Durante l’università, seguendo un corso su folklore e mito, mi trovai a rinnovare il mio interesse verso l’archetipo del vampiro, un interesse nel quale mi ero già imbattuta a 14 anni, la prima volta che lessi Dracula. Produssi una tesina sulle similitudini e le differenze nei miti del vampiro a livello mondiale. Tutti i vampiri traggono vita dalle loro vittime, e il sangue è il mezzo più consueto per raggiungere quel fine; ma un vampiro cinese preferisce il liquido spinale, mentre i vampiri finlandesi ed eschimesi suggono calore umano. Dieci anni dopo tornai sul mito del vampiro e iniziai a chiedermi quanto potessi allontanarmi dal modello Dracula e avere ancora un vampiro riconoscibile. E presi per buono tutto ciò che accomunava credenze di più dell’80% delle varie culture. Legami con la terra natale, attività notturne, assenza di riflesso, morire e non essere veramente morti, far preda dei viventi per sopravvivere, avversione alla luce e provare disagio nell’attraversare acqua corrente o di mare. Tutto questo faceva parte dell’insieme. Decisi di ignorare sia tutta la severa propaganda della fede cristiana, considerandola troppo pedante, sia tutti gli altri cascami religiosi che si erano via via stratificati sul mito, poiché, vista la radice così antica dei vampiri, le religioni ufficiali erano in ogni caso dei parvenu.
Il secondo livello della questione riguarda le relazioni fra vampiri e umani: deve per forza essere una relazione di sfruttamento? E gli umani devono per forza aborrire i vampiri? Più ci pensavo, più mi convincevo che potesse valere la pena di utilizzare il vampiro come metafora di umanesimo. Una persona che vive un’esistenza innaturalmente lunga potrebbe in definitiva alienarsi dall’umanità, utilizzando tale distanza come mezzo per evitare il dolore del trascorrere buona parte del proprio tempo a dire degli addii definitivi. Oppure poteva essere possibile che il vampiro cercasse, proprio attraverso questa alienazione, di diventare parte dell’esperienza umana, una possibilità che offriva decisamente un maggior numero di risvolti drammatici.
Arrivò in seguito a questa constatazione il terzo quesito riguardante la relativa solitudine della semi-immortalità, restringendo anche il mio precedente assunto: perché i partner del vampiro devono essere delle vittime? Non sarebbe meno rischioso renderli collaborativi? In questo modo potevo mettere da parte le vittime, e dedicarmi al punto focale dell’argomento: il tema fondamentale del mordere e del sangue. Secondo me, la cosa più rimarchevole riguardo al sangue, è la sua importanza sia per il partner vivente quanto per il vampiro non-morto. C’è un potere magico nel sangue che risale alla prima consapevolezza umana. È ovviamente un elemento essenziale per la vita, cosa che al vampiro manca in modo significativo. La teoria junghiana sembrava più consona rispetto ad altri approcci psicoanalitici, e così me ne servii come una sorta di filtro multiculturale per risolvere lo spinosissimo nocciolo della figura mitica del vampiro. Considerando la carica sessuale che il vampiro ha in sé, l’esperienza vampirica, in qualunque modo si esplichi, è satura di implicazioni erotiche. Un morso vale una penetrazione, per quanto bizzarro possa sembrare? Si può supporre che sia il vampiro che il suo partner possano beneficiare dell’orgasmo? L’intimità sessuale, nella sua forma più positiva, è comprensione reciproca che accresce l’essenza dei partecipanti, i quali si rivelano e si accettano nella sua natura, arrivando all’individualità esclusiva delle persone coinvolte. E cos’è più esclusivamente personale del sangue?
Ora avevo colto un approccio più positivo verso il vampirismo. Un modo di presentarlo che fosse, speravo, abbastanza innovativo da essere interessante e nello stesso tempo riconoscibile del suo genere. Dovevo trovare anche un personaggio, un’ambientazione e una storia. La Parigi di Luigi XV, ambientazione del primo romanzo di Saint-Germain – Hotel Transilvania – era allettante: era un periodo del quale già conoscevo abbastanza; era visivamente opulento; c’era un enorme interesse verso l’occultismo in quel periodo; la società era molto formale; c’era abbastanza tolleranza verso gli stranieri da rendere plausibile che questo vampiro potesse muoversi liberamente nella società; le donne erano parte attiva e visibile della società e godevano di una relativa autonomia; ed era una società che oscillava – del tutto inconsapevole – sull’orlo del tracollo. Ottimo materiale per dei romanzi.
Mi misi anche in cerca di personaggi storici per dare maggiore autenticità alla storia. Più mi documentavo, più mi appariva ovvio che il vero Conte di Saint-Germain era proprio l’eroe che cercavo. Si vestiva in bianco e nero (di mio aggiunsi il cravattino col rubino); non mangiava o beveva mai in pubblico; era un noto occultista e alchimista; affermava di avere 4.000 anni e di bere l’Elisir di lunga vita; aveva più di una dozzina di identità. Era colto, pieno di talento, intelligente, poliglotta, elegante e umanistico. Era uno straniero, le cui vere origini nazionali non furono mai scoperte. Era ricco. Era anche irresistibile. Né era da meno il suo domestico personale, Roger, che affermava di aver servito Saint-Germain sin da quando Vespasiano era Cesare. Il Saint-Germain letterario racchiude in sé, nel vero senso della parola, tutta la stessa materia prima di Dracula, ma la sua esperienza di vampirismo è estremamente diversa. Diversamente da Dracula, Saint-Germain non si ritira facendosi beffe dei suoi cacciatori. Diversamente da Dracula, Sain-Germain tiene in grande considerazione la brevità della vita umana piuttosto che disprezzarla. E, diversamente da Dracula, Saint-Germain offre libertà ai suoi partner anziché pretendere la resa delle proprie prede. Dopo tre editori, nove curatori e circa due milioni di parole, Saint-Germain non ha ancora iniziato a esaurire quelle che ritengo le sue potenzialità. L’ultima uscita della saga è nelle mani dei lettori del tempo, due cose che i vampiri considerano propri alleati.
Copyright © 1997 Chelsea Quinn Yarbro – Tutti i diritti riservati.
Ristampato per gentile concessione dell’autrice.