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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 07
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 07 La domenica, dunque, si annunziò come un giorno di grande festa per tutti.

Era di maggio, il giorno di Pentecoste. Già dall'alba le campane suonavano, e un usignolo era venuto fin sull'orto a sgranare sulle rose e sui fiori d'aconito sbocciati sul muro, le sue note perlate.

Dal finestrino della sua stanzetta zio Taneddu vedeva, nel cambiarsi la corta camicia cucita e rattoppata dalla sua prima moglie, le vecchie querce nere, già lontane nella valle, tutte dorate dalle foglie nuove, e i macigni di granito scuro sui monti coperti dal fiore rosso del musco. Perché anche lui non doveva rivestirsi di colore, e ridare a una donna le chiavi della cassa di sua moglie?

Per adesso indossava il costume ancora nuovissimo da vedovo; aprì il finestrino e vi si specchiò. Sullo sfondo tremulo del paesaggio, là dentro il vetro, si vide piccolo e rossiccio, col suo corpetto di velluto, la sua berretta nuova, come uno di quei contadini da presepio verniciati in nero.

E pensava che anche Mikedda era piccola e magra; ma doveva crescere e forse anche ingrassare; i polsi li aveva forti, e diceva lei ch'era buona a pulire il grano e la farina e a far da sola il pane di un ettolitro di frumento.

"Adesso sentiremo dalla padrona Agostina quanto c'è di vero in tutto questo."

Scese, guardò se in cucina le fave che aveva messo a cuocere bollivano, guardò se i buoi mangiavano. Mangiavano, i buoi, nel cortiletto caldo, e pareva salutassero il padrone col lento scuotere della coda; ed egli sedette un momento sulla pietra ove di solito la sua prima moglie s'indugiava a filare e cucire, e pensò un'ultima volta se il passo che faceva era ben fatto. Gli parve che appunto lo spirito grave della sua prima moglie, aleggiando intorno, colle ombre grandi dei buoi, col lento smuoversi delle loro code, con quel silenzio stesso di casa deserta fatto più grave dai gridi di fuori e dal suono delle campane, gli dicesse:

"Va dalla padrona Agostina; se lei dice che è bene è bene."

Ed egli andò dalla padrona Agostina; prima però si assicurò che il brevissimo tratto di strada era deserto: solo in fondo, nel sole del crocevia, si vedevano passar fiammeggiando figure di donne vestite a nuovo che andavano a messa. Taceva il suono dell'incudine del fabbro, laggiù, e la porta del ciabattino era chiusa. Sul portone massiccio dei padroni, il contadino vide una figura disegnata col gesso, con un uovo per testa e due zampe di gallo; si fermò ad ammirarla, poiché la sapeva opera di Gavino e gli sembrò anzi che rassomigliasse un po' a lui. Poi entrò.

Il cortile era deserto, pieno di sole; la vite spiegava già intorno ai due pilastri del portichetto le sue foglie di oro argentato; giù in fondo, attraverso la porta della cucina e l'uscio della camera spalancati, la padrona Agostina, sulla sua scranna davanti al camino ancora acceso, pareva l'immagine dell'inverno ritiratosi in una grotta.

Il contadino andò dritto a lei, sedette a un cenno della canna, aprì bene le gambe con le brache nuove gonfie come palloni.

"Sola l'hanno lasciata, padrona!"

"Nuora mia è andata a messa, le ragazze son di là. C'è Gavino."

Gavino scriveva il suo compito di scuola con un ginocchio sulla sedia e gli occhi di qua e di là a seguire un moscone agitato tra il vetro e lo sportello: nel sentire la voce di zio Taneddu si precipitò all'uscio e guardò malizioso. La sua presenza rallegrò, ma imbarazzò il pretendente: eppure si guardarono, Gavino e lui, come due vecchi amici che si fossero confidata ogni cosa.

La nonna agitò la canna per mandar via il ragazzo; allora il contadino si accomodò la berretta e disse:

"Padrona mia, io vengo a domandarle in sua coscienza informazioni di Mikedda."

La vecchia padrona era quasi allegra, quella mattina: sentiva anche lei l'aria della festa e aveva voglia di scherzare.

"La vuoi forse prendere al tuo servizio?"

"E può essere anche, se lei me la cede!"

"Io, per me, te la cedo. Ma lei, quella mocciolosa, vuol venire?"

"E può essere anche, padrona mia!"

"E allora le informazioni, poiché ti rivolgi alla mia coscienza, son queste. La ragazza è ragazza: astuta e innocente nello stesso tempo. Sa voler bene a chi le vuol bene, ma sa fare anche il fatto suo. Lavora ed è forte e sana. Mangia, però, e d'inverno ha i geloni."

"Ma è vero che sa fare il pane?"

"Lo sa, sicuro."

"Lo sa anche infornare?"

"Lo sa."

"E sa lavare e cucire?"

"Lavare, sì; cucire, qui cuce poco, perché fanno le donne; ma può imparare."

"Certo, bisogna almeno che impari a rattoppare. Un contadino come me strappa facilmente i suoi calzoni. Oh, e un'altra cosa, padrona mia: la ragazza è onesta?"

Ella lo guardò di sbieco.

"Questo lo puoi sapere tu più di me."

"È vero, padrona mia. Lei parla come il Vangelo."

Richiamata al Vangelo, ella si credette in obbligo di fare il solito sermone: ricordò al contadino la sua prima moglie, che lavorava giorno e notte e non sollevava gli occhi davanti agli uomini.

"Tu l'hai presa come la lepre calda dal nido: e lei aveva i denari per comprare un carro, un aratro, un paio di buoi e farsene la dote. Così siete andati bene, avanti, nel nome di Dio."

"Dio me l'ha data e Dio me l'ha ripresa", egli disse commosso. "Aveva dieci anni più di me e mi ha fatto come da madre."

"E adesso tu farai come da padre a questa mocciolosa; e così sia."

"E così sia, padrona mia."

Stettero un momento in silenzio, come dopo una preghiera; poi lei domandò:

"Quando avresti intenzione di sposarla?"

"Giacché la cosa si ha da fare, si faccia: il mio frumento promette bene, e l'orzo anche. Io vorrei sposare la ragazza al tempo della raccolta: mi dice che sa mietere."

"Allora sarebbe in luglio: noi cercheremo allora un'altra serva. E, mi raccomando; non toccare la ragazza prima delle nozze: tanto potete aspettare, il tempo e così breve."

Egli fece un gesto vago, socchiudendo gli occhi.

"Speriamo che Dio ci assista."

"Stasera", disse infine lei, "vengono qui a cena Stefano e suo padre: anche noi salderemo l'anello della catena. Ebbene, accostati anche tu: mangerai un boccone con la tua ragazzina."

Mentre egli se ne andava, né allegro né triste, ma tranquillo come dopo aver concluso un affare, rientrò dalla messa Nina accompagnata da una donna anziana, avvolta in uno scialle nero. Era una vedova decaduta che, per favore e anche per guadagnare qualche lira, andava nelle case a cucinare quando c'erano pranzi o cene di lusso.

Nina salutò il contadino facendogli un cenno col capo come per dirgli "abbiamo concluso, dunque!", poi condusse la donna a vedere le provviste già fatte per la sera. Sulla tavola di cucina, lavata per l'occasione, si stendeva un intero capretto scorticato, roseo, coi visceri rossi e violetti e gli occhi di cristallo nero velati dalla malinconia della morte; e accanto gli giacevano due grosse lepri col pelo biondo e grigio e ancora le orecchie dritte rigide come nell'atto della fuga paurosa; e dei polli nudi, pallidi granulosi come intirizziti per la loro nudità, con solo un ciuffo di penne sulla testa. Trote e sardine d'argento brunito luccicavano entro un catino verde pur esso luccicante; e un fresco monticello di piselli, e carciofi che parevano grossi boccioli di rose violette, e uova, uova, uova bianche d'alabastro, completavano quel quadro di natura morta.

La vedova decaduta, con le mani pallide e fini fuor dello scialle nero toccava e divideva ogni cosa; e i suoi occhi avevano la melanconia di quelli del capretto morto. Le provviste erano abbondanti, ma guardando intorno per la cucina in cerca delle padelle e delle pentole, ella vide solo le ciclopiche ma inutili casseruole di rame; mancavano i recipienti moderni, per fare il dolce, per cuocere e servire intatti a tavola i carciofi e il pesce.

"Porterò io quello che manca", disse con la sua voce piana, "ho ancora tutto."

"È suocera mia che vuole le cose all'antica", disse Nina per scusarsi.

Intanto Mikedda era scesa, lunga verdolina e profumata come uno stelo d'avena; e dietro di lei Gavino che cominciò a far rotolare le uova sulla tavola, finché uno ne cadde spaccandosi e sciogliendosi per terra come un frutto troppo maturo.

"Si capisce, dove passi tu passa la rovina."

Gavino s'era chinato e sorrideva all'uovo rotto, guardandolo come una meraviglia.

"Potevano caderne due, mamma!"

"E tu, Mikedda, che fai? Ti chini tu pure a guardare un uovo rotto, mentre ti si aspetta per rivolgerti una domanda di matrimonio?"

Curva sul pavimento, Mikedda guardava di sfuggita verso la stanza attigua e aveva una strana paura ad avvicinarsi alla vecchia padrona; le pareva che la vecchia padrona avesse la sua sorte nel pugno.

"Se lei ha detto di sì è come mi abbia sposato il sacerdote", pensava.

Ma invece di rallegrarsi, ora che il suo sogno poteva dirsi compiuto, sentiva una tristezza oscura: pensava che una volta legata, una donna non si può sciogliere più se non con la morte; e che zio Taneddu, sebbene piccolo, era, in fatto d'onore, grande e forte come il gigante Golia.

Almeno qualcuno avesse protestato per il loro matrimonio; almeno qualcuno avesse dato un solo segno di gelosia! Nulla. I padroni coi padroni, i servi coi servi.

S'avvicinò esitando al camino, e cominciò a passarsi sul dorso della mano destra la palma della sinistra come quando aveva i geloni.

"Ebbene", disse la vecchia padrona, "anche questa mi tocca di fare; la paraninfa. Tu sei contenta?"

"Se sono contenti i miei padroni sono contenta anch'io."

"Ebbene, allora va dai tuoi parenti e di' loro che ormai sei a posto anche tu."

Ma prima di andare dai suoi parenti, Mikedda cercò la padrona piccola con la speranza di essere almeno da lei compianta.

Annarosa stava nell'orto, seduta sull'erba all'ombra del pesco: aveva un libro, ma non leggeva, e lasciava che le formiche e le coccinelle attraversassero le pagine aperte sulle sue ginocchia. Non le riusciva di leggere: le pareva che la luce abbagliante del mattino di maggio stendesse un velo iridato fra i suoi occhi e il libro.

Sognava: e pure guardando sulla cima della valle gli alberi che spandevano come dei raggi neri sull'erba lucente, e i cavalli che pascolavano e pareva curvassero la testa per comunicare un segreto alla loro ombra, rivedeva la chiesa ov'era stata a messa quella mattina e le rose che si disfacevano sui vasetti dell'altare. Una s'era sfogliata, e il prete con la mano aveva allontanato i petali sulla tovaglia senza smettere di leggere il libro.

Così adesso ella pensava al giorno delle sue nozze, tentando di allontanare il ricordo di Gioele come il sacerdote allontanava davanti a sé, senza guardarli, i petali della rosa sfogliata.

D'un tratto mise giù il libro sull'erba e piano piano, come involontariamente, si stese tutta, col cuore contro la terra: e chiuse gli occhi, e pensò al mistero che l'aspettava. Le pareva che Stefano fosse lì, steso al suo fianco, e il calore del sole che la copriva tutta fosse la carezza di lui. Ma si ribellò: no, non voleva. Egli però insisteva: la guardava negli occhi e intrecciava le sue dita molli e calde a quelle di lei, come faceva in tutti quei giorni quando la nonna li mandava a star soli nell'orto... La nonna conosceva la vita. Davanti agli altri Stefano pareva distratto, lontano, e Annarosa pensava a Gioele; ma appena si trovavano soli egli si volgeva a lei, la stringeva con violenza, le affondava il viso sul collo come volesse sprofondarsi tutto in lei, le dava dei baci che la portavano via in un turbine facendole dimenticare ogni cosa passata.

Un giorno l'aveva a tradimento sollevata tra le braccia come una bambina e portata su di corsa per il sentiero dell'orto, minacciandola, se gridava, di metterla sopra il pesco e di lasciarvela. Poi si era piegato, con lei fra le braccia, sull'erba del ciglione, costringendola a rimanere un po' nascosta con lui, come facessero all'amore in segreto.

Ed ecco le pareva di essere ancora così e di tendere l'orecchio ai rumori dell'orto. Sì, qualcuno veniva; si sollevò un po' rossa in viso, vergognosa di essere sorpresa a sognare in quel modo; ma quando Mikedda le si piegò davanti e strappando dei ciuffi d'erba le disse con tristezza: "Ha risposto di sì la padrona. Sono anch'io a posto, adesso", ella si mise a ridere, divertendosi al dolore della ragazza.

"Ma se non lo vuoi, chi ti costringe a prenderlo? Puoi rispondere di no!"

Mikedda la guardava coi suoi occhi di bestia ferita.

"Lei ride adesso! Ma anche lei non rideva quando ha detto di sì."

Al ricordo Annarosa si oscurò in viso: aggrottò le sopracciglia e fece un gesto di sdegno per far intendere alla serva che nulla di comune esisteva fra loro; poi rimise il libro sulle ginocchia e cominciò a sfogliarlo guardandolo da vicino come cercasse una pagina che non trovava.

"Anche tu riderai un giorno", disse con tristezza. "Tanto è inutile piangere. Ricordati come piangevo, io, quei primi giorni, dopo Pasqua. Andavo su e giù e mi pareva di ammattire. Tutto mi girava attorno e avevo come delle allucinazioni. Il giorno di Pasqua, ricordi, il giorno della prima visita di Stefano, ho veduto l'altro passare nella strada; di mattina, l'ho veduto, e poi di sera, mentre stavate tutti a chiacchierare nella stanza da pranzo. Egli passava nella strada. Era vestito di chiaro con un cappello verde; l'ho sempre davanti agli occhi così, eppure ho l'impressione di aver sognato."

Mikedda s'era messa in ginocchio sull'erba, con gli occhi spalancati e le mani giunte; dimenticava la sua pena nell'ascoltare ancora una volta le confidenze della piccola padrona; e questa proseguì come leggendo qua e là nel libro la sua storia:

"Dunque, io mi avvicinai alla finestra e lo vidi. La mattina non mi aveva neppure guardato: adesso ero io a non volerlo guardare; ma le lacrime mi riempivano gli occhi, e d'un tratto sentii che egli si fermava e mi guardava; gli occhi gli brillavano come stelle. Allora, non so come, mi trovai sulla porta con lui. Mi prese la mano e, per un momento, io pensai di fuggire con lui. Poi tornai dentro. E non l'ho più veduto, non ho più saputo nulla di lui. Adesso mi pare sia già passato tanto tempo, e quasi non mi ricordo più di lui; ma anche lui non si ricorda di me. Eppure sono certa di averlo veduto. Sono certa", ripeté sollevando gli occhi pieni ancora di sogno, "gli ho preso anche le mani e mi sono asciugata le lacrime con le sue dita. Adesso non piango più. A che serve piangere? Eppoi Stefano è buono e mi ama più di lui. Se io gli facessi un torto sono certa che si vendicherebbe, sebbene sembri così calmo. Se sa che ho veduto l'altro, quel giorno di Pasqua, è capace di battermi. Invece l'altro è come un fantasma; sono certa che non gli importa più nulla di me: ed anche per me è come sia morto. Ma tu, dimmi, tu sapevi ch'era tornato?"

"No", disse Mikedda, "le giuro in coscienza mia che io non lo sapevo. Neppure il padre me ne ha mai parlato; nessuno l'ha veduto. Che egli abbia l'anello che rende invisibili?"

Annarosa si rimise a ridere, tanto Mikedda parlava sul serio.

"Vedi, dunque! Tutto è stato un sogno. Non parliamone più. E tu va dove devi andare."

Quando Stefano e il padre arrivarono, verso sera, la tavola era già apparecchiata, con un mazzo di rose nel mezzo. I posti erano otto. E mentre zio Predu con la barba ravviata che spiccava chiara sul velluto nero del corpetto, sedeva accanto alla nonna e il suo bastone pareva per conto suo salutare la canna dandole dei lievi colpettini, Gavino prese Stefano per la mano conducendolo attorno alla tavola e indicandogli per chi erano questi otto posti.

"Questo è per me; qui tu e Annarosa, e son tre; qui Agostino e la mamma, e son cinque; qui la nonna; porteremo qui la sua scranna; qui zio Predu; e qui anche lui."

"Chi, anche lui?"

"Zio Juanniccu. Lui non voleva, ma la nonna ha comandato. È lei che comanda. Sarà pulito: gli abbiamo fatto un vestito nuovo."

Parlava piano perché non sentisse la nonna, occupata a discorrere col vecchio: poi tacque perché Annarosa entrava dall'uscio di cucina, chiuso per l'occasione. Nell'aprirlo che ella fece, si vide una nuvola di vapori e le due vedove, Nina e quell'altra che correvano di qua e di là con piatti in mano.

Annarosa andò dritta a salutare zio Predu. Egli la guardò dal basso in alto sollevando il duro viso barbuto e parve stentare a riconoscerla.

"Ebbene, sei tu? E mettiti a sedere."

Ella si mise a sedere; Stefano si avvicinò e stette dietro, guardandole i capelli pettinati con insolita cura.

"E lasciatelo aperto quell'uscio", riprese il vecchio; "se entra un po' di fumo fa bene: è fumo d'arrosto. Non datemi troppo da mangiare; se no mi dimentico di dirvi quello che son venuto a dirvi."

Abbassò un momento la testa, si lisciò la barba.

"Ah", disse, poi, come ricordandosi, "ecco di che si tratta. Quando vogliamo romperla questa catena?"

"Ribadirla, volete dire!", esclamò Stefano, tentando di prendere la cosa alla leggera. Ma il padre, nonostante il suo tono volontariamente distratto, era serio, grave.

"Se fosse potuta venire qui la mia beata morta, avrebbe detto: più presto è, meglio è. Ma il Signore le ha aperto la sua porta e siamo qui soli senza di lei. Ebbene, io dico di lasciar passare almeno mezzo anno di lutto, e poi far sposare questi ragazzi."

"Va bene", disse la nonna, "se tu sei contento, Predu mio, contenti anche noi."

"Ma dove sono gli uomini?" domandò egli con un po' d'impazienza. "Non sono mai a casa! Agostino dov'è? Qui non vedo che questa cavalletta", aggiunse accennando a Gavino. "Apri quell'uscio, cavalletta."

Gavino aprì l'uscio; e il fumo odoroso di salse e di zucchero bruciato penetrò nella stanza. Allora zio Predu vide, attraverso la porta spalancata della cucina, sporgenti dal sedile del portichetto, i piedi di Juanniccu.

"Chiama tuo zio, cavalletta: digli che venga subito qui!"

Gavino obbedì; e zio Juanniccu entrò. Sbarbato, pulito, sembrava un altro. Sedette al posto che Annarosa subito gli cedette, e parve ascoltare con grande attenzione una storia che zio Predu raccontava.

E si rivolgeva proprio a lui, zio Predu, cosa che faceva piacere alla nonna. Ella vedeva tutto come dal fondo d'un sogno; e cercava di lusingarsi nella speranza che tutto potesse proseguire così, il figlio ravveduto, la nuora rassegnata a lavorare con le serve, Gavino sano e allegro, gli sposi felici, sempre ridenti come stavano adesso davanti alla finestra aperta della camera dell'orto; Agostino in giro a far gli affari per la famiglia anche nei giorni di festa; la cucina sempre odorosa di buoni pranzi; e zio Predu a proteggere e beneficare tutti come il dio della famiglia.

Eppure in fondo sentiva qualche cosa brontolare, qualche cosa tentar di rompere il velo del sogno; come un uomo sepolto vivo che batte e grida nella sua cassa per farsi aprire; e quando Nina le si avvicinò chinandosi per dirle che tutto era pronto ma che aspettava Agostino, egli volse gli occhi rapidamente verso la finestra della camera attigua, e più rapidamente li rivolse in qua, con un fugace splendore, ella ebbe quasi paura di quegli occhi e abbassò i suoi.

"Che dite, aspettiamo un altro poco? La donna non vuole, perché dice che la roba si guasta."

"E allora andiamo. Oh, Predu, andiamo a tavola?"

"Quando si tratta di andare a tavola io sono pronto. Pronti!", egli disse battendo il bastone per terra.

"Pronti!", gridò Agostino che arrivava in quel momento, ed era un po' mortificato per aver fatto tardi, ma fingeva di non esserlo. Allo sguardo di rimprovero della nonna rispose battendo confidenzialmente una mano sulle spalle del vecchio e con l'altra accarezzandogli la barba.

"Oh, zio Predu, tanto appetito avete?"

Anche il vecchio batteva la mano sulla spalla di Agostino e diceva alla nonna:

"Che gigante hai, Agostina Marini; puoi andarne superba."

Al chiasso i due fidanzati si volsero, sullo sfondo del paesaggio notturno della finestra; con una mossa rapida Stefano piegò la testa e baciò Annarosa sul collo; poi la spinse lievemente verso la stanza da pranzo, dove aiutò a portare la scranna della nonna accanto alla tavola.

Tutti presero posto, e Mikedda portò la zuppiera, volgendosi a guardare se arrivava il suo invitato; inciampò anche, destando un forte batticuore nella donna che dalla cucina la seguiva con gli occhi trepidando. E Nina servì i commensali, come faceva ogni giorno coi suoi di famiglia.

Vestita di nero, coi capelli che le circondavano il viso come due vive bende di lutto sormontate dalla corona d'ebano delle trecce, aveva le guance arrossate dal calore dei fornelli, ma d'un rossore che a poco a poco si scoloriva e le lasciava sul volto un pallore livido di stanchezza.

Quando ebbe servito tutti, sedette fra la nonna e Gavino, sporgendosi in avanti per vedere se non mancava nulla a nessuno.

Non mancava nulla. A capo tavola sedeva zio Predu, che un po' sdentato come era masticava lentamente e dai baffi lasciava sgocciolare il brodo sui peli grigi della barba. All'opposto lato stava Juanniccu, ma pareva fosse lì per esilio e non per onore, cosa che del resto non lo preoccupava, a giudicarne dalla tranquillità con cui mangiava e beveva: e beveva tanto che lo stesso Gavino, da un lato, tentò di allontanargli la bottiglia, mentre Agostino, dall'altro, gli toccava il piede col piede.

In quanto al bere anche zio Predu non scherzava; anzi pareva volesse dare il buon esempio perché di tanto in tanto guardava verso Juanniccu mostrandogli il bicchiere che poi vuotava d'un sorso asciugandosi con la mano la barba sui cui peli le gocce violette del vino si mescolavano alle gocce argentee del grasso.

I suoi discorsi però erano seri, tanto che Annarosa, seduta accanto a lui, si distraeva e pensava alle sue cose; o si volgeva a Stefano cercandone lo sguardo con gli occhi ancora turbati per il bacio ch'egli le aveva impresso sul collo.

"Saranno superstizioni", disse zio Predu, respingendo davanti a sé il piatto ancor pieno, "ma io ho sempre creduto che le maledizioni vengono. Vi racconto un fatto: ecco, posso dirlo anche se ci sono i ragazzi; voi ricordate il fatto di compare Conteddu. Compare Conteddu aveva una moglie d'oro, ma fu abbindolato da quella maliarda mala femmina che fu poi la sua seconda moglie: e la prima morì di crepacuore, maledicendo. Ebbene, voi ricordate il fatto; la seconda moglie aveva un'osteria: e davanti alla porta dell'osteria una notte fu trovato morto ammazzato un forestiere danaroso. Ebbene; furono imputati e condannati per quest'omicidio compare Conteddu e la sua seconda moglie, quella maliarda mala femmina, e ancora sono in galera. Ebbene, ragazzi, essi erano innocenti: erano innocenti di questo delitto, ragazzi, ma su loro pesava e pesa la maledizione della prima moglie ch'essi, per potersi sposare, avevano avvelenata."

Tutti si fecero un poco pallidi: Mikedda, che si era fermata ad ascoltare dietro la scranna della vecchia padrona, sporse il braccio seminudo per far vedere che aveva la pelle d'oca; poi tornò in cucina e si accovacciò davanti al contadino, seduto nell'angolo dietro l'uscio, guardandolo un po' spaurita. Ricordava di aver dato anche lei da bere alla moglie moribonda di lui, quando quella non doveva bere; e aveva paura del castigo.

"Che fatti che conta, zio Predu! Proprio stasera che si dovrebbe stare allegri!"

Ma il contadino continuò a mangiare, col piatto sul ginocchio, e questa tranquillità la rassicurò.

Di là discutevano. Stefano ammetteva l'esistenza di certe forze occulte di suggestione, apportatrici di bene e di male; e raccontava anche lui degli esempi; di una donna che, sedotta e abbandonata da un ricco proprietario, aspettava, in agguato dietro un muro come un assassino, che i figli del suo seduttore passassero, e li malediceva, e ad uno ad uno quei disgraziati morirono di mala morte, e solo il più piccolo era scampato avendo la madre, messa in avvertenza, avuto cura di non lasciarlo mai passare davanti alla donna sedotta. E un altro esempio: di una famiglia andata in malora per le maledizioni di una vedova alla quale per un piccolo debito era stata espropriata la casa e lei cacciatane via con la forza pubblica. Questi fatti, veri, risultavano da processi; ed egli li raccontava con voce pacata, come davanti al Tribunale.

Intorno tutti ascoltavano seri persino Gavino, sazio e assonnato, stava immobile, col viso fra le mani e gli occhi bassi come leggesse un libro piacevole.

Nella distrazione generale zio Juanniccu beveva e beveva; trovò persino il modo di scambiare la sua bottiglia vuota con quella di Agostino ancor piena; nessuno se ne accorse, ed egli cominciò a veder girare la tavola, con gli invitati che giravano intorno a sé stessi e l'uno intorno all'altro.

A poco a poco fu un movimento metodico, quasi armonioso come quello degli astri; gli occhi, le dita, tutte le membra degli invitati si muovevano, giravano intorno a sé stesse; e così gli oggetti dalla stanza.

Egli dapprima sentì il solito stordimento piacevole di quando era ubriaco; poi ebbe un senso di angoscia e di nausea; come se avesse inghiottito qualche cosa di grosso e duro, che lo soffocava. Sentì il bisogno di cacciar via di gola quest'osso, questa pietra, e non sapeva come. Anche la testa gli girava intorno al collo; si volgeva dietro e vedeva nero, tornava in avanti e vedeva bianco. Incontrò gli occhi di vetro della madre, che lo guardavano di lontano come dal fondo misterioso di una grotta; vide zio Predu che col bicchiere gli accennava di far coraggio; lasciò che Stefano finisse di raccontare un'altra storia e allora disse:

"È che l'acqua ricasca su chi la vuol mandare in alto."

Gavino si scosse; lo guardò e si mise a ridere: e questo lo irritò.

Del resto tutti si erano rianimati nel sentire la sua voce, come venisse di fuori. La madre provò un oscuro senso di paura. Non aveva la canna in mano; ma con la testa e gli occhi gli accennò minacciosamente di tacere, di non dire le solite sue pazzie.

Zio Juanniccu però s'era rivolto a Gavino, con una cupa luce negli occhi, smuovendo le labbra come un cane che svegliato d'improvviso accenna a mordere; la figura del ragazzo gli sfuggiva attorno, irridendolo, ed egli tornò a guardare attraverso la tavola, ed ebbe l'impressione di andare, andare anche lui per una strada dritta in fondo alla quale zio Predu gli accennava di far coraggio.

"E dunque?", gridò rivolto al vecchio, facendo anche lui un cenno con la testa e col bicchiere. "E dunque coraggio. E fate le cose giuste! E lasciate sposare Stefano con Nina, poiché si vogliono; e che Annarosa si prenda il suo zoppo."

Un piccolo clamore di risate, di esclamazioni, con un lieve urlo di Stefano, accolse queste parole. Poi la nonna disse:

"Bevuto hai, stasera, figlio mio: vattene a letto adesso."

Egli era di nuovo tranquillo, placido. Di laggiù zio Predu non accennava più col bicchiere: non aveva mutato viso, zio Predu; solo diceva ad Annarosa:

"Bene, bene; se tu acconsenti, Stefano sposa tua matrigna. Ma questo zoppo chi è?"

Gavino gridò dal suo posto:

"Gioele!"

E Nina tese la sua mano pulsante, di sotto la tavola, per battere il ragazzo; ma non osò neppure toccarlo.

Zio Predu diceva con disprezzo indifferente:

"Il figliuolo del magnano?"

"Brava, il figliuolo del magnano", ripeté dall'altro lato Stefano, e Annarosa si sentì presa come nella morsa di una tenaglia, tra padre e figlio; eppure rideva, silenziosa, a occhi bassi, e per non parlare cominciò a mangiare in fretta il biscotto nuotante nella crema del suo piatto.

Il più calmo di tutti era Agostino; lo preoccupava solo il pensiero che in cucina potessero aver sentito le parole sciocche dello zio; del resto tutti sapevano che Gioele era innamorato di Annarosa, e tante volte egli s'era proposto di bastonare questo ragazzo, astenendosene per non compromettersi e non dar noia alla famiglia.

Si volse un poco e vide laggiù in cucina la vedova e Mikedda che parlavano fra loro, davanti ai fornelli dove preparavano ancora qualche cosa; e il contadino pareva non ci fosse, nascosto nel suo angolo.

"Io però questo ragazzo lo voglio bastonare", pensava. "Se zio Juanniccu parla così, vuol dire che lo vede ronzare ancora qui intorno, con la sua zampa e la sua chitarra. Prova a tornare in paese ed a farti vedere qui intorno, e vedrai chi son io e chi sei tu, maledetto moscherino."

Si passò la mano davanti al viso come per scacciare questo maledetto moscherino; ma scacciato di davanti il moscherino gli ronzò di dietro, sul collo, gli passò attraverso la brughiera dei capelli incolti, gli penetrò nell'orecchio.

Dopo che Annarosa s'era fidanzata egli l'amava e l'ammirava più del solito: gli sembrava più perfetta, e s'inteneriva al solo guardarla, a volte, con quella sua persona dritta come lo stelo di un giglio, col viso fermo e gli occhi limpidi in fondo ai quali si vedeva l'anima.

Eccola lì, anche adesso, a fianco di Stefano, quieta e ridente, per nulla offesa dalle idiote parole dello zio: ritraendosi un po' indietro Agostino ne vedeva di scorcio i capelli neri sulla nuca bianca e il solco delle spalle pure. No, se Gioele ronzava intorno a lei, lei non ne aveva colpa: era lui, il figlio del magnano, che annoiava il prossimo come una zanzara. Aveva per questo la chitarra; per ronzare. Bisognava una bella sera rompergliela sulle spalle, farlo diventar gobbo poiché non gli bastava di esser zoppo.

Eppure... Eppure, sorbendo anche lui la crema, sebbene non gli piacesse, ma perché doveva sorbirla per far onore alla cena, Agostino pensava che gli ubriaconi e gli idioti a volte parlano inspirati da una volontà che non è la loro, ma la volontà stessa di Dio.

Allora?

Un brivido, che non gli scosse un muscolo, ma gli tremò dentro fino alla profondità dell'anima, gli fece sollevare gli occhi e guardare la matrigna. La matrigna era lì, di fronte a lui, pallida, chiusa e triste, come riparata dal vecchio tronco morto della nonna; no; qui non c'entrava la volontà di Dio, né quella del diavolo: qui c'entrava solo il vino di zio Juanniccu. E d'un tratto Agostino sentì la sua collera riversarsi tutta su zio Juanniccu: era lui che bisognava bastonare.

"Adesso sto zitto; ma domani all'alba lo faccio scendere al podere e gli somministro tale dose di pugni e di schiaffi che dimenticherà persino di dire: ohi! E gli passerà la voglia di acconsentire un'altra volta a mettersi a tavola con noi."

Questo proposito non calmava la sua collera. Sentiva che qualche cosa d'irreparabile era accaduto. Guardò zio Juanniccu ed ebbe l'impressione di vedere un corpo inerte, più morto di quello della nonna; poteva bastonarlo finché voleva, non riparava nulla. E le parole dette restavano dette e non si cancellavano più. Piuttosto era forse necessario impedirgli di parlare oltre. Gli pareva che zio Predu, pur continuando a mostrarsi tranquillo e a discorrere placidamente, avesse mutato sguardo; non beveva più, non accennava più col bicchiere. Come una nebbia vaga, fredda, era caduta intorno velando l'atmosfera prima così calda e limpida.

"Domani questo idiota di nostro zio andrà ancora dal vecchio e continuerà a dirgli pazzie", pensava Agostino. "Bisognerà impedirglielo: bisogna educarlo come un ragazzo. Perché non l'ho fatto prima?"

S'irrigidì, col pugno sulla tavola come quando faceva i suoi calcoli; ma un lieve tremito gli scuoteva il polso: poi sentì che la nonna lo guardava e la guardò. Si intesero. Si promettevano di essere forti di essere sempre le colonne della famiglia.

Egli aveva già risolto il problema.

"Non solo costringerò quest'idiota a venir giù con me domani mattina al podere, ma lo chiudo laggiù finché non si celebra il matrimonio: lo lego, se si ribella, gli cucisco la bocca con uno spago; e penserò io a tutto il resto."

E di nuovo guardò la matrigna e si accorse ch'ella era più pallida del solito e dimagrita.

"Bisognerà dirle che tenti d'ingrassare di nuovo. Ci penserò io a dirglielo."

Infine guardò Stefano. Lo vide tutto intento ad Annarosa, e questa che sorrideva china come a specchiarsi nel suo piatto lucente. Allora, sollevato, gridò, alzando il bicchiere:

"Oh, zio Predu, avete dunque deposto la vostra arma? Su, su, coraggio: siamo in tempo di guerra."

E si sentì più tranquillo poiché il vecchio sollevava anche lui il bicchiere e sporgendolo di qua e di là brindava alla salute di tutti.

"Evviva! Evviva! e larghi anni di felicità a tutti. Ebbene, vieni qui, Taneddu Mariane", chiamò poi verso la cucina: "te ne stai lì a rosicchiare come un topo: eppure anche tu andrai alla guerra".

Il contadino fu sull'uscio, coi suoi occhi maliziosi subito rivolti a Juanniccu.

Agostino l'osservava; vide quello sguardo e ricadde nella sua inquietudine.

"Ha sentito anche lui."

E gli parve che tutto il paese avesse sentito le parole stolte dello zio: ma toccava a lui rimediare.

© Grazia Deledda







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