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Quella donna di Rodolfo Walsh
traduzione di Diana Facile
Pubblicato su SITO


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Il racconto Esa mujer è tratto dalla raccolta Los oficios terrestres di Rodolfo Walsh ed è uno dei più celebrati della letteratura argentina del XX secolo. Coniugando con maestria il poliziesco e lo storico, la letteratura e il giornalismo, Walsh racconta la storia del cadavere di Eva Perón senza mai menzionarla, ricorrendo a una scrittura disordinata e sconnessa in cui si ritrovano frammenti di discorso apparentemente privi di legame col testo.
Esa mujer è molto più di un racconto.
Esa mujer è il simbolo del sentimento che affliggerà i familiari dei desaparecidos e della loro impotenza di fronte all’assenza di spiegazioni che gli consentano di elaborare il lutto. Lo stesso sentimento che afflisse il popolo argentino, ignaro di ciò che era stato del cadavere della sua guida spirituale, Eva Perón. (D.F.)

Il colonnello loda la mia puntualità.
- Lei è puntuale come i tedeschi – dice.
- O come gli inglesi.
Il colonnello ha un cognome tedesco.
È un uomo corpulento, brizzolato, dal viso largo, abbronzato.
- Ho letto le sue cose - annuncia -. Mi complimento.
Mentre serve due grandi bicchieri di whisky, mi informa, casualmente, che ha lavorato vent’anni nei servizi di informazione, che ha studiato lettere e filosofia, che è un appassionato d’arte. Non sottolinea niente, semplicemente definisce il terreno in cui possiamo muoverci, una zona vagamente comune.
Dal gran finestrone del decimo piano si vede la città al tramonto, le luci pallide del fiume. Da qui è facile amare, anche solo temporaneamente, Buenos Aires. Ma non è una forma plausibile di amore quella che ci ha riuniti.
Il colonnello cerca dei nomi, dei fogli che forse io possiedo.
Io cerco una morta, un luogo sulla mappa. Anche se non è ancora una ricerca, è a stento una fantasia: il genere di fantasia perversa che alcuni sospettano potrebbe realizzarsi.
Un giorno (penso nei momenti di ira) andrò a cercarla. Lei non significa niente per me, ciononostante andrò in cerca del mistero della sua morte, in cerca dei suoi resti che marciscono lentamente in qualche lontano cimitero. Se la trovo, fresche alte onde di collera, paura e frustrato amore si alzeranno, potenti onde vendicative, e per un momento non mi sentirò più solo, non mi sentirò più come un’ombra che si trascina, amara, dimenticata.
Il colonnello sa dov’è.
Si muove facilmente nella stanza di mobili barocchi, ornata d’avorio e di bronzi, di piatti di Meissen e Cantón. Sorrido davanti al Jongkind falso, il Fígari di dubbia attribuzione. Penso alla faccia che farebbe se gli dicessi chi fabbrica i Jongkind, ma invece decanto il suo whisky.
Lui beve con vigore, con salute, con entusiasmo, con allegria, con superiorità, con disprezzo. Il suo volto continua a cambiare, mentre le grasse mani fanno girare lentamente il bicchiere.
- Queste carte - dice.
Lo guardo.
- Quella donna, colonnello.
Sorride.
- È tutto collegato - filosofa.
Un vaso di porcellana di Vienna è scheggiato alla base. Una lampada di cristallo è incrinata. Il colonnello, con gli occhi brumosi, sorridendo, parla della bomba.
- L’avevano messa sul pianerottolo. Credono che la colpa sia mia. Se sapessero ciò che ho fatto per loro, quegli schifosi.
- Molto danno? – domando. Non me ne importa un cazzo.
- Abbastanza. Mia figlia. L’ho messa nelle mani di uno psichiatra. Ha dodici anni – dice.
Il colonnello beve, con ira, con tristezza, con paura, con rimorso.
Entra sua moglie, con due tazzine di caffè.
- Raccontaglielo tu, Negra.
Lei se ne va senza rispondere; una donna alta, orgogliosa, con un rictus da nevrosi. Il suo sdegno resta fluttuante come una nuvoletta.
- La poveretta è rimasta molto scossa – spiega il colonnello. - Però a lei questo non interessa.
- Come non mi interessa!... Ho sentito dire che anche al capitano N e al maggiore X sono accadute delle disgrazie dopo il fatto.
Il colonnello ride.
- La fantasía popolare – dice -. Guardi come funziona. Ma in fin dei conti non inventano nulla. Non fanno altro che ripetere.
Accende una Malboro, lascia il pacchetto a mia disposizione sul tavolo.
- Mi racconti una barzelletta - dice.
Penso. Non me ne vengono in mente.
- Mi racconti una barzelletta politica, quella che vuole, e io le dimostrerò che è stata inventata venti anni fa, cinquant’anni fa, un secolo fa. Che è stata usata dopo la sconfitta di Sedán, o a proposito di Hindenburg, di Dollfuss, di Badoglio.
- E con ciò?
- La tomba di Tutankamón - dice il colonnello. - Lord Carnavon. Spazzatura.
Il colonnello si asciuga il sudore con la mano grassa e pelosa.
- Però il maggior X ha avuto un incidente, ha ammazzato sua moglie.
- Che altro? - dice, facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere.
- Le ha sparato un colpo di pistola una mattina all’alba.
- L’ha confusa con un ladro – sorride il colonnello. Sono cose che succedono.
- Ma il capitano N…
- Ha avuto un incidente stradale, che può capitare a chiunque, figuriamoci a lui, che quando è sbronzo non vede a un palmo dal naso.
- E lei, colonnello?
- Il mio caso è diverso – dice -. Mi hanno giurato che la pagherò.
Si alza, gira intorno al tavolo.
- Credono che la colpa sia mia. Quegli schifosi non sanno cosa ho fatto per loro. Ma un giorno si scriverà la storia. Forse la scriverà lei.
- Mi piacerebbe.
- E io ne uscirò pulito, ne verrò fuori bene. Non che mi interessi fare bella figura con quegli schifosi, però davanti alla storia si, capisce?
- Magari dipendesse da me, colonnello.
- Gironzolavano. Una notte, uno trovò il coraggio. Lasciò la bomba nel pianerottolo e uscì di corsa.
Mette la mano in una vetrinetta, tira fuori una statuina di porcellana policromata, una pastorella con un cesto di fiori.
- Guardi.
Alla pastorella manca un braccino.
- Derby – dice -. Duecento anni.
La pastorella si perde tra le sue dita improvvisamente tenere. Il colonnello ha una smorfia metallica sul volto oscuro, addolorato.
- Perché credono che sia colpa sua?
- Perché io l’ho tirata fuori da dove stava, questo è vero, e l’ho portata dove si trova ora, anche questo è vero. Ma loro non sanno cosa volevano fare, quegli schifosi non sanno nulla, e non sanno che sono stato io ad averlo impedito.
Il colonnello beve, con ardore, con orgoglio, con fierezza, con eloquenza, con metodo.
- Perché io ho studiato la storia. Posso vedere le cose in un’ottica storica. Ho letto Hegel.
- Cosa volevano fare?
- Affondarla nel fiume, lanciarla da un aereo, bruciarla e gettare i resti nella tazza del water, scioglierla nell’acido. Quante schifezze è costretto a sentire una persona? Questo paese è coperto di spazzatura, uno non sa da dove escono tante schifezze, ma ci siamo tutti dentro fino al collo.
- Tutti, colonnello. Perché in fondo siamo d’accordo, no? È arrivata l’ora di distruggere. Si dovrebbe spaccare tutto.
- E pisciarci sopra.
- Però senza rimorsi, colonnello, inalberando allegramente la bomba e la picana. Salute! - dico alzando il bicchiere.
Non risponde. Siamo seduti vicino al finestrone. Le luci del porto brillano, azzurro mercurio. A tratti si odono i clakson delle automobili che si dileguano come le voci di un sogno. Il colonnello non è altro che la macchia grigia del suo volto sulla macchia bianca della sua camicia.
- Quella donna – gli sento mormorare. - Era nuda nella bara e sembrava una vergine. La pelle le era diventata trasparente. Si vedevano le metastasi del cancro, come i disegnini che uno fa su una finestrella bagnata.
Il colonnello beve. È duro.
- Nuda – dice-. Eravamo quattro o cinque e non volevamo guardarci negli occhi. C’era quel capitano di vascello, e il galiziano che l’ha imbalsamata, e non ricordo chi altri. E quando l’abbiamo tirata fuori dalla bara – il colonnello si passa la mano sulla fronte -, quando l’abbiamo tirata fuori, quel galiziano schifoso...
Diventa buio poco alla volta, come in un teatro. Il volto del colonnello è quasi invisibile. Solo il whisky brilla nel suo bicchiere, come un fuoco che si spegne lentamente. Dalla porta aperta dell’appartamento giungono rumori lontani. La porta dell’ascensore si è chiusa al pianoterra, si è aperta più vicina. L’enorme edificio bisbiglia, respira, gorgoglia con le sue tubature, i suoi inceneritori, le sue cucine, i suoi bambini, i suoi televisori, i suoi domestici. E ora il colonnello si è alzato, impugna una mitraglietta che non gli avevo visto prendere da nessuna parte, e in punta di piedi cammina verso il pianerottolo, accende la luce di colpo, guarda l’ascetico, geometrico, ironico vuoto del pianerottolo, dell’ascensore, della scala, dove non c’è assolutamente nessuno e ritorna lentamente, trascinando la mitraglietta..
- Mi è sembrato di sentire qualcosa. Quegli schifosi non mi prenderanno alla sprovvista, come la volta scorsa.
Si siede più vicino al finestrone ora. La mitraglietta è scomparsa e il colonnello divaga nuovamente su quella grande scena della sua vita.
-… Le si è lanciato addosso, quel galiziano schifoso. Era innamorato del cadavere, la toccava, le palpava i capezzoli. Gli ho dato un pugno, guardi – il colonnello si guarda le nocche-, che l’ho scaraventato contro la parete. È tutto marcio, non rispettano nemmeno la morte. Le da fastidio il buio?
- No.
- Meglio. Da qui posso vedere la strada. E pensare. Penso sempre. Al buio si pensa meglio.
Torna a servirsi un whisky.
- Però quella donna era nuda – dice, argomenta contro un invisibile contraddittore -. Ho dovuto coprirle il monte di Venere, le ho messo un sudario e la cintura francescana.
Bruscamente scoppia a ridere.
- Ho dovuto pagare il sudario di tasca mia. Mille e quattrocento pesos. Questo le dimostra qualcosa, eh? Questo le dimostra qualcosa.
Ripete varie volte "Questo le dimostra qualcosa", come un giocattolo meccanico, senza dire che cosa questo dovrebbe dimostrarmi.
- Ho dovuto cercare aiuto per cambiarla di bara. Ho chiamato alcuni operai che erano nei paraggi. Si figuri come ci rimasero. Per loro era una dea, che ne so io cosa gli mettono in testa, povera gente.
- Povera gente?
- Si, povera gente – il colonnello lotta contro una sfuggevole rabbia interiore -. Anch’io sono argentino.
- Anch’io colonnello, anch’io. Siamo tutti argentini.
- Ah, bene – dice.
- L’hanno vista così?
- Si, le ho già detto che quella donna era nuda. Una dea, nuda, morta. Con tutta la morte esposta, sa? Con tutto, con tutto…
La voce del colonnello si perde in una prospettiva surrealista, quella frasetta ogni volta più remota inquadrata nelle sue linee di fuga, e il calo della voce che manteneva una proporzione divina.
Anch’io mi servo un whisky.
- Per me non è niente – dice il colonnello – Io sono abituato a vedere donne nude. Molte nella mia vita. E uomini morti. Molti in Polonia, nel ’39. Ero un addetto militare, si rende conto?
Voglio rendermene conto, sommo donne nude a uomini morti, però il risultato non mi torna, non mi torna, non mi torna… Con un solo movimento muscolare ritrovo la lucidità, come un cane che si scrolla l’acqua di dosso.
- A me non poteva sorprendermi. Ma loro…
- Si sono impressionati?
- Uno è svenuto. L’ho svegliato a sberloni. Gli ho detto: “Checca, è questo che fai quando devi sotterrare la tua regina? Ricordati di San Pietro, che si addormentò mentre stavano ammazzando Cristo.” Poi mi ha ringraziato.
Guardo la strada. “Coca” dice l’insegna, argento su rosso. "Cola" dice l’insegna, argento su rosso. La pupilla cresce, cerchio rosso tra un cerchio rosso concentrico, invadendo la notte, la città, il mondo. “Beva.”
- Beva - dice il colonnello.
Bevo.
- Mi ascolta?
- La ascolto
- Gli abbiamo tagliato un dito.
- Era necessario?
Il colonnello è d’argento, ora, si guarda la punta dell’indice, lo segna con l’unghia del pollice e lo alza.
- Tanto così. Per identificarla.
- Non sapevate chi era?
Ride. La mano diventa rossa. “Beva.”
- Lo sapevamo, si. Le cose devono essere legali. Era un atto storico, capisce?
- Capisco.
- L’impronta digitale non coincide se il dito è morto. Bisogna idratarlo. Più tardi gliel’abbiamo riattaccato.
- E?
- Era lei. Quella donna era lei.
- Molto diversa?
- No, no, lei non mi capisce. Uguale. Sembrava che stesse per parlare, che stesse per… Il fatto del dito era solo perché tutto fosse legale. Il professor R. ha controllato tutto, le ha fatto persino le radiografie.
- Il professor R.?
- Sí. Non erano cose che poteva fare chiunque. C’era bisogno di qualcuno con autorità scientifica, morale.
In qualche luogo della casa suona, lontano, strozzato, un campanello. Non vedo entrare la moglie del colonnello, però all’improvviso è lì, la sua voce amara, inconquistabile.
- Accendo?
- No.
- Telefono.
- Di che non ci sono.
Sparisce.
- È per insultarmi – spiega il colonnello-. Mi chiamano a qualunque ora. Alle tre della notte, alle cinque.
- Voglia di rompere le palle – dico allegramente.
- Ho cambiato tre volte numero di telefono. Ma lo rintracciano sempre.
- Cosa le dicono?
- Che a mia figlia è venuta la poliomelite. Che mi taglieranno i coglioni. Spazzatura.
Sento il ghiaccio nel bicchiere, come un campanaccio lontano.
- Ho fatto una cerimonia, ho fatto un discorso. Io rispetto le idee, gli ho detto. Quella donna ha fatto molto per voi. La sotterrerò come una cristiana. Però dovete aiutarmi.
Il colonnello è in piedi e beve con coraggio, con esasperazione, con grandi e alte idee che rifluiscono su di lui come grandi e alte onde contro una rupe e la lasciano immacolata e asciutta, frastagliata e nera, rossa e argento.
- L’abbiamo messa in un furgone, l’ho portata in Viamonte, poi in 25 Maggio, sempre prendendomene cura, proteggendola, nascondendola. Volevano togliermela, fare qualcosa con lei. L’ho coperta con una tela olona, era nel mio ufficio, sopra un armadio, molto alto. Quando mi domandavano cos’era, gli dicevo che era il trasmettitore di Cordoba, la Voce della Libertà.
Non so più dov’è il colonnello. Il riflesso argentato lo cerca, la pupilla rossa. Forse è uscito. Forse si aggira tra i mobili. L’edificio odora vagamente di zuppa in cucina, colonia in bagno, pannolini nella culla, medicinali, sigarette, vita, morte.
- Piove – dice la sua voce estranea.
Guardo il cielo: il cane Sirio, il cacciatore Orione.
- Piove un giorno si e uno no - dice il colonnello. Un giorno si e uno no piove in un giardino dove tutto marcisce, le rose, il pino, la cintura francescana.
Dove, penso, dove.
- Sta in piedi - grida il colonnello – L’ho sotterrata in piedi, come Facundo, perchè era un maschio!
Allora lo vedo, all’altro lato del tavolo. E per un momento, quando lo splendore violaceo lo bagna, credo che pianga, che grosse lacrime gli scivolino lungo il suo viso.
-Non ci faccia caso – dice, si siede -. Sono ubriaco.
E piove a lungo nella sua memoria.
Mi alzo, gli tocco la spalla.
- Eh? – dice - Eh? - dice.
E mi guarda diffidente, come un ebbro che si sveglia in un treno sconosciuto.
- L’hanno portata via dal paese?
- Sí.
- L’ha portata via lei?
- Sí.
- Quante persone lo sanno?
- DUE.
- Il Vecchio lo sa?
Ride.
- Crede di sapere.
- Dove?
Non risponde.
- Bisogna scriverlo, pubblicarlo.
- Si. Un giorno.
Sembra stanco, lontano.
- Ora! – mi irrito -. Non le interessa la storia? Io scrivo la storia, e lei ne esce pulito, pulito per sempre, colonnello.
La lingua gli si attacca al palato, ai denti.
- Quando arriverà il momento… lei sarà il primo…
- No, adesso. Ci pensi. Paris Match. Life. Cinquemila dollari. Diecimila. Quanto vuole.
Ride.
- Dove, colonnello, dove?
Si alza lentamente, non mi riconosce. Forse mi chiederà chi sono, cosa faccio lì.
E mentre esco sconfitto, penso che dovrò tornare, o che non tornerò mai. Mentre il mio dito indice inizia già quell’infaticabile itinerario sulla mappa, unendo isoiete, probabilità, complicità. Mentre so che non mi interessa più, e che giustamente non muoverò un dito, nemmeno su una mappa, la voce del colonnello mi raggiunge come una rivelazione.
- È mia - dice semplicemente. Quella donna è mia.

© Rodolfo Walsh
Traduzione a cura di Diana Facile







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