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Con la "de palo" di Fernando Sorrentino
traduzione di Marco R. Capelli
Pubblicato su SITO


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I racconti di Progetto Babele

Il dottor Arturo Fondizi ed io eravamo alti e magri. A quei tempi lui stava cominciando il suo secondo anno come presidente della nazione ed io frequentavo il quarto anno di liceo presso il collegio che si trovava tra El Salvador e Humboldt, nella città di Buenos Aires.

Più di una volta mi venne in mente, per le stranezze della mente umana, questo pensiero: “Io so dell’esistenza di Fondizi, però lui non sa della mia”.

Il quartiere del collegio era anche il mio quartiere ed io lo conoscevo molto bene.

Nell’ultimo tratto di Calle Costarica, come a dire poco metri prima di arrivare a Dorrego, si trovava l’officina di un meccanico di automobili. Questo meccanico, di solito, lo vedevo nella veranda dell’officina, in genere stava in piedi, a volte era coricato sotto un’automobile, però sempre inguainato in una tuta blu con grandi macchie di olio. Quello che è certo è che non poteva passare inosservato: i suoi quasi due metri di statura e l’aspetto marmoreo mi facevano calcolare il suo peso in non meno di centoventi chilogrammi. Inoltre, aveva qualcosa che faceva pensare al sole: viso arrossato, occhi di un celeste diafano e capelli biondi ma tanto chiari che quasi sembravano bianchi. Doveva essere attorno alla trentina.

Dopo aver attraversato Dorrego, Costa Rica si trasforma in Cramer ed entra nel quartiere degli studenti. Cento metri più avanti si vedeva – a quei tempi – il cosidetto campito, che era un enorme terreno che si estendeva, in larghezza, tra Alzarez Thomas e Zapata e che, in lunghezza, arrivava fino a Calle Jorge Newbery. Su quel terreno c’erano diversi campi di calcio, dove si disputavano partite amatoriali. I campi di gioco non mostravano un solo ciuffo d’erba: erano di durissima terra secca.

Per entrare nel campito era necessario superare una depressione sul fondo della quale, ogni tanto, circolava, in trincea e su un solo binario di andata e ritorno, un treno merci – soppresso già da più di mezzo secolo – che collegava la stazione Colegiales della Ferrovia Mitre con la stazione Chacarita della Ferrovia San Martin. Non c’era nessun segnale di pericolo: quando si avvicinava l’unico treno di quella tratta, la locomotiva a vapore nera lanciava un sibilo acuto, lungo, triste ed un po’ strisciante. Come le navi, le locomotive in quegli anni avevano un nome; questa, come si leggeva in lettere bianche, si chiamava La Gauchita.


2

Fu così che, quella domenica mattina di Luglio, affrontai la prima scarpata – inclinazione: quarantacinque gradi circa – della trincea ferroviaria, non udii nessun fischio, per precauzione guardai a destra ed a sinistra, attraversai i binari e risalii dall’altra parte. Mi incontrai con i miei compagni della squadra chiamata Rayo Azul, che stava per affrontare – in una partita meramente “amichevole” - la sconosciuta Amanecer de Bollini.

(Organizzava queste partite un certo Azzimonti – non ho mai saputo il suo nome di battesimo – un individuo losco con una sempiterna sigaretta in bocca. In gioventù, secondo quanto affermò una volta, aveva giocato come insider in una squadra di seconda (in promozione): questa sua competenza lo autorizzava a comportarsi come una specie di direttore tecnico. Aveva un aiutante soprannominato Tijeritas (1), immagino per essere, o essere stato, un barbiere).

Non c’erano spogliatoi, né niente di simile. Ci cambiavamo a bordo campo prima di iniziare la partita e ci rimettevamo gli abiti normali quando finiva. A trecento metri, e sul ciglio della scarpata più vicina della trincea ferroviaria, si trovava un corto monolite (un metro di altezza) da cui usciva un getto di acqua potabile: lì, mettendoci in ginocchio, bevevamo e, in qualche modo, ci lavavamo; però i più, estenuati dalla partita appena terminata, non avevano voglia di arrivare fin laggiù e preferivano tornarsene assetati alle loro case.

Azzimonti, ancora un volta, mi aveva convocato per giocare, così che mi presentai molto lusingato. Il posto di punta sinistra ancora non aveva un padrone: a volte ero io il titolare, e Hugo Martinez la riserva, a volte il contrario. Ed in questa partita toccava a me iniziare come titolare.

Le mie qualità, senza dubbio, non erano eccezionali né troppo brillanti. Avevo buone gambe, tiro preciso e potente, e moltissima velocità; mi ero guadagnato il soprannome di Galgo (2).

Ero destro, però potevo tirare anche di sinistro, con la de palo, la gamba di legno,a condizione che la palla fosse in movimento e, in quel caso, il mio calcio sinistro era, ignoro perché, ancora più potente del destro, pero, in cambio, non altrettanto preciso.

Altre qualità non ne avevo. Ero incapace di dribblare; avevo bisogno di spazi ampi. Nonostante la mia statura, non ero adatto al gioco aereo, e tiravo male di testa (ed, in ogni caso, ero capace di colpire la palla solo con la parte sinistra del cranio).

Nonostante fossi destro giocavo, già l’ho detto, come ala sinistra e questo era più un vantaggio che uno svantaggio. Sebbene, spostandomi verso la zona sinistra del campo, la mia mira con la de palo poteva mancare di precisione, d’altro canto il mio dribbling di destro di solito sconcertava il numero quattro rivale, non abituato ad affrontare tiratori destri.

Io ero molto magro, molto debole, gambe secche, sessanta chili scarsi, mi si potevano contare le ossa. La mia stessa velocità, i miei scatti repentini, mi facevano sembrare ancora più fragile, e risvegliavano nell’avversario il desiderio di mandarmi a gambe all’aria. Per la mia età, ancora non ero del tutto sviluppato. Quasi tutti i giocatori, tanto i miei compagni come gli avversari, erano già uomini fatti di venti e più anni, e non mancavano quelli che ne avevano trenta o trentacinque o anche di più.


3

I giocatori dell’Amanecer de Bollini indossano una maglietta a righe verticali rosse e azzurre, pantaloni bianchi e calze azzurre. La nostra magliettà è un po’ più banale: dalla spalla sinistra fino all’ultima costola destra vibra elettricamente, su fondo bianco, un fulmine azzurro; le calze ed i pantaloni sono bianchi.

L’arbitro ci convoca per iniziare la partita e noi ci disponiamo ciascuno al proprio posto sul campo da gioco.

Sulla mia spalla c’è il numero 11. Dall’altro lato della linea di mezzocampo, con il 4 sulla maglietta, c’è qualcuno che conosco di vista e che avevo registrato mentalmente come una specie di gigante biondo: niente meno che il proprietario dell’officina di Calle Costarica. Dalle grida dei suoi compagni, scopro che si chiama Tadeo.

E, come mi era già successo varie volte con Arturo Frondizi, mi venne in mente lo stesso pensiero assurdo: “Io so chi è lui, però io, per lui, sono un completo sconosciuto”.

Comincia, infine, la partita.

Nei primi minuti, l’Amanecer di Bollini ci pressa al punto da impedirci di far uscire la palla dalla nostra metà del campo e quasi dall’area. Io sono una specie di spettatore. Si può dire che quasi non sono entrato in gioco: a malapena ho partecipato ad un paio di tocchi di andata e ritorno, senza prendere il controllo della palla.

Saranno passati venti minuti. Per una incredibile buona stella, la partita continua sullo zero a zero, mentre, se ci basassimo sul merito, dovremmo perdere con almeno tre goal di differenza.

Nonostante l’angoscia provocata dal costante attacco dell’esercito azzurro e rosso, il nostro difensore sinistro, giocatore poco sottile ma feroce marcatore, respinge la palla con un calcio in mezzo alle nubi…

La palla, molto alta, comincia a scendere. La vedo venire verso di me. Devo solo spostarmi un poco per tentare di fermarla, come posso, col petto. Dato che sono imbranato, il pallone rimbalza su di me e devo raggiungerla a due metri di distanza. La fermo, pestandola col piede destro.

Tutto questo dura meno di un secondo. Ad un metro, già mi trovo davanti la figura ciclopica di Tadeo, con le gambe divaricate, le braccia orizzontali e gli occhi azzurri fissi sui miei piedi.

Incurvandomi un poco, fingo di avanzare per poi passare, invece, sul fianco sinistro di Tadeo che, in effetti, ci casca e salta dove non stanno né i miei piedi né io.

Grazie a questo, perde una frazione di secondo e, contemporaneamente, inciampa e continua ad avanzare voltando le spalle alla sua porta. Più che sufficiente per le mie gambe lunghe.

El Galgo aggancia la palla con la parte interna del piede destro e, come una soffio, passa alla destra del numero 4.

E’ già nel terreno avversario. Con tanto spazio libero davanti, non serve a niente tenere la palla attaccata al piede. La calcia lontano e le corre dietro, alla massima velocità di cui è capace, in diagonale fino alla porta. In questi pochi secondi, Tadeo resta qualche metro dietro a Galgo, la cui intenzione è quella di calciare in porta...

Però, lungo l’altra diagonale, arriva ad incrociarlo il numero 2 rivale: arriva alla cieca e senza controllo. A Galgo risulta molto facile, di fronte a questa specie di bufalo, ripetere il suo trucco, con il piede buono, da destra a sinistra. Però, ora si trova quasi contro la linea di fondo e non ha la possibilità di tirare in porta; di conseguenza fa l’unica cosa che può fare: colpisce la palla con la de palo, e che sia quello che dea Fortuna vuole. La de palo colpisce forte, ma senza precisione: può succedere qualsiasi cosa.

La dea Fortuna decise che, tra i quattro o cinque giocatori che già si trovavano in area, la palla scegliesse la gamba destra del centravanti del Rayo Azul che, tranquillo e smarcato, trasformò il tiro nel primo goal della partita.

4

Riprendiamo posizione per riprendere l’incontro.
Sono troppo felice, sento ammirazione per me stesso e per l’eccellete giocata che ho realizzato e che è culminata nel nostro primo goal. E questo goal, anche se non è stato convertito da me, è dovuto soprattutto alla mia abilità fisica ed alla mia velocità mentale.

Questa specie di ebbrezza mi porta a commettere due errori.
Il primo è concettuale e lieve: sottostimo il rivale e penso che Tadeo sia quello che, in gergo calcistico, chiamiamo uno scarpone. Mi è risultato tanto facile scartarlo ed arrivare fino all’area rivale che – ne sono certo – lo farò impazzire da ora fino all’ultimo minuto della partita.

E qui è dove commetto il secondo errore, che invece non è lieve ma, anzi, grave al punto da diventare quasi catastrofico.

Quando lo sguardo di Tadeo incrocia il mio, non riesco a resistere alla tentazione di formare un cerchio con l’indice ed il pollice della mano destra, di alzarlo all’altezza della fronte, di strizzare un occhio e di sorridere a mezza bocca, facendo schioccare le labbra; che sarebbe il famoso “gestito de idea” forgiato dall’attore comico Carlos Balá (3).

Però sembra che Tadeo non lo trovi molto divertente: mi lancia uno sguardo per nulla celestiale, piuttosto direi assassino e mi insulta senza parlare, muovendo però molto le labbra, così che io riesca leggere per bene le parole.
Ricomincia la partita. Lo schema è lo stesso. Di nuovo dobbiamo difenderci all’interno dell’area, di nuovo il nostro portiere si mette a fare acrobazie.

Ricevo una palla simile a quella che prima si era convertita in goal. Accenno un sorriso di scherno e affronto Tadeo. Ripeto con successo la stessa giocata di fingere di andare verso l’interno ed invece correre all’esterno. Però questa volta non riesco a prendere né quattro né cinque metri di vantaggio. Non prendo neanche un millimetro.

Tadeo, girandosi con rapidità sorprendente, mi blocca con un calcio di destro che mi prende giusto sulla spina dorsale. Spinto dall’inerzia, cado di faccia, lungo e disteso.

Faccia, naso, petto, gomiti, ginocchia, gambe spazzano il duro e polveroso campo da gioco, reso ancora più doloroso da freddo di Luglio. Mentre sto cadendo, mentre mi sto ferendo contro il suolo, vorrei alzarmi per dare a Tadeo un calcio nello stomaco, o dove capita.
Però non riesco ad alzarmi. Sono umiliato, sanguinante, dolorante, coperto di terra. L’arbitro fischia punizione a nostro favore. I miei compagni circondano Tadeo. Gli contestano la giocata innecessariamente violenta. Si sviluppa una breve rissa. Manate, insulti, spintoni… Tadeo viene rimproverato dall’arbitro, e non succede altro.

A me esce sangue dai gomiti, dalle ginocchia e dal naso.
Esco dal campo per provare a rimettermi un po’ in sesto. Sono pazzo di rabbia: “Hijo de puta”, biascico, pensando a Tadeo, “come mi piacerebbe prenderti a calci in testa e mandarti all’ospedale”.

- Tranquillo, ragazzo, tranquillo! - mi dice Azzimonti – Non si arrabbi, che non ci guadagna niente e peggiora le cose. Mente fredda e con prudenza, ragazzo, con prudenza.

Torno in campo: mi fanno male persino i vestiti.
Cerco di calmarmi. Però non so più lo stesso, non sono eccitato come dopo il goal; piuttosto mi sento intimidito. Vedo che Tadeo ha cambiato tattica. Mi sta attaccato e mi marca tanto stretto che non riesco neanche a ricevere la palla. “Se mi danno un metro”, mi dico, “che è tutto quello che mi serve per controllare la palla, allora con questo pachiderma ci faccio merenda”.

Sì, senz’altro. Però il fatto è che il pachiderma non solo non mi lascia il metro che mi serve. Non mi lascia neppure mezzo metro, né venti centimetri. Non mi lascia niente di niente. Mi si è appiccicato, e arriva sulla palla sempre prima di me.

Vedo i suoi difetti e mi fanno indignare. E un giocatore rozzo, senza agilità. Controlla come può, calcia come può: con il collo del piede, con la rotula, con lo stinco. Sbuffa e lotta, ma ha spirito di sacrificio.
Tecnicamente io sono molto superiore a Tadeo, però non posso fare niente contro quel gigante che, oltre a non permettermi di partecipare al gioco, mi allunga calci e schiaffi di nascosto, mi riempie di lividi, mi punzecchia, mi tira i capelli, mi sputa, continuamente mi dice, con voce rotta dall’affanno, “Stronzetto hijo de puta, così impari a non metterti contro di me, coglione di merda. Ti ammazzo a calci, ti faccio passare la voglia di palleggiare e di giocare a calcio, stronzetto hijo de puta”.

Mi dice così, e non solo me lo dice, perché, mentre lo dice, sento le sue ginocchiacce di ferro e le sue nocche di acciaio, e i suoi sputacchi disgustosi. Va detto che io non ho la vocazione della vittima e, in genere, mi difendo e contrattacco. Però non ho la forza di Tadeo, e ancora sento le fitte di dolore del fallo ricevuto.

Finisce il primo tempo. Ben lungi dall’essere un sollievo, devo anche subire i rimproveri di Azzimonti. E’ deluso e furioso per come sto giocando. E non gliene importa se sono in inferiorità fisica: - Ne prenda una, ragazzo, ne prenda una. Deve smarcarsi, il biondo la sta mangiando vivo.
Provo a spiegare ad Azzimonti che, per tanto che mi smarchi, il biondo, fregandosene completamente del gioco, si dedica esclusivamente a inseguirmi per tutto il campo, soltanto allo scopo di picchiarmi, insultarmi e sputarmi addosso…
- Lei deve tirra fuori la sua personalità, ragazzo. Non deve lasciarsi intimidire, ragazzo. Se non ha personalità, non potrà mai giocare a calcio.

Questi consigli si danno, sì, e sono sensati. Però quando uno già è spaventato, non c’è molto da fare. Avrei voglia di suggerire ad Azzimonti di mettere Hugo Martinez al mio posto per il secondo tempo. Però non ne ho il coraggio: lo farebbe impazzire di rabbia. Niente mortifica Azzimonti più di un giocatore che, senza essere infortunato, chieda di essere sostituito: la considera una codardia ingiustificabile. E probabilmente ha ragione.
Alla fine, impaurito e con la voglia di essere ovunque tranne che lì, torno al campo di gioco e si ripete esattamente la stessa situazione sofferta durante il primo tempo: Tadeo ricomincia a martirizzarmi ed io, spaventato, mi convinco che Azzimonti abbia ragione: non ho personalità e, perciò, devo smettere di giocare a calcio.
Fortunatamente Azzimonti chiede un cambio e, al mio posto, entra Hugo Martinez. Mancano venticinque minuti alla fine della partita. Durante il secondo tempo Amanecer de Bollini, segna tre goal. Al bordo del campo io devo subire la cascata di rimproveri che Azzimonti e Tijerita lanciano su di me.
Mi ritrovo doppiamente umiliato: per la tirannia di Tadeo e per le accuse del binomio tecnico. Però, contemporaneamente, sono terribilmente arrabbiato con me stesso per la mia codardia; penso che, prima o poi, ho l’obbligo morale di vendicarmi di Tadeo.

5

Dopo un po’, i giocatori cominciano a disperdersi. Io, completamente abbattuto, rimango seduto al bordo del campo fino a restare solo. Son vestito con roba da strada e porto scarpe di cuoio; la divisa della squadra è nella borsa.
Infine, mi alzo in piedi e, pensando di rinfrescarmi, mi avvio verso la fontanella che si trova al bordo della trincea ferroviaria.

All’improvviso… oh!

Vedo la figura gigantesca di Tadeo che, voltandomi le spalle e chinato, sta bevendo e si sta bagnando la testa. Corro verso di lui con l’intenzione di assestargli, con il piede desto una pedata nella schiena in modo da fargli picchiare la testa contro il blocco di cemento e poi tagliare la corda a tutta velocità: non per niente sono El Galgo, sono sicuro che Tadeo non potrà mai raggiungermi.

Però, un secondo prima, Tadeo percepisce vai a capire cosa: gira la faccia arrossata e la testa bionda verso di me ed abbozza un sorriso ironico e beffardo. E’ sempre accovacciato, e quella testa bionda – la palla – si muove, in modo che mi viene naturale – con la de palo – tiragli un calcio violento, tanto violento che lo fa inciampare, girare su sé stesso e precipitare nella trincea della ferrovia.

Rimbalza tre o quattro volte e cade sul fondo. Sento il rumore che produce il suo cranio quanto sbatte su una delle traversine di quebracho (4).

Se ne sta lì, orizzontale e steso di traverso sulla massicciata e sulle rotaie.

Morto non è, perché lo vedo muoversi, un po’ spasmodicamente. Preferisco non rimanere lì a verificare se riesce o no a riprendersi dal colpo ed a risalire dai binari.

Convertito nuovamente nel Galgo, inizio a correre lungo il bordo della trincea ferroviaria, con lo scopo di fuggire quanto più possibile in fretta e lontano da Tadeo e dalle sue sofferenze fisiche.

Cento metri, trecento, cinquecento…

All’improvviso lo sento, non molto distante, il sibilo acuto, lungo e triste e un po’ strisciante della Gauchita.


6

Quello stesso giorno abbandonai per sempre la pratica del calcio. Però non per mancanza di personalità, come aveva osservato Azzimonti.

Non desideravo vedermi obbligato, in situazioni estreme, a colpire con la de palo perché – già l’ho detto prima – la gamba di legno picchia forte, però senza direzione precisa: può succedere qualsiasi cosa.

E non sono mai più passato per l’ultimo isolato di via Costa Rica, perché me lo impedivano due timori.

Da un lato, la paura che, in piedi nella veranda dell’officina meccanica, con la sua tuta macchiata di grasso, Tadeo potesse vedermi. E dall’altro, una paura molto più angosciante: non vederlo più lì’, in piedi nella veranda dell’officina meccanica, con la sua tuta macchiata di grasso.

Note:
1 Forbicina N.d.T.
2 Levriero N.d.T.
3 Carlitos Balá è un attore argentino specializzato in intrattenimento per bambini. I suoi segni distintivi sono la caratteristica acconciatura a caschetto e le frasi senza senso. N.d.T.
4 Quebracho è il nome generico di varie specie botaniche di alberi americani caratterizzati da un legno molto duro. Nello specifico, in Arg.,Bol. e Par. il termine indica un albero di alto fusto, della famiglia delle anacardiacee, con il cui legno, molto resistente, si fabbricano (o fabbricavano) le traversine delle linee ferroviarie e la cui corteccia è ricca di tannino.

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Pubblicazioni:
Con la de palo (2017). Revista de la Academia Norteamericana de la lengua Española. LEAN®ANLE, Nuova York, vol. VI, n°12, luglio-dicembre 2017, pagg. 482-490. Con la de palo (2019). El Malpensante, n° 204, Bogotà, febbraio 2019, pagg. 74-79.

Prima traduzione italiana a cura di: Enzo Citterio.
La presente traduzione, a cura di Marco R. Capelli è autorizzata dall´autore a titolo di cortesia e solo per la pubblicazione su Progetto Babele.

Fernando Sorrentino è nato a Buenos Aires nella primavera del 1942.
I suoi libri di racconti più recenti sono: El crimen del san Alberto (Buenos Aires, Editorial Losada), El centro de la telarana (Buenos Aires, Editorial Longsellers), ambedue del 2008. Paraguas, supersticiones y cocodrilos (2013, Veracruz, Istituto Literario de Veracruz), Problema Resuelto (Dusseldorf, Dusseldorf University Press 2014) y Los Reyes de la fiesta y otros cuentos con certo humor (Madrid, Apache Libros 2015).

 

© Fernando Sorrentino
Traduzione a cura di Marco R. Capelli







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