto? Non era meglio lasciarli nel seno del Signore? Per allevarli così, non era meglio che tu non ti fossi mai ammogliato, e fossi rimasto sempre nel tuo ovile, nella tua tanca, come una faina che sei? E questi son uomini? Uomini sono questi!»

Come Dio volle zia Bisaccia, rimessa in ordine la cucina e imposto al marito di non uscire, né di permettere al figliuolo di muoversi, se ne andò a letto. Zio Bakis respirò.

Chiese a Basilio di dove era, chi era la sua famiglia, quanto i Carta gli davano per salario, e se zio Pietro era sano e che faceva e come passava il tempo, e se l'ovile veniva frequentato da banditi.

«Pietro carta!», esclamò accavalcando le gambe, e stringendo le mani attorno al ginocchio. Stette un momento in silenzio, con gli occhietti illuminati da lontani ricordi, poi riprese: «Bravo uomo quello lì! Mi ricordo, quando eravamo giovani, ed io facevo all'amore con Caterina, una notte di Natale come questa, che io non avevo nulla da regalar alla mia innamorata, vado al suo ovile e gli dico: "Pietro, mi lasci rubar un porchetto dal tuo padrone? Ti do cinque lire". Benché fossimo molto amici, egli mi cacciò via insultandomi. "Io non vendo la mia fedeltà per uno scudo! Vattene, e se ti salta in testa di toccar nulla da queste parti, vedrai che domani non passerai il giorno di Natale in compagnia della tua innamorata." Io me ne andai ridendo di mala voglia, e non sapendo dove meglio batter la testa capitai nell'ovile del mio futuro suocero. In quelle vicinanze ricordai che fra le altre c'era una torma di porchetti da regalare a certi giudici di Sassari, che dovevano far il processo di un fratello di Caterina. Che faccio io? Mi avvicino come un ladro, entro nella mandria, prendo per il muso, stringendoglielo forte, uno dei porchetti, e gli immergo la lesina nel cuoricino.»

«Era di vostro suocero?», chiese Basilio mentre zio Bakis col pugno stretto faceva atto d'immerger la lesina nel cuoricino d'un invisibile porchetto.

«E di chi dunque? E l'indomani il porchetto fu mangiato qui, da Caterina, in buona compagnia.»

«Ma...», disse Basilio con ammirazione, «e i vostri suoceri e la vostra innamorata non s'accorsero che il regalo era stato rubato a loro?»

«Macché! Macché! Ma quel furbo di Pietro Carta, saputo che mancava un porchetto dall'ovile di mio suocero, indovinò subito la verità, e un giorno che passavo davanti alla sua capanna, lo salutai e gli dissi ridendo: "e oggi me lo dài un porchetto?" ma egli raschiò, sputò fra i suoi due piedi, e non rispose neppure. Dopo quel tempo la nostra amicizia andò scemando: adesso è da molto che non lo vedo: mi dicono che è cieco del tutto.»

«È cieco, sì, ma sente e ascolta!», disse maliziosamente Basilio. «È sempre lo stesso.»

E guardò sorridendo zio Bakis, poiché adesso l'ometto gli sembrava uno di quelli per i quali è stato inventato il proverbio sardo: ribu mudu, tiradore6; e stava per raccontargli delle frequenti visite dei banditi all'ovile Carta, quando s'udì un passo furtivo nel cortiletto, e un altro dei padroncini mise prudentemente la testa entro la porta.

Visto che la madre non c'era tornò indietro e poco dopo rientrò con alcuni compagni, i quali s'avanzarono in punta di piedi tentando così di render meno gravi i loro passi appesantiti dagli scarponi e dal vino.

Eran quattro giovanotti paesani; uno altissimo, pallido, con una lunga barba nera; il secondo piccolo e olivastro, con occhi brillanti; il terzo rosso e calvo, coi baffi biondastri; e il quarto finalmente aveva gli occhi azzurri, timidi e dolci nel viso bianco completamente sbarbato. Questi due ultimi, sebbene di tipo così diverso, erano anch'essi figli di zio Bakis e di zia Bisaccia. Il giovane alto e quello dagli occhi brillanti si avvicinarono all'ometto, battendogli le mani sulle spalle e sul capo, con carezze figliali; ed egli accennò loro di sedersi e di star zitti.

«Se mia moglie si sveglia e scende qui, ci caccia via tutti col manico della scopa. Sedete, ma... silenzio!»

«Altro che scopa! Con la scure!», disse Basilio.

«Chi è questo giovinotto?», chiese quello dalla barba nera.

«Il servo di Melchiorre Carta.»

«Ragazzotto, come va il tuo padrone?»

«Coi piedi!»

«Dico, d'amore come va? Pare che vada proprio coi piedi!»

Risero tutti tranne l'ubriaco che non s'era mosso e russava emettendo sibili e sbuffi sonori.

Intanto i due fratelli preparavano la cena. Se la madre avea nascosto l'agnello pasquale e cotto i maccheroni tradizionali per rispettar la vigilia e risparmiare il cacio, essi avevan portato segretamente dall'ovile altri due agnelli, e trovato ben il modo di preparare agli amici il vino, il formaggio, il pane bianco, e persino il caffè e un cestino di uva dorata ancor fresca. Basilio sottrasse destramente un grappolo e lo gettò nella sua bisaccia.

Uno per parte del focolare, gli agnelli infilati in lunghi schidioni neri cominciarono a friggere, gocciolando il grasso sulle brage, dalle quali saliva una nuvola di fumo odoroso. E zio Bakis narrò altre argute storielle della sua giovinezza, finché fu lasciato solo a guardia degli agnelli e del figliuolo ubriaco. Gli altri figliuoli e i compagni se n'andarono a messa; e Basilio li seguì per un tratto di strada.

Al soffio della tramontana si scosse da quella specie di ebbrezza in cui le storielle di zio Bakis e la cena e il vino lo avevano immerso: avvicinandosi alla casa di Paska l'angoscia e la paura lo riprendevano. L'avrebbe dunque riveduta fra poco, fra cento, fra cinquanta, fra venti passi! Li contò, a capo chino, e al rumore dei suoi scarponi ferrati s'accompagnava il palpito del suo cuore.

«Se son più di venti passi ella aprirà, se no, no.»

E furono più di venti, perché egli volle così; ed ella aprì.

Aprì, lo attirò dentro, chiuse la porta. La luce scendeva dall'alto, giù per le pareti della scala bianche polverose; gli scalini d'ardesia, turchinicci ed umidi, la balaustrata nera che sembrava un serpente, le ombre che vagavano sul pavimento rotto, ogni cosa aveva alcunché di triste e di equivoco in quel pianerottolo umido simile al fondo d'un abisso; e Basilio, guardava in alto per cercare il lume, e pensava che per goder la compagnia di Paska meglio di quel luogo era l'orizzonte rosso di Monte Bidde. Ma a un tratto Paska gli prese le mani e cominciò ad accarezzarlo. Egli ricordava la gattina dell'ovile, tale e quale così, come Paska, tutta calda e molle: e non sapeva se doveva baciarla o morderla. Non aveva mai baciato altra donna: ma si sentiva uomo fatto, così alto, così forte da poter contendere a tutti la piccola gattina sua, la donnina tutta morbida e dolce che gli si avvinghiava al collo. E in un impeto selvaggio la sollevò e la strinse così forte da farle male.

«Ohi, che fai, agnello?»

Egli la lasciò e cominciarono a chiacchierare.

«Dimmi, dunque, il figlio di zia Bisaccia...»

Basilio disse tutto ciò ch'ella gli fece dire sul conto di Melchiorre e del figlio di zia Bisaccia, quello che frequentava l'ovile, e a quali ore e in quali giorni soleva indugiarsi nella capanna, e come portava sempre roba da mangiare.

«Roba rubata! Ma questo è nulla!», ella disse pensierosa. «Egli ruba vacche e buoi... Ah, già! figlio di suo padre! Tu credi che il patrimonio, zio Bakis lo abbia fatto col lavoro?»

Basilio ricordò la storiella del porchetto.

«Già! già!»

«E mio cugino ci va spesso con quella buona lana? Girano assieme?»

«Sì», rispose Basilio; e non era vero.

«Buona compagnia! Andranno assieme a rubare.»

«Eh, chi lo può sapere?»

«Raccontami...»

Egli mentiva, ma gli sembrava di dire la verità; per far piacere a lei avrebbe calunniato suo padre.

E l'ora passò: e sulle loro anime le passioni gettavano ombre deformi come il lume dall'alto su quel fondo di scala.

Giunta l'ora di separarsi Paska dovette scuoterlo per richiamarlo dall'ebbrezza in cui lo aveva immerso.

«Ci rivedremo?», egli chiese, facendosi triste.

«Sempre, se tu vorrai.»

«Io vorrei sempre! Ma il padrone non mi lascia libero!»

«Ti lascerà, ti dico che ti lascerà!», ella rispose con ironia. «Va tranquillo.»

Lo accompagnò fino alla strada, battendogli una mano sulla schiena e ripetendo carezzevole:

«Come ti sei fatto alto in pochi mesi, agnello mio, come ti sei fatto alto! Addio.»

Egli se n'andò stordito, felice e triste, pensando già al modo di ritornar al più presto ad un nuovo convegno.

Rientrò nella cucina di zio Bakis prima che i giovanotti fossero tornati dalla messa. Gli agnelli erano cotti e la lor crosta rossa e screpolata luceva di grasso, alla tenue luce del fuoco ridotto in brage. L'ubriaco dormiva sempre, e nella calda penombra, tra i fumi dell'arrosto l'ometto vigilava un po' ansioso sembrandogli di sentir rumori nell'interno della casa.

«E gli altri?», chiese sottovoce a Basilio.

«Chi, gli altri?»

«I miei figli e i compagni.»

«Ah!»

«Dove hai la testa, ragazzotto? Non sei stato a messa?»

«Sì... sì... ma poi li ho perduti di vista.»

«Mi sembra che tu abbi sonno.»

«Sonno? Sì, forse ho sonno.»

«Forse! E còricati allora!»

Basilio aveva bisogno di trovarsi solo, di raccogliersi, di ricordare e rivivere nell'ebbrezza dell'ora trascorsa.

«Pigliati quel sacco», disse zio Bakis, «e dormi se vuoi dormire.»

Basilio prese il sacco, lo stese sul pavimento e vi si gettò sopra, lungo disteso a pancia a terra, nascondendo il viso sulle braccia incrociate. Chiuse forte gli occhi, e rivide tosto il pianerottolo illuminato dall'alto, sentì l'agile busto di Paska fra le sue braccia, le calde labbra di Paska sulle sue, e provò un piacere più intenso di quello provato nella realtà. Eccola, essa è così vicina, così ardente che il suo alito brucia come il fuoco. Si volse supino, strinse le mani intrecciate sugli occhi, mentre il sangue gli batteva forte sul cranio e sulla nuca, e cominciò a parlare con trasporto, dicendole cose che non le aveva detto e non saprebbe dirle giammai. Il piacere era così intenso, così intenso lo spasimo, che alcune lagrime gli bruciarono le palpebre; riaprì gli occhi e solo allora si accorse che i figli di zio Bakis erano rientrati, e che cenavano.

«Giovinotto», gli disse il calvo, «hai la febbre? Alzati e mangia.»

Basilio si sollevò alquanto, e vide che i giovani, trinciati gli agnelli sul tagliere di legno, uno dei cui angoli era scavato per far da saliera, mangiavano avidamente, tenendo la carne fra le mani e strappandone grandi morsi coi denti incisivi.

Egli s'alzò e mangiò in silenzio; poi si gettò di nuovo sul sacco e chiuse gli occhi. Ma non poté raccogliersi come prima: attraverso il sogno gli arrivavano le chiacchiere sommesse dei giovanotti, le loro risate represse, il tintinnar dei bicchieri e il russare dell'ebbro. Ma a un tratto questi si stiracchiò, sbadigliò, e senza aprir gli occhi chiese:

«Che ora è? Imbrunisce?».

Gli altri risero: egli aprì gli occhi stupiti, si sollevò e ricadde.

«Chi è questa gente? Dove siete, fratelli miei, dove siete? Io non vi vedo. Dove sono io?»

«Sei nella vigna, fratello mio. Dormi, dormi.»

«Io ubriaco, io?» Egli si sollevò di nuovo, puntando i pugni all'indietro sulla stuoia: e i suoi occhi rossi avevano un'espressione minacciosa. «Chi sei tu, nemico?»

«Zitto! se tua madre si sveglia!», disse zio Bakis agitando le braccia spaventato.

«Mia madre? Chi è mia madre? Dov'è? Fatela venire. Io non ho né madre, né padre, né fratelli; io ho nemici e rivali!» Sollevò il pugno, per cui, mancatogli il sostegno da quel lato, ricadde. «Io ho solo un fratello, ma quello non c'è, è bandito, è lontano. Dove sei, fratello mio, fratellino mio, dove sei?»

Sollevò l'altro pugno, e così, supino, a braccia aperte, cominciò a singhiozzare, invocando ad alta voce il fratello bandito.

«Al diavolo il vino e chi te lo versò!», imprecò il fratello calvo, precipitandoglisi sopra e chiudendogli la bocca con le mani. «Taci, perdio, o t'affogo.»

L'ubriaco rantolò, ma non oppose resistenza, e a poco a poco si riaddormentò. Ma il suo accenno al fratello lontano offuscò l'allegria del banchetto. Finirono di cenare parlando tristemente del bandito.

«Ieri l'han visto nell'ovile dei Carta, me l'ha detto questo ragazzotto», disse zio Bakis accennando Basilio.

«Parleranno di Paska Carta!», sogghignò il giovine barbuto.

«Perché», si domandò Basilio.

Zio Bakis sospirò e imprecò contro Paska.

«Perché? Perché?», ripeté Basilio.

«Per queste cose mio figlio è andato in malora: per le male femmine. Rubava di casa per loro, e chi ruba in casa, ruba anche fuori di casa.»

«E adesso?»

«Ora pare l'abbia lasciata», disse uno dei fratelli.

E l'altro:

«Oh, l'ha lasciato lei! Sull'albero caduto tutti batton la scure».

«Attento, quando va da Melchiorre Carta. Quello sciocco può fargli qualche dispetto.»

«Che ne sa lui, quella faccia di volpe?», disse il calvo con disprezzo.

«Se quella... ha gli amanti a mucchi! E non era con mio fratello soltanto che lo tradiva, e per cui l'ha lasciato!»

«Ma se è lui che l'ha lasciata!»

«Chi, Melchiorre?»

«No, mio fratello.»

Basilio tremava: il suo sogno si cambiava in incubo, la bella immagine di Paska dal piccolo volto lucente si copriva di tutta la fuliggine della cucina di zia Bisaccia. La sua ebbrezza diventò angoscia: ricordò ch'era stato sempre geloso e non a torto, non a torto: non solo i signori doveva odiare, ma anche i paesani... i pastori, i banditi, gli straccioni...

Si sollevò e ricadde come l'ubriaco: voleva sputare in volto ai maldicenti che calunniavano la sua Paska, voleva uscire, correre, battere alla porta di lei e gridarle:

«E vero che sei l'amante di tutti? Anche dei ladri?».

Ma non si mosse.

Aveva sognato? Rievocò il convegno in tutti i suoi particolari, sentì ancora sulle labbra il sapore ardente dei baci di Paska, e tremò ed ebbe voglia di piangere.

Possibile che tutto fosse vero? Che Paska era l'amante di tutti, che Paska aveva baciato anche lui?

Ma perché anche lui? Con quale scopo? Egli era un povero ragazzo senza avvenire; egli non aveva agnelli, né denaro, né altra roba da regalarle. Perché ella dunque doveva ingannarlo, se non gli voleva un po' di bene?

No, la calunniavano. Quei giovanotti l'avevano visto entrare da lei, e adesso parlavano così per invidia, per farlo soffrire e morire.

«Ma io dormo e non sento nulla!», disse fra sé; e stette immobile con le tempia pulsanti, come steso su un letto di torture.

I giovanotti finirono di cenare, fecero il caffè, così per un gusto, versandone metà sul fuoco e l'altra metà buttandola; infine se n'andarono ubriachi e barcollanti.

Basilio li sentì cantare in lontananza, rauchi come tori selvaggi: zio Bakis rimetteva in ordine la cucina, camminando in punta di piedi e spalancando la porta perché l'aria dissipasse gli odori e i vapori della cena.

L'ora passò: lo sfondo della porta si illuminò d'una luce vitrea; tornarono i figli di zio Bakis e si gettarono sul pavimento addormentandosi d'un sonno brutale, ma Basilio non poté dormire. Sentiva tutte le membra slegate, le giunture dolenti, e il pensiero stanco di fantasticare. Doveva partire e non poteva muoversi. All'alba si assopì e Paska gli tornò vicina, soave e tenera; il piccolo viso splendeva, le labbra calde e rosse si posavano sulle sue con infinita, infinita dolcezza. Era il torpore strano dei meriggi sulla montagna, la luce intensa e la dolcezza snervante del sole, la carezza delle erbe, il susurro della selva e del vento.

Una scossa forte, una voce brutale lo destarono.

«Cos'è?»

«Levati, vattene, ch'è ora.»

Gli occhi gli si aprirono a stento e videro l'ingrata figura di zia Bisaccia ritta fra quegli uomini ubriachi addormentati per terra.

«Non hai sentito? È ora di partire.»

«Vado, vado!», egli disse spaventato.

E si alzò, uscì barcollando nel cortile. L'aurora invernale gettava un triste chiarore sul terreno indurito e imbiancato dal gelo; il cielo s'era fatto basso e bianco: il vento taceva. Basilio rabbrividì, ripreso dal desiderio di correre da Paska per rivederla, per sapere, sapere, sapere... Perché lo aveva svegliato quella strega di zia Bisaccia? Perché non lo lasciavano neppur dormire? Perché zio Bakis era così maligno? Perché i suoi figliuoli così malvagi? Perché Paska non poteva essere sua moglie, subito? Perché faceva tanto freddo? Perché il mondo era così brutto e la vita tanto triste?

«Cosa fai lì?», urlò la donna, affacciandosi con la tasca e porgendogliela, «Va presto, va subito, ché altrimenti se la pigliano con me i tuoi padroni. Tocca via, presto.»

«Io vado da Paska», pensò Basilio infilandosi la tasca sulle braccia.

«Io vado a messa», disse la donna. «Andiamo assieme un tratto.»

Si avvolse nella tunica e si trasse dietro Basilio assonnato e triste: i rintocchi d'una campana risuonavano striduli e senza vibrazioni nell'aria gelata del melanconico mattino.

Zia Bisaccia accompagnò Basilio fino alla strada che metteva fuori dall'abitato, e si volse finché non lo vide sparire.

Egli andò dritto, come spinto dalla volontà di lei, e non si volse e non tornò indietro; ma il suo cuore nuotava in un mare di amarezze.

Dagli occhi appannati dal freddo, dal sonno e dal dolore, gli sprizzavano grosse lagrime che solcandogli le guancie gli bagnavano le labbra; ed avevano un sapore acre e salato.

E via, via, su su, sotto il cielo triste e candido che prediceva la neve; il gelo imbiancava le chine e induriva i cespugli su per i sentieri che la sera innanzi egli aveva sceso correndo, col cuore in festa; da Nuoro salivano, spezzati e sottili, i rintocchi delle campane: sul freddo candore dell'orizzonte le montagne sorgevano livide e il mondo intero sembrava morto.

Arrivato a Riu de Seuna si fermò un momento; si sentiva la gola arsa, gli pareva d'aver la febbre. Trasse il grappolo dell'uva, e siccome in fondo alla bisaccia s'era sporcato, si curvò e lo immerse due volte nel ruscello; poi lo sollevò all'altezza del viso e cominciò a piluccarlo. Ogni acino, giallo, diafano e lucente come una perla, rifletteva il suo volto con i lineamenti comicamente deformati; ed era dolce come la goccia del miele fresco; ma non bastava, no, per dissipare l'amaritudine del suo piccolo cuore.

6Rio silente, travolgente.

© Grazia Deledda







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