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Barman Adgur di Fazil Iskander
traduzione di Aldona Palys
Pubblicato su SITO


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I racconti di Progetto Babele

Revisione del testo Marco R. Capelli

Basta, Zinocka, smettila di confondermi! Tu sai che non mi piace leggere i menù! Portami tutta la roba migliore che avete perché io possa cenare con questa brava gente, bere un po' e passare il tempo a cuor leggero. Adesso vai! 

Cosa stavo dicendo? Ah, sì, questo. Qualcuno si è inventato questa storia, che io avrei due cuori e se lo acchiappo, dovunque sia, giuro su mia madre, me lo mangerò vivo. Qualcuno, certo, ha interesse a diffondere queste chiacchiere. Ma io prima o poi lo troverò, perché credo di sapere chi sia. Anche in mezzo ai nostri ragazzi se ne trovano parecchi di asini karabaki.(1)

- Come mai - dicono - sei potuto sopravvivere, se ti sei beccato sei pallottole e una ti è passata attraverso il cuore? Devi per forza avere due cuori, Adgurcik, e se è così, perché lo hai nascosto ai tuoi amici? 

- Sentite – dico io - ho un solo cuore e scoppierà dal dolore se voi continuerete a farmi queste domande. Ma come fate, amici miei, voi che siete ragazzi in gamba, voi che ho accolto a pane e sale e da cui io stesso ho ricevuto molte volte pane e sale, a credere a questa assurdità? 

Prima cosa, ho sopportato le sei pallottole perché, lo sanno tutti, noi siamo una razza dura da ammazzare. Secondo, la pallottola che avrebbe dovuto attraversarmi il cuore, è passata proprio nel momento in cui questo si stava contraendo e, di fatto, lo ha sfiorato senza toccarlo. La moderna scienza medica afferma che ciò accada una volta ogni cent’anni. La pallottola che deve trafiggere il cuore passa solo a una volta ogni cent’anni nel momento esatto della contrazione; capite, contrazione, e l’uomo rimane vivo. Ci sono tante probabilità quante di vincere una “Volga” comprando obbligazioni in rubli. 

Ma ci si riesce a spiegarlo a tutti? La gente viene al bar e c’è sempre qualcuno che fa domande stupide: - E’ vero, Adgurcik che hai due cuori?

E mi addolora di dovermi giustificare perché non sono morto. Giuro su mia madre, se non sono persino andato a Majak dove c’è la nostra macelleria. Lì lavora il nostro famoso macellaio Misrop. Il Carnefice. Il vecchietto ha quasi ottant’anni, ma sopravvivrà a tutti noi giovani perché, ogni mattina, beve un bicchiere di sangue fresco, quello delle bestie appena macellate. Ed ecco che gli racconto tutto come ad un padre. E Misrop mi dice: - Ho sentito del tuo eroismo, Adgurcik . Ma da un padre come il tuo, onestamente, io non mi sarei aspettato un figlio diverso. Conosco bene anche tua madre. La nostra ragazza eserka(2), cresciuta in una bellissima casa, formidabile padrona di casa. I suoi fratelli tuttora vivono là, come dei ricchi signori. E adesso io a te, come vecchio macellaio, dirò sinceramente che in tutta la mia vita non solo non ho mai visto un doppio cuore, ma neanche una doppia milza. E soltanto nel millenovecentotrentasei mi è capitato un toro nero con due stomaci. 

- Caro Misrop – gli dico – il toro nero con due stomaci nel millenovecentotrentasei sai cosa c’entra con il mio strazio? Un toro nero con due stomaci nel millenovecentotrentasei significa un'altra cosa: che verrà l’anno trentasette.

- Questo io l’avevo capito subito e quel che poi si disse sulla scapola del toro ne è la testimonianza. Ma allora non potei dire niente, quelli erano tempi così. Comunque, caro Adgurcik per quel che riguarda i quadrupedi, ti posso rispondere nel pieno delle mie facoltà e un macellaio, capisci da te, qualche facoltà la possiede. Ma per quel che concerne la gente, io non ne so niente, perché sono solo un vecchio macellaio e non ho niente a che fare con i vivi. 

Ma torniamo alla mia personale pena. E’ vero, il macellaio Misrop mi aveva dato ragione, ma ciò non bastava. La gente continua a venire al bar e ad importunarmi con domande sul secondo cuore. Avevo persino deciso di andare a Mosca, per consultare un bravo professore e farmi consegnare un certificato che attestasse, una volta per tutte, che un uomo non può avere, in nessun caso, due cuori. E questo a maggior ragione perché alcuni vengono al bar e facendo finta di scherzare mi palpeggiano, scusate l’espressione, come un finocchio, per cercare il battito del secondo cuore. 

Per quello volevo procurarmi il certificato, farne fare una copia da un notaio e appenderlo sul muro del bar. 

- Leggi da solo, se non sei analfabeta!

Un giorno, come se lo avesse fatto apposta, viene nel mio bar un signore di una certa età con la moglie, si mette a bere un cognacchino mandandolo giù sopra un caffè turco. Beve niente male, sembra simpatico. Lo osservo con lo sguardo di un cacciatore e penso: la fisionomia di questo cliente è quella di un professore. 

- Mi scusi – mi rivolgo a lui – Lei è per caso un professore o solo lo sembra dall’aspetto? 

- Sì - risponde - sono un professore. 

Anche la moglie sorride e annuisce.

- Scusatemi - dico - in quale campo? 

- Io – dice - sono dottore delle scienze mediche.

- E professore – dico – delle scienze mediche? 

- Sì – dice - e perché? 

A quel punto gli racconto la mia disgrazia e lo prego di rispondere ad una domanda: 

 - Capita che uomo possa avere due cuori oppure no?

- Fino ad adesso – dice – non ne ho mai sentito parlare in tutta la letteratura medica ma, nella vita, tutto è possibile. 

 - Ma come – mi stupisco – Lei è dottore di scienze mediche, Lei è pure professore delle suddette scienze, come è possibile che Lei non sappia esattamente se un uomo possa avere due cuori o no?

- Nella vita – ripete – tutto è possibile.

- E’ per questo che beve – aggiunge la moglie. 

E così rimango di nuovo con la mia pena. 

Adesso però vi racconterò per bene quel che mi è successo, perché voi, compagni, siete miei conterranei e i nostri padri erano amici e per me questo è tutto. E proprio per questo ci tengo a farlo io perché, se questa storia la sentiste da altri, potrebbero raccontarvi delle falsità sul fatto che io abbia due cuori. 

Giuro su mia madre, giuro sui miei due bambini che, in quel che vi dirò, non ci sarà una parola men che vera. Io lavoravo all’epoca proprio in questo bar. Quel giorno il necroforo ci fece sapere che a Cegem era morta la mia due volte nonna, ovvero la sorella della madre di mia madre, così la si chiamiamo secondo le nostre tradizioni. 

Aveva appena compiuto novant’anni ed era morta. E mi dispiacque molto per lei, perché ella era una vecchina molto buona ed io, nell’infanzia, spesso stavo a casa sua. 

E in genere questa è la mia natura, quando muore un vecchio mi dispiace per lui di più che per un giovane. Anche per i giovani mi dispiace, ma non così tanto. Questa è la mia natura. Io la penso così: quando un uomo vive da lungo tempo, egli si abitua alla vita ed ecco che arriva la morte. Ma uno giovane non è ancora tanto abituato alla vita, così che gli riesce di prendere alla leggera anche la morte. E’ per questo che i giovani spesso sono inclini all’azzardo, rischiano. 

Quando ero nel corpo dei paracadutisti avevo un amico. Si chiamava Victor. Un Russo. Era per me come un fratello. Era un ragazzo così in salute che gli diedero un soprannome: Palombaro. Che ragazzo che era! E cosa fosse la paura, beh, lui non lo sapeva affatto! Nella situazione più pericolosa egli pronunciava la sua parola preferita: - Normalevič(3) – e tutta la tensione si discioglieva. 

Povero Victor, che sia il suo lo Zarstvo celeste(4), morì. Si attorcigliarono le corde e il paracadute non s’aprì. Quella volta egli si gettò per sesto, dopo di me. Appena alzai la testa lo vidi, precipitava, come un sasso. 

Giuro su mia madre, giuro sui miei due figli, che io sia dannato se egli non gridò per l’ultima volta: - “Normalevic, Adgur” - e si conficcò dentro la terra. 

Quel giorno quasi impazzii per il dolore….
Adesso beviamo, amici miei per la pace della sua anima, per il mio Victor. E così…

Così che, appunto, era morta a Cegem la nonnina. Consegno la cassa al direttore e gli dico, mezz’ora prima della chiusura del bar, che quel giorno me ne sarei andato prima a causa del nostro lutto famigliare. 

- Prego - egli disse - Adgurcik, vai pure... ma io dovrei prima parlare con te di una certa questione. Dai, sediamoci per due minuti, beviamo qualcosa e poi te ne andrai. 

Ma adesso ti sembra il momento di bere, mentre a Cegem giace la nonna morta e noi domani di primo mattino abbiamo intenzione di andare lì con tutta la famiglia? – Pensai. 

Ma che vuoi farci? Primo, è il direttore. Secondo è più vecchio di me. Quello versa il cognac, ma io non ho voglia di bere. Per rispetto trangugiai due o tre gocce e mi misi ad ascoltare quel che aveva da dire. E quello comincia a dire delle cose assurde. Rammenta un affare di tre anni prima, che io già avevo già sistemato. E poi racconta di come io avrei offeso un suo parente. Ma, primo, per me quella era una cosa già risolta, morta e sepolta e, secondo, perché starsene zitto per tre anni e tirare fuori la storia del parente proprio in quel momento? 

Alla fine, riuscii a liberarmene, mi scusai e mi alzai. 

- E va bene - disse - vai, visto che avete questo lutto. Pian piano chiuderò il bar e poi anch’io me ne andrò a casa. 

Ed ecco, adesso rammento, esco dal bar all’incirca dieci o quindici minuti prima di mezzanotte. Come al solito. Avevo superato tre quartieri e stavo passando accanto al parco sulla strada buia. Questo soviet dei deputati dei lavoratori, scusate l’espressione, avrà avuto una madre! Perché non possono mettere dei lampioni?

E’ una vita che sento sempre la stessa storia: - Una nuova centrale idroelettrica hanno aperto, una nuova centrale idroelettrica hanno aperto e in città c’è sempre meno elettricità. 

A-a-a! Guarda quegli stranieri che si sono seduti dietro a quel tavolo… sono tedeschi della DDR. I tedeschi ordinano sempre e solo lo champagne. Il nostro champagne è l’unica cosa che prendono in considerazione. Oltre ad esso, non gli interessa altro. Sono capaci di stare seduti al tavolo con una sola bottiglia tutta la sera.

L’anno scorso ho avuto un divertente incontro con due tedeschi della DDR. Giovani. Marito e moglie. Passavano vicino casa nostra e all’improvviso videro nel cortile la pelle d’orso che mia moglie aveva steso al sole. Ho abbattuto quell’orso tre anni or sono nelle foreste di Sukhumi. Ed ecco che la moglie di quel tedesco, parlavano un po’ il russo, entrò nel cortile e cominciò a domandare: - Di chi è quella pelle? 

E i vicini li accompagnarono nel nostro appartamento. Mi accorgo subito che, a questa giovane tedeschina, la pelle del mio orso piace molto. 

- Prego – dico - secondo i nostri usi io vi regalo questa pelle. 

Essi rimasero molto contenti e il marito cominciò a togliersi l’orologio d’oro per regalarmelo ma io, naturalmente, rifiutai. 

- Al contrario, dal momento che siete venuti a casa mia vi voglio ospitare. 

Mia moglie apparecchia la tavola. Io tiro fuori dal refrigeratore tre bottiglie di champagne e ci sediamo. Quando mia moglie seppe che gli  avevo regalato quella pelle, ne fu molto contenta anche se non lo diede a vedere. Mi aveva fatto la testa come un pallone per quella pelle.

- A cosa ci serve questa pelle? Raccoglie un mucchio di polvere e non si sa neanche come pulirla ... E meglio che compriamo un tappeto...

Come una zingara, mia moglie preferisce un tappeto… Ma io avevo le avevo regalato quella pelle con tutto il mio cuore. Fra l’altro mia moglie non riesce a dire la parola “polvere”. Ella dice “pilvere” perché proviene dalla regione di Endur e lì nessuno riesce a parlare correttamente il russo. Mentre da noi, nella regione di Kengur, anche le donne parlano correttamente il russo. 

Ed ecco che stiamo seduti, beviamo lo champagne, mangiamo e parliamo. E i tedeschi si sbronzarono quasi subito. E a quella giovane tedeschina, si vedeva, anche io ero piaciuto come lei a me; all’improvviso si alza, si siede sulle mie ginocchia e comincia a baciarmi. Sembra che da loro usi così, ma io non lo sapevo. Suo marito sta seduto tranquillo ma mia moglie ci resta di stucco. Da una parte, sono ospiti ed ella non può dire nulla. Dall’altra, c’è una donna straniera bacia il suo marito. Ed ecco che mia moglie guarda, guarda e non può dire niente. Ed io rido a crepapelle perché questa tedeschina mi sta baciando e mia moglie guarda come una mummia egizia.

- Che guardi? - dico - bacialo anche tu! 

In poche parole, abbiamo passato piacevolmente il tempo ma poi quelli si ubriacarono e, soprattutto, volevano ancora bere ma io non avevo altre bottiglie da mettere in tavola. Io li guardo e ho paura che finiranno con l’inciuccarsi del tutto. 

Alla fine ho incartato per bene la pelle ed essi hanno cominciato ad andarsene via. E quella tedeschina continuava a chiederci cosa avremmo voluto che ci mandassero dalla Germania. E mia moglie sottovoce, nella lingua abcasa(5), mi suggerisce: 

- Chiedi il lampadario “Dresden”. Va di moda. 

- Sshhh! – dico – non ci serve niente! 

Esco con loro per strada, trovo un taxi e li porto preciso preciso al numero del hotel “Tbilisi” dove si erano fermati. 

Ma io mi sono allontanato dal mio discorso parlando di questi didieriani(6). Oh! Dicevo che essi pensano solo allo champagne. Ora la cameriera gli ha portato la bottiglia che hanno chiesto. Adesso staranno seduti tutta la sera intorno ad essa. 

Ed ecco che sto passando sulla strada buia vicino al parco. E’ più o meno quindici, venti minuti dopo mezzanotte, non di più. All’improvviso mi raggiunge una macchina sconosciuta, si ferma e qualcuno da dentro grida: - Adgur, entra in macchina! 

Mi giro. E’ una “Volga” bianca, ma non riesco a capire di chi sia. Penso, certamente i nostri ragazzi vanno da qualche parte a fare bisboccia e vogliono portarmi con sé. Mi avvicino per dirgli che a casa mia siamo in lutto e che non ho voglia di divertirmi, e poi non sarebbe nemmeno decoroso se qualcuno lo venisse a sapere. Guardo dentro, tutta gente sconosciuta. Bah! Lo capisco subito che la cosa puzza! Ma io non mi lascio fregare così facilmente! 

- Sali! – dice uno di loro e apre lo sportello posteriore. 

- Perché – dico – dovrei salire in macchina se non vi conosco e non vi voglio conoscere. 

E vado velocemente avanti per vedere la targa. Guardo – eccoti qua! - la macchina è senza targa. 

L’affare si mette male, penso, ma non ho paura, dentro la cintura, non lo nascondo, ho una parabellum da generale. Velocemente raggiungo il marciapiede, perché lì i cespugli di oleandro possono coprirmi. Mi metto ad ascoltare, di nuovo mi raggiungono. Si fermano. Saltano giù dalla macchina in tre e, inaspettatamente, tutti e tre mi sparano. Sette, otto colpi da una distanza di dieci passi e due pallottole passano da parte a parte attraverso il mio petto. 

Penso, mi hanno steso. Ma io sono ancora in piedi e cammino velocemente, perché la strada è buia e loro sono in tre. No, penso, qui non c’è modo di difendersi, ma dietro l’angolo c’è una cabina telefonica. Penso: - Lì riuscirò a trattenerli, la polizia è vicino, sentiranno gli spari. 

Vedendo che non ero caduto nonostante mi avessero colpito, si distrassero un attimo e ciò mi permise di arrivare fino all’angolo. Ma si ripresero in fretta. 

- Fermo! Fermo! – gridano e, mentre giro dietro l’angolo, ancora una volta fanno fuoco, e ancora mi raggiungono altre due pallottole. E quel che è più curioso, tutte mi passano da parte a parte. 

No – penso - figli di puttana, aspettate e vedrete come spara un paracadutista sovietico. Raggiungo l’angolo della strada, mi avvicino alla cabina telefonica e tiro fuori il mio parabellum. Non appena essi videro che stavo tirando fuori il mio cannone, si sdraiarono tutti e tre sul marciapiede. 

Io mi affaccio da dietro la cabina e vorrei sparare. E che potessero spararvi i vostri nemici come sono capace di farlo io. Però mi hanno frantumato la mano destra e non posso sollevare la pistola. Giuro su mia madre, mi veniva da piangere per l’umiliazione. Ed ecco che questi sicari, vigliacchi, che mi hanno infilato quattro pallottole, se ne stanno sdraiati davanti a me sul marciapiede ed io non sono neanche in grado di tirare fuori il mio parabellum da generale. Che fare? Sparo tre volte sull’asfalto con l’altra mano, per intimorirli, poi me la do a gambe. Ma che fare? Sento che un’altra pallottola, forse, posso sopportarla, ma di più, non lo so. 

Quando mi vedono scappare, si rialzano e si precipitarono dietro di me. Erano convinti che avessi finito le cartucce. Corro. Quelli mi stanno alle calcagna. Ma la mia velocità naturalmente, non è la loro. Ho quattro pallottole in corpo. Fanno fuoco ancora una volta e ancora un’altra pallottola mi trafigge. E quel che è più curioso... ancora da parte a parte. 

Grazie a Dio, penso, la polizia è nei pressi. Io corro, ci sono addirittura sei uomini, sei poliziotti saltano fuori e ascoltano gli spari come se fossero appassionati di musica leggera. Invece di correre verso gli spari, come si addice alla vera polizia sovietica. 

Li raggiungo, ma loro mi tolgono il parabellum e mi ammanettano. 

- Perché mi mettete le manette? – urlo – non scapperò da nessuna parte. Lì, dietro l’angolo c’è una “Volga “bianca senza targa e da essa sono usciti fuori tre sicari, per uccidermi. 

Non faccio in tempo a dirlo che uno dei tre salta fuori dall’angolo. 

- Eccolo! Eccolo! Prendetelo! – grido. 

I poliziotti mi circondarono, ma i sicari non arrivano. E all’improvviso vedo che uno di loro, da solo, esce da dietro l’angolo e si avvicina sfacciatamente. Io non ci capisco niente e grido: 

- E’ quello che mi ha chiesto di salire in auto! E’ lui che ha sparato più di tutti! Prendetelo! 

I poliziotti mi circondano ancor più strettamente, io mi agito e non so nemmeno io quel che grido. E quello si avvicina a noi, tira fuori dalla tasca la pistola come l’assassino di Kennedy e, facendosi largo fra i poliziotti, mi punta la pistola sotto l’ascella e spara, dicendo con scherno: 

- Vuoi stare zitto una buona volta o no? 

E quel che è più curioso è che proprio quella pallottola si fermò dentro di me, mentre tutte le altre erano passate da parte a parte. E il mio assassino non lo sta fermando nessuno. In quel momento comincio a capirci qualcosa. Oh, oh, oh! – penso – qui sono tutti comprati! 

Aspettate un minuto. Zinocka, vedi, laggiù, quel tavolo all’angolo dove sono seduti in cinque? Mandagli cinque bottiglie di champagne, vedo che hanno già smaltito la sbornia. Non dire chi le manda, che indovinino da soli. Si sono dati alla bella vita, ma non fa niente… Sono nostri ragazzi del luogo. 

Allora, dove mi ero fermato? Sì. Avevo capito, tutti comprati. Un altro a posto mio lo avrebbe capito subito. Ma io l’avevo capito solo in quel momento. Che ingenuo! 

Ed ecco che mi portano davanti al sottotenente di guardia. Grazie a Dio, vedo che è un ragazzo che conosco; cento volte era venuto da me e sempre lo avevo accolto a pane e sale.(7) Ecco, penso, mi aiuterà, se non lo hanno ancora comprato. Ma accanto a lui c’era un qualche maggiore che da subito non mi piacque. Racconto tutto al sottotenente e vedo che egli prende le mie parti. Ma questo maggiore glielo impedisce. 

- Tu menti! – grida il maggiore. - Tu avevi preparato un attentato a mano armata contro i lavoratori della polizia e ne risponderai! 

E anche se ho le mani nelle manette, strappo la camicia, denudo il petto, e mostro le ferite insanguinate.

- E’ interessante – dico – risulta, compagno maggiore, che io ho organizzato un attentato ma non ho centrato nessuno, mentre a me hanno ficcato in corpo sei pallottole.

E il maggiore si innervosisce, perché si accorge che il sottotenente mi difende e, per giunta, vede il mio sangue innocentemente versato. 

 - Non ti permetto – grida – di fare questa sceneggiate! – E con violenza mi dà uno schiaffo sulla guancia. In quel momento, giuro su mia madre, ho perso la testa e anche se la mia mano destra non funzionava, alzai quell’altra, la sinistra, e conficcai le manette nel testone di quel Berija di un maggiore con tutta la forza che avevo. Egli cadde ed io persi conoscenza. Perché non mi abbiano ammazzato in quel momento, proprio non lo so.
Probabilmente, penso, erano convinti che sarei morto per conto mio. O forse il sottotenente si oppose, non saprei dirlo. Rinvengo e vedo che mi portano da qualche parte in macchina, mi hanno tolto le manette. 

 - Dove mi portate? – domando. 

 - Calma – risponde un ragazzo vestito con un camice bianco – questo è il “pronto soccorso”, ti stiamo portando all’ospedale. 

Ma dopo la “Volga” bianca con quei sicari, come posso fidarmi di un camice bianco? E qui dico fra me e me: 

- Normalevič, Adgur, qui tutti sono comprati, non bisogna più perdere conoscenza .

E difatti mi portano all’ospedale. I medici girano e rigirano intorno a me, come faccio a capire chi è comprato e chi non lo è? Non ne so proprio niente. Ma come un vero paracadutista nelle retrovie del nemico, già avevo elaborato una tattica: fingo di non reagire mentre invece ascolto tutto, vedo tutto attraverso gli occhi socchiusi, studio la situazione. 

In breve: roentgen, non roentgen, mi portano sulla carrozzella qua e là, su e giù. Alcuni medici si meravigliano che io sia ancora vivo, gli altri dicono: “non arriverà fino a domani” e altri ancora: “forse sopravvivrà…” 

E io penso: - Normalevič, l’importante è non perdere conoscenza…

E qui i medici cominciarono a dibattere sul perché non ero ancora morto. Ed io sentii per la prima volta il termine contrazione.

- Evidentemente il proiettile è passato nell’istante in cui il cuore era in contrazione – decisero.

Mi adagiarono sul tavolo operatorio e qui feci finta di esser tornato in me in quell’istante. 

- Compagno chirurgo - dico - scusate ma io sotto anestesia totale non consentirò di farmi operare .

- Ah! Ha ripreso la conoscenza. Non ho nessuna intenzione di fare l’anestesia, perché la pallottola è sotto la pelle. 

- Se è così – dico – procedete.

In poche parole, mi tolsero il proiettile, mi bendarono e mi rimandarono in corsia. Di nuovo faccio finta di aver perso conoscenza; se i medici venduti sperano che io muoia, che sperino pure.

Mi portano in reparto e mi accomodano in una stanza privata. 

- Ah! - penso - perché mi mettono, come un ministro, in una stanza privata? Vuol dire che hanno intenzione di fare qualcosa mentre sto dormendo. Senza testimoni.

Bisognava continuare a fingere. 

Dopo cinque minuti, entra una giovanissima infermiera e vuole mettermi il termometro sotto l’ascella. Devo aprire gli occhi. 

- Ragazza – dico – mi hanno infilato lì la pistola. Non è abbastanza? 

- Ah! - scusatemi – dice la ragazza – ho sbagliato ascella. 

- Non fa niente – dico - ragazza, ma prima mettetevi voi il termometro. 

- Perché? – domanda e mi guarda con occhi che sembrano innocenti. Ma non ho scelta, perché non riesco a capire: è comprata o non è comprata? 

- Perché – dico - cara ragazza, se questo termometro scoppierà sotto la mia ascella, i miei parenti sono anche loro degli uomini d’onore e la sua giovane vita potrebbe accorciarsi.

- Ma che dite, che dite - dice la ragazza – conosco bene questo termometro, l’ho tirato fuori io dal cassetto. 

- Potevano scambiarlo – dico. 

- Va bene – dice – me lo metterò io. 

- E mettetevelo – dico - ma sappiate che se salterete in aria, non sarà per colpa mia. 

Ed ella si mette il termometro e, sottovoce, continuiamo a chiacchierare.

- Poverino, poverino – dice la ragazza – cosa vi hanno fatto per farvi diventare così sospettoso? 

- Ragazza – dico - Se ti si avvicina una “Volga” bianca senza targa e da lì saltano fuori tre uomini e ti sparano come ad una quaglia e tu scappi da loro nelle mani della polizia e quando sei nelle mani della polizia ti si avvicina l’assassino e ti infila sotto l’ascella una pistola e ti spara, dicendo con tono beffardo: “Stattene zitto una buona volta” e la polizia non lo ferma, perché anche lui è un lavoratore della polizia… volente nolente anche tu diventeresti sospettosa. 

E così abbiamo parlato per una quindicina di minuti. 

Io prendo tempo apposta perché penso che, se da loro tutto funziona male, anche l’aggeggio esplosivo può scoppiare in ritardo. Ma ormai ho capito che la ragazza non è stata comprata. Di sicuro avranno pensato: “E’ solo un infermiera, che senso avrebbe comprarla?”.

La ragazza mi misura la febbre e rimane molto meravigliata: trentasei e sei. Ma io lo sapevo. E le dico:

- Vedo che siete una ragazza pulita, onesta. Spiegatemi allora perché mi hanno messo, come se fossi un ministro, nella stanza privata? Voglio stare modestamente in una corsia comune. 

- Oh! – dice la ragazza – da noi tutte le stanze sono affollate, la gente è sistemata persino nei corridoi. 

- A maggior ragione, dico – a cosa devo questo onore? Sono un semplice barista e non un istruttore del comitato urbano o l’ispettore del commercio. 

- In questa stanza – mi risponde la ragazza – c’era un uomo, ma due ore fa egli è morto e non hanno fatto in tempo a portare nessun altro qui. 

Ah! - penso - la ragazza, senza saperlo, mi svela il segreto della ditta. 

- Cos’è – dico - ragazza, in questa piccola stanza muoiono tutti? 

- No - risponde la ragazza – raramente. 

Raramente! Ma a me non piace neanche questo raramente! 

- Sapete che c’è, ragazza – dico – chiedete al medico di turno di spostarmi nella corsia comune. 

- Va bene – risponde la ragazza – glielo chiederò, ma sarà difficile che egli possa acconsentire. Adesso sono le tre di notte. Non si può disturbare i malati. 

Ma io insisto molto e, per di più, le do pure il mio indirizzo di casa perché ella possa andare da mia moglie la mattina dopo e raccontarle tutto. A maggior ragione, se dovesse succedermi qualcosa. 

 - Nulla – dice la ragazza – vi succederà. Avete per giunta un organismo incredibile perché, dopo tutte queste ferite, riuscite ad avere una temperatura normale. Quando vi hanno portato qui, molti dottori pensavano che sareste morto.

- Alcuni “comprati” con i camici bianchi lo pensano ancora – dico – ma con il vostro aiuto, sorellina, dimostreremo che si sbagliano. 

Ella esce ed io penso: - Se hanno già comprato il medico di turno egli, di sicuro, non le permetterà di spostarmi nella corsia comune. Non vorranno avere testimoni.

Ma poi mi accorgo che, più di ogni altra cosa, mi preoccupo del funerale della nonna. Se a casa non sapranno cosa mi è successo, al funerale non ci andrà nessuno. E se mia madre, mia moglie, le sorelle e i ragazzi non andranno al funerale secondo le nostre usanze, questo sarà un disonore. La nonna, naturalmente, sarà sepolta anche senza di noi ma il suo funerale sarà una vergogna per tutti i nostri parenti e compaesani. 

La ragazza torna e dice che il medico non ha acconsentito. Ma lo sapevo già. Bene, penso, adesso bisognerà fingere di non sospettare nulla. 

 - Bene – dico – cara ragazza. Ma non scordatevi di fare un salto domattina a casa mia.

- Non vi preoccupate di questo – mi dice – ci andrò senz’altro. Abito vicino a voi. 

- Allora mi metterò a dormire - dico - e voi informate la mia famiglia. 

- Buona notte – dice la ragazza ed esce.

Ma che buonanotte, adesso l’importante è non addormentarsi. Ed ecco, dopo una mezz’ora, sento che la porta si apre ed entra nella stanza l’uomo in bianco. Pian piano si avvicina al mio letto e guarda, guarda, guarda. Rimango immobile e aspetto, ma la mia gamba destra sotto la coperta è all’erta. Appena si avvicina, una mossa di karate e l’uomo è già un invalido di prima classe. In fondo sono un paracadutista, mi hanno addestrato per questo. 

Ma ecco che lo vedo muoversi, si allontana da me e si siede sulla sedia accanto alla finestra. Evidentemente, ha deciso di aspettare che mi addormenti, e dopo una iniezione o una pillola, non so come facciano adesso. Continuo a tenerlo d’occhio, dopo una mezz’ora si gira verso di me e guarda, guarda, guarda ed io mi fingo morto del tutto. All’improvviso si alza e si dirige dritto, dritto verso di me. I miei nervi non reggono e faccio finta di essermi svegliato all’improvviso. 

- Fermo! Chi va là?! - grido. 

- Piano, piano. Sveglierete i malati. Mi era sembrato che aveste smesso di respirare. 

- No. E finché sono vivo posso tenere testa ad un uomo. 

- Come vi sentite? – domanda. 

- Non so perché ma ho molta voglia di dormire. - dico. 

- Dormite, dormite. E’ normale quando si perde tanto sangue. 

Con queste parole se ne va da qualche parte. Evidentemente deve riferire a qualcuno, perché per ora non è riuscito a fare niente, il paziente controlla il piantone. 

Non so cosa gli abbiano detto di fare ma, dopo un po’, torna di nuovo e, di nuovo, mi guarda. Ma io resto immobile come se stessi dormendo. Di nuovo si siede sulla sua sedia, posa la testa sul parapetto e finge di russare. - Eh no! - penso - Questa non me la bevo! 

Io mi sto controllando e lui russa per farmi perdere la vigilanza. E così va avanti fino al mattino. 

La mattina dopo sotto la finestra dell’ospedale sento all’improvviso la voce di mia moglie. Salto fuori dalle coperte e questo assassino in camice bianco, anche lui salta e mi si mette per traverso. 

- Adesso rimettetevi a letto! – grida.

Io con un colpo della mano sinistra lo spingo nell’angolo, spalanco la finestra e grido:

- Sono vivo e sano! Andate al funerale della nonna! Piangete sulla sua tomba anche a nome mio! Dite ai miei amici dove mi trovo! I dettagli ve li spiegherò dopo i funerali! 

Mia moglie piange. 

- Noi – dice - ti abbiamo cercato tutta la notte. A tutti gli obitori, a tutte le stazioni della polizia abbiamo telefonato. 

- Mi avete trovato, non c’è più bisogno di telefonare. Andate, ma prima avvertite gli amici. 

E quello con il camice bianco già si è ripreso e mi trascina lontano dalla finestra. Ma io adesso non oppongo resistenza. Mi metto a letto da solo. 

- Ma non vi vergognate – dice – voi mi avete percosso ed io sono stato qui tutta la notte senza chiudere un occhio per accudirvi. 

- Scusate – dico – ma è la prima volta che sento un uomo russare con gli occhi aperti.

Dopo un paio di ore arrivano gli amici. Portano fiori, khachapuri(8), galline, come se fosse una festa. I miei amici, nostra gente, ragazzi del posto, hanno parlato con il primario e con il mio medico curante e si sono capiti subito. Adesso sono sicuro, nessuno mi toccherà.

Rimango lì ancora per due giorni, mi sento splendidamente e quel che è più curioso, la febbre per tutto il tempo resta a trentasei e sei. Arriva mia moglie, racconta che la nonna è stata seppellita con tutti gli onori. Tutto si è svolto come si deve, secondo i nostri usi.

Dopo un giorno arriva uno dei miei più intimi amici e dice: 

- Adgur, ho saputo tutto. Stanno cercando di appiopparti l’accusa di attentato ai lavoratori della polizia, ti vogliono impiccare. Ma tu non devi avere paura, da Muchuz(9) fino a Mosca tutti sono stati messi all’erta. La prima cosa da fare è guadagnare tempo, quindi sarebbe meglio che tu rimanessi il più possibile all’ospedale. Da qui non ti preleveranno. Ti è salita la febbre. Da oggi sono subentrate per te gravi complicazioni. Per quarantacinque giorni ti lasceranno rimanere all’ospedale. E dopo, si vedrà. Ti hanno già assunto un bravo avvocato, uno di Mosca. Non si poteva prendere uno del luogo, perché qui tutti sono comprati. 

Poco dopo arriva l’avvocato di Mosca, viene con il mio amico in ospedale ed io gli racconto tutto quel che è successo. 

- Non temere – dice – Adgur, io ho strapazzato pesci belli grossi a Mosca, altro ché polizia come la vostra . Al massimo ti daranno un anno e mezzo per possesso di armi.

- E questo non si può – dico – far passare come usanza nazionale? 

- No – dice – non si può. Io lo dico sempre prima quel che posso e non posso fare, ecco perché mi pagano una parcella così alta. 

- Perché stai mercanteggiando – dice il mio amico – ti vogliono far impiccare, che sarà mai un anno e mezzo di prigione? 

- Ti dirò di più - continua l’avvocato - di fatto ti farai un anno, se ti comporterai bene. E così arriva l’ora. Esco dall’ospedale. Fra una settimana deve aver luogo il mio processo. E all’improvviso viene un mio compagno che ha delle aderenze alla Corte Suprema. Anche lì ci sono alcuni dei miei che sondano il terreno. 

- Adgur – dice - le cose si mettono male. Vogliono organizzare un processo urgente domani alle due del pomeriggio, ed assegnarti un avvocato locale.

- Come un avvocato locale? – dico – Io ricuserò un simile giudizio! 

- No - dice il compagno – essi non aspettano l’altro. Se lo ricusi ti prenderanno sotto custodia come criminale particolarmente pericoloso. Lo fanno per isolarti dagli amici. Per questo non devi ricusare. Bisogna chiamare subito, questa notte, il tuo avvocato di Mosca. Ma telefona prima all’Aeroflot, sembra che hanno cambiato gli orari dei voli notturni da Mosca. 

- Ma come – dico - hanno comprato pure i piloti di Aeroflot? 

- Non lo so con esattezza – dice – forse li hanno comprati o forse hanno cambiato i voli perché non è stagione, pochi passeggeri.

E così telefono al nostro Aeroflot. I voli serali sono stati cambiati. Bene, penso, proviamo con l’Adler . Chiamo l’Adler e chiedo dei voli serali. 

- Ma prego – dicono – quanti ne volete.

Telefono al mio avvocato a Mosca. Ma non sono io a chiedere la linea. La chiede il mio compagno e solo dopo prendo la cornetta. Anche quelli del centralino telefonico sono tutti comprati. 

- Voi – dice il mio avvocato – avete preso la decisione giusta. Partirò subito. Aspettatemi all’Adler.

In poche parole, qui li abbiamo fregati. Quando il giorno dopo il giudice venne a sapere che il mio avvocato si trovava sul posto, quasi quasi si ruppe la mascella dallo stupore. Contemporaneamente, la mia causa venne passata all’avvocato locale che si mise a studiarla. I ragazzi vengono dirmelo. Arrivo in l’avvocatura e vedo questo rimbambito che, con gli occhiali sul naso, sta leggendo il mio affare come lo scrivano del film, girato prima della guerra, “Dariko”(10). 

- Pussa via! - dico - Sparisci dalla mia vista. Un illustre avvocato di Mosca, in possesso di tre titoli accademici, da due mesi si occupa della mia causa e tu con il tuo diploma comprato vuoi esaminare il mio caso in una mattinata?! 

In poche parole, insieme ai miei amici aspettiamo il processo che è fissato per le due di pomeriggio. E, nel frattempo, il mio avvocato, non si sa perché, gira per la città e che cosa combini non lo so proprio. Uno dei miei amici lo accompagna con la macchina. Va al Tribunale Supremo o alla Procura o al Comitato Urbano. Sento che sta succedendo qualcosa, ma cosa sia non riesco a capirlo. Non sarà che questi affaristi cercano di comprare anche il mio avvocato? Ed ecco che poco prima del processo egli si avvicina a me e mi dice:

- Adgur, io, come ti avevo promesso, ti salverò. Ma non possiamo farli incriminare, perché ci sono delle forze molto potenti interessate a questo affare. I servizi segreti. Bisogna cambiare la strategia di difesa. Tu devi dire che non sei in grado di riconoscere le persone che ti hanno sparato. E anche se il giudice è contro di te, io gli spezzerò la schiena. 

Vuol dire che all’uomo che mi ha sparato a bruciapelo davanti agli occhi dei poliziotti e che per giunta mi ha deriso dicendo: “Te ne starai zitto una buona volta, o no!”, come se io non fossi un uomo ma la sagoma mobile di un porco, non gli faranno niente?! Ero uscito dai gangheri ma i ragazzi in qualche modo mi calmarono e mi accompagnarono al processo. Che potevo fare? Ho ripreso la padronanza di me e ho racconto tutto come mi aveva istruito il mio avvocato. Comincia il processo. Da subito si vede che non mi daranno la pena di morte, ma quella canaglia di giudice mi vuole dare otto anni con l’accusa pretestuosa di sparatoria provocata da un malvivente ubriaco. 

E chi sono i giudici popolari? Un uomo e una donna. L’uomo, secondo me, è come quel sordo della gilda de “Il vano sforzo”(11). E la donna, lavoratrice d’avanguardia della fabbrica tessile, non sa dire due parole in russo. In tutti i processi che ho visto nella nostra città, non c’è ne stato uno in cui mancasse un giurato della fabbrica tessile. Perché gli piaccia così tanto la fabbrica tessile, non so spiegarmelo. Anche lì rubano come da tutte le parti. 

L’unica speranza è il mio avvocato. E lui sì che gli ha dato del filo da torcere! Prima si mise a ridicolizzare l’intera indagine, la definì disonesta ed ignorante. Corrotti come i nostri giudici istruttori, sono sconosciuti persino nel Texas. Risultò che il giudice istruttore aveva sottratto dalle prove il mio parabellum da generale. Lo avrà regalato a qualche dirigente. Il mio parabellum da generale lo hanno sostituito con decrepito, pidocchioso “valter”!(12). Davanti a gente che non mi conosceva, mi vergognai. Un simile “valter”, da noi, un guardaboschi che si rispetti non lo prenderebbe nemmeno in mano. E poi, hanno mostrato sei bossoli che dicevano di aver trovato sul luogo della sparatoria. Il Texas, a confronto con i nostri giudici istruttori, sembra il monastero di Novyj Afon(13) prima della sua chiusura .

Vuol dire, e non lo si può più nascondere, che mi hanno centrato sei volte. Quelli, invece, fanno di tutto per far intendere che io avrei sparato sei volte e che anche gli altri avrebbero sparato sei volte, in risposta. Il mio difensore ride anche di questo. 

- Ma di  cosa stiamo parlando? - dice – E’ una sparatoria o il duello Puskin-D’Anthes(14)?!

Poi disse che io non avevo affatto sparato ai criminali che mi inseguivano, ma in aria, per richiamare l’attenzione della polizia.

- Guardate questo ragazzo – continuò – in un passato non così lontano è stato un paracadutista, addestrato nel combattimento. E’ mai possibile che uno come lui abbia sparato sei colpi senza centrare nemmeno uno dei malviventi, malviventi la cui l’identità sarà stabilità da una successiva e molto più obiettiva indagine? 

Capisco che sta preparando il terreno per la variante difensiva che abbiamo concordato. 

- Si deve forse evincere - dice – dalle parole del nostro stimato giudice che i nostri paracadutisti non sanno sparare?! Questa è una calunnia contro il nostro eccellente esercito, chiamato a difendere i pacifici sforzi della nazione! 
Qui lo ferma il pubblico ministero e dice che, nelle parole del giudice, non c’è alcuna intenzione di calunniare il nostro esercito. Forse il compagno moscovita avrà scambiato per una calunnia l’accento caucasico. Ma il mio avvocato gli risponde su due piedi: 

- C’è calunnia intenzionale, e la prego di metterlo a verbale!

In poche parole egli diede loro una bella strapazzata. E come aveva detto, così successe. Mi diedero un anno e mezzo ed io scontai un anno.

Ed ecco che mi portano nella prigione di Dranda(15) e lì vedo che la guardia carceraria era lo zio di un mio buon amico. 

 - Ho sentito – dice - Adgurcik, del tuo affare. So che non sei colpevole. Ma cosa posso fare per te, sono un uomo insignificante. 

 - Grazie – dico – zio Tenghiz, non mi serve niente. Ma nella mia situazione una buona parola riscalda l’anima. 

- Una cosa – dice – posso farla. Se hai un messaggio per qualcuno, fuori di qui, lo consegnerò immediatamente.

- Grazie – dico – zio Thenghiz, non me lo scorderò mai.

E mi porta dentro la cella e se ne va .

E all’improvviso vedo che un ragazzo robusto mi guarda dal pancaccio e grida:

- Salute, Uriuk ! E da tanto che ti aspetto, Uriuk! 

Guardo, non so chi sia. 

Tu – dico – amico mio, ti sei sbagliato. Mi chiamo Adgur .

E così passo accanto a lui e mi siedo al mio posto. 

 - No - grida – tu sei Uriuk! - Come vanno le cose fuori, Uriuk?

Non ci capisco niente, egli mi vuole offendere o mi sta scambiando per qualcun altro? E a questo punto l’uomo che stava seduto accanto alla mia branda si china verso di me e sottovoce mi dice: 

- No farci caso. E’ toccato. Egli chiama tutti a modo suo. 

- Se è toccato - dico – perché si trova qui e non in un manicomio? 

 - Egli – dice – è toccato e criminale nello stesso tempo. Non farci caso, ci ha dato, a tutti, dei soprannomi. 

Ed io, allora, non sapevo cosa volesse dire “ Uriuk”.

- E cosa vuol dire “ Uriuk”? – dico. 

E’ – dice – un’albicocca secca. La preparano nell’Asia Centrale.

Che c’entra l’albicocca secca con me? - penso. Se fossi magro, allora sarebbe un’altra cosa. E’ evidente che è toccato. Al diavolo, se sono riuscito a sopportare sei pallottole, sopporterò anche questo Uriuk. Ed ecco che sono passati dieci giorni della nostra vita in cella. E con noi c’era anche un ragazzo giovane, magrolino, e venni a sapere che era un ex lavoratore della polizia ferroviaria. La sua situazione era la seguente: aveva acciuffato due macchinisti che portavano una tonnellata di mandarini nella città di Gorkij. Aveva confiscato questi mandarini per redigere la denuncia contro i macchinisti e mandarla a Batumi, dal loro responsabile. Ma lui è ancora un lavoratore giovane, e i macchinisti sono navigati, non hanno paura di niente. 

 - Va bene - dicono – hai confiscato i mandarini ma non c’è bisogno di fare rapporto. Noi lasceremo duemila rubli presso un tizio. Prendili e dividili con il tuo superiore. 

- No – dice – non mi serve niente, farò rapporto. 

Essi pensano, semplicemente fa il difficile. Ma invece, lui è giovane, onesto. Fa il rapporto e lo manda all’azienda. 

Passa il tempo e all’improvviso arrivano questi macchinisti, entrambi ubriachi fradici, e montano uno scandalo. 

- Sei una canaglia – gli dicono - hai preso i nostri soldi e non hai fatto quel che dovevi! Ma noi ti denunceremo in tribunale.

E così fecero. Ed ecco cosa era accaduto. Dopo aver parlato con lui essi eranop andati dal suo superiore ed avevano fatto un accordo. Così il suo superiore il giorno dopo lo aveva chiamato e gli aveva chiesto informazioni riguardo al rapporto e il ragazzo gli aveva detto che lo aveva già scritto e mandato all’azienda. Il suo superiore non disse niente e il ragazzo non ci pensò più. Ma poi cosa decise di fare il superiore? Egli decise di mettersi d’accordo con il superiore dei macchinisti, quella gente si sostiene sempre a vicenda, lo contattò e gli chiese di strappare il rapporto. E i soldi che avevano lasciato i macchinisti, se li prese lui! Forse aveva l’intenzione di dividerli con quell’altro superiore, o forse, no, questo non lo so. Ma so che, senza dire niente a nessuno, si prese quei soldi. Ma a quell’altro superiore o non gli andava giù di restare a bocca asciutta, oppure voleva guadagnarci sopra ancora di più. Così mostrò il rapporto ai macchinisti e chiese loro altri soldi. E loro subito glieli diedero. Ed è per questo che erano così arrabbiati. Perché, avendo visto che il rapporto era nelle mani del loro superiori, erano tornati a Muchuz per riprendere i loro soldi, ma avevano scoperto che qualcuno li aveva già portati via. Il superiore, poi,  gli aveva detto che il ragazzo aveva mandato il verbale di sua iniziativa. Capito perché si erano tanto arrabbiati e perché avevano denunciato il ragazzo al tribunale? Certo, il superiore avrebbe potuto aggiustare tutto, ma in quel periodo era in corso una campagna contro le mazzette. E tutti i giudici e i pubblici ministeri avevano paura che qualcuno scoprisse certi loro vecchi peccati e quindi appioppavano a tutti la massima pena per dimostrare di essere onesti. Per cui, presero il superiore e presero il ragazzo e ad entrambi diedero otto anni. Li presero tutti e due perché il superiore, sciocco, pensando che così facendo gli avrebbero dato meno anni, o forse perché si vergognava, disse che aveva diviso i soldi con il ragazzo. Ma i giudici e i pubblici ministeri, gente con un’istruzione superiore, non avrebbero dovuto capire che dal punto di vista psicologico è impossibile che uno prende i soldi e nello stesso tempo mandi anche la denuncia? 

Ed ecco che questo povero disgraziato sta seduto con me in cella anche se è un ex poliziotto. E quel toccato non gli dà pace, perché è un ex poliziotto. Lo ha chiamato Scarpone. E a me dispiace per questo ragazzo, ha sofferto per la sua onestà e, a casa, ha lasciato una giovane moglie e un bambino di un anno. E questo criminale lo infastidisce. Io paziento, ma i miei nervi non reggono. E capisco che con quelle sei pallottole non sono riusciti ad ammazzarmi, però mi hanno guastato i nervi. 

Una mattina, all’improvviso, non so per quale motivo avessero cominciato, il toccato afferrò per la gola questo giovane ragazzo ed io pensai: - Farà come al solito, gli darà una stretta e lo lascerà. 
Ma poi vedo che non lo molla. E il ragazzo sta diventando viola come una melanzana.

- Che stai facendo? – grido mentre cerco di dividerli – Lo strangolerai! 

E lui, nemmeno per idea, non si stacca. Si è infervorato ancora di più. Ed io continuo a gridare ed a cercare di allontanarlo, ma niente: gli si è attaccato come una zecca. Se non lo fermo, strangolerà il ragazzo sotto i nostri occhi. Mi saltano i nervi! Gli allungo con tutto il sentimento un pugno sulla mascella! 

Il toccato cade giù. Io mi siedo sulla branda, ma sento che i nervi mi hanno abbandonato. E quello è ancora steso a terra, immobile. Comincio a preoccuparmi: e se lo avessi ammazzato? Immaginatevi come sarebbe stato contento il mio giudice se quello fosse morto! No, penso, non può essere, è solo un profondo knock out.

Giusto giusto dopo un quarto d’ora alzò la testa e in silenzio, a carponi, si trascinò verso la sua branda. La raggiunse a stento, si sdraiò e si girò verso la parete. Non si mosse più per tutto il giorno. Non toccò il pranzo, non toccò la cena. Rimase sdraiato rivolto verso al parete, non si muoveva, è vero, ma respirava. 

La preoccupazione ritornò. - Forse, - penso - cadendo gli è venuta una commozione cerebrale.

Lo stesso uomo che mi aveva detto che era toccato si china verso di me e mi dice, sottovoce: 

- Bisognerebbe avvertire il reparto sanitario. 

- No – dico – aspettiamo - forse, tornerà in sé. 

Avvertire il reparto sanitario è pericoloso. Perché se quello racconta tutto e se lo vengono a sapere i miei nemici, essi gli prometteranno la libertà se lui mi farà fuori. Naturalmente non lo libereranno mai, ma è toccato e gli crederà comunque. 

Così comincio ad avere paura di quel tipo. E ho anche paura che egli si finga stordito ma che, durante la notte, si alzi e mi colpisca con qualche cosa. Non posso addormentarmi, come quando mi hanno sparato, all’ospedale. Che destino, penso. E così sto sdraiato fino al mattino, senza dormire. Ogni tanto alzo la testa e guardo: come si era girato verso la parete, così è rimasto. 

La mattina, appena mi siedo sulla branda, lo vedo. Si alza e lentamente si avvicina verso di me. Non so cosa fare. In un combattimento onesto io, naturalmente, non ho paura di lui. Ma non voglio problemi. Non voglia Iddio che lo vengano a sapere i miei nemici. Si avvicina a me, china la sua grande testa da gattone e dice:

- Tu, Albicocco secco, mi hai menato troppo forte.

- Senti – dico – tu hai quasi strangolato il ragazzo. Ti ho salvato dall’impiccagione!

- Tu, Albicocco secco sei toccato, - (Lui lo dice a me!) - ti avevano quasi seppellito come le immondizie e tu li difendi .

- Senti – gli dico –noi non siamo giudici. Bisogna distinguere i corrotti dagli uomini onesti. Egli per la sua onesta si è preso otto anni e tu lo vuoi strozzare.

Ed egli rimane così, chinando la testa da gattone, e pensa. E dopo dice:

- Tuttavia, tu, Albicocco secco, mi hai dato un pugno troppo forte.

- Scusami, fratello - dico – sai, i nervi… mi ero infervorato…

E così abbiamo fatto pace. In generale, essi rispettano la forza e non rispettano null’altro. Ha cominciato a comportarsi più tranquillamente. E quel giorno egli era rimasto sdraiato, girato verso la parete, non per via del colpo ma per l’offesa subita. 

Ed ecco che mi mandano nella colonia penale ed io, di nuovo, incontro la guardia carceraria, lo zio Tenghiz. 

Egli mi saluta ed io gli dico: - Zio Tenghiz, lì, nella cella c’è quel ragazzo della polizia, disgraziato come me. Ho paura che quel criminale lo uccida, spostalo da qualche parte. 

- Va bene - dice – Adgurcik, togliti questa preoccupazione dalla testa, oggi stesso lo sposterò… Abbiamo sbagliato a metterlo lì.

E così finisco nella colonia penale. E dopo, quando mi hanno liberato, sono andato a trovare la famiglia di quel ragazzo e loro mi hanno mostrato la risposta della Procura dell’Urss alla richiesta di appello. In essa c’era la risoluzione di uno dei sostituti procuratori del Procuratore Generale. Me la ricorderò per tutta la vita. Eccola qua: “In relazione alla campagna per la lotta contro gli abusi e la corruzione in Georgia, ritengo inutile la revisione della causa”. 
E così, cari miei, ecco cosa succede qui da noi! 

Quell’uomo ha sofferto per niente. In tempi normali, secondo la legge, gli avrebbero potuto dare uno o due anni, e con il beneficio della condizionale. Per non aver denunciato i macchinisti. Infatti egli aveva il dovere, come lavoratore della polizia, di denunciare che qualcuno aveva provato a dargli una mazzetta. Ma egli non lo disse per inesperienza, non per dolo. E adesso con chi può lamentarsi, con il signor Iddio? 

Ed ecco che sono nella colonia. E mia moglie mi ha scritto che adesso al posto mio lavora un tizio. E qui ho capito a chi dovevo tutta quella storia. Quel tipo era venuto più volte dal mio direttore, si mettevano da una parte e bisbigliavano qualcosa fra di loro. Non avevo dato importanza alla cosa. Io non ho l’abitudine di impicciarmi degli affari altrui. Però adesso avevo capito tutto. A caldo, non mi ero neanche accorto che il mio direttore non mi aveva fatto visita all’ospedale neanche una volta. Non era venuto neanche al processo. Da noi non si fa così! E mi ero ricordato anche che gli avevo chiesto di uscire dal lavoro mezz’ora prima, ma lui mi aveva trattenuto, tirando fuori quella storia assurda di tre anni prima. E come avrebbe potuto farmi uscire, visto che si era già messo d’accordo con quelli sull’orario! Se fossi uscito, io sarei già stato sulla strada di casa mentre quelli ancora stavano smontando la targa dalla loro “Volga” bianca. 

Adesso ho capito tutto, ma paziento. Ce l’ho solo con quei due. Il direttore che ha venduto la mia vita per il mio posto di lavoro e quello che ha sparato per l’ultimo, gridando beffardamente: - Te ne starai zitto una buona volta o no! 

Un minuto, amici. Zinocka, guarda quel tavolo, il terzo in fondo. Cosa bevono? Non lo vedo da qui. Vai pian piano e guarda. Se è cognac, porta una bottiglia di armeno (армянский коньяк), se è vino, quattro bottiglie. Uguali a quelle che già stanno bevendo. In certi posti, quando fai mandare una bottiglia al tavolo, portano il vino che nessuno compra. Ma lo so che tu non sei così! E non ti devi dispiacere per i miei soldi! Non devi! Viviamo per gli amici, viviamo per gli ospiti, non conosco una ragione migliore per cui vivere! 

Quando lavoro al bar non bevo neanche un goccio e non regalo neanche un fiammifero! E’ così che mi comporto. Sul serio! Ma quando mi diverto, mi diverto! 

Da noi c’è gente che cambia i mobili ogni tre anni. I Cinesi in qualche modo hanno ragione: non c’è più senso della tradizione! 

Una volta un mio vicino dice: - Vieni, Adgurcik, guarda che arredamento che ho!

Vado. Nella stanza più grande, a destra scaffali con libri fino al soffitto, a sinistra scaffali con libri fino al soffitto. A sinistra tutti i libri sono di colore rosso, a destra tutti i libri sono di colore verde. 

- Cos’è questa – dico – la biblioteca? 

- No – dice - è la sala. Adesso va di moda. 

- Senti - gli dico – a cosa ti servono tutti questi libri se sei semianalfabeta e non riesci a distinguere la cartolina del commissariato di leva da quella del tribunale? 

Si è offeso. Non gli piace la verità. Anche mia moglie da dieci anni mi assilla: cambiamo i mobili, cambiamo i mobili! 

- Zitta! – dico – abbiamo tre stanze? Le abbiamo. I bambini hanno da mangiare, vanno, come si deve, a scuola? Ci vanno. Se oggi dovessero capitare cinque persone a casa, senza uscire, possiamo sfamarle e offrir loro da bere? Possiamo farlo. Da te, sotto il letto, non ci sono, come anatrelle, cinque, sei paia di scarpe tutte in fila? Ci sono. Mia madre durante la guerra, quando mio padre difendeva la Patria, aveva un unico paio di scarpe. E quando le portò a riparare, andò con le galosce a lavorare per sfamare me e le mie sorelle. Potrei mai scordare tutto questo? E adesso pensa con il tuo cervello di gallina, chi è mia madre e chi sei tu? 

No, non sono contro il nuovo, ma dove serve. E noi abbiamo tutto. La macchina del gas, la vasca, insomma tutto quel che occorre per una vita moderna. E quel che si fa solo per farsi vedere, io lo odio. Non serve! Non mi serve! I mobili paterni devono rimanere come stavano! Che il tappeto persiano appeso da mio padre rimanga dov’era! E così i ritratti dei miei genitori! Non chiedono da mangiare! E io non ho bisogno di dimostrare niente a nessuno! 

Un deficiente, non dirò il suo nome, aveva comprato alla moglie una pelliccia da quattromila rubli. 

Il pelo più folto della mia gamba. Viene da domandare, perché nel nostro paese così assolato, una pelliccia così? Nel mese di marzo, per farsi vedere dalla gente, ella andò ad un funerale con questa pelliccia addosso. Un colpo di sole e cadde giù come un maiale. Viene da chiedersi, di che cosa devono adesso occuparsi i padroni di casa, di questa bamboccia o del loro defunto? Non va bene! I Cinesi hanno in qualche modo ragione: non c’è più il senso della tradizione! 

Questi palloni gonfiati mi hanno di nuovo distratto. Ed ecco che esco dalla prigione, per una settimana mi diverto con i miei amici, dopo prendo il taxi con un mio compagno e arriviamo al bar. Chiedo al mio compagno di entrare e di chiamare il direttore. 

Ed ecco che il direttore, malvolentieri, si avvicina alla macchina. Non mi guarda negli occhi.

- Salve – dice – grazie a Dio sei uscito. 

- Grazie – dico – ma ho un affare da sbrigare con te. 

- Che affare? 

-  C’è un taxi che ci aspetta - dico – adesso andiamo a Cierniavskaja Gora ed io lì ti racconterò tutto. 

Fa delle smorfie come una pupattola. 

- Sai bene - dico - di cosa sono capace se non verrai. 

Quando arrivammo a Cierniavskaja gora, lo portai tra i cespugli di mimosa e gli raccontai quel che avevo capito. Lui, naturalmente, nega tutto, ma, curiosamente, non mi guarda mai negli occhi. 

- Non ti toccherò – dico – perché mi dispiace per tua madre, per le tue sorelle, per i bambini. Ed è per questo che tu, insieme all’uomo a cui avevi venduto il mio posto e la mia vita, zitti zitti, scriverete una dichiarazione di dimissioni per esaurimento nervoso. Queste sono le mie condizioni, se ci tieni a continuare a vivere.

In poche parole, ho risolto da uomo il problema con il direttore. L’ho buttato fuori dal bar assieme al suo compare. E al suo posto, dietro raccomandazione dei miei amici, abbiamo preso un bravo, affidabile uomo del partito. 

Ed ecco che di nuovo torno al mio posto di lavoro. I ragazzi vengono, mi baciano, mi salutano. Dicono che, quando non c’ero, avevano perso il gusto di venire in questo bar . 

Tutto a posto, ma che dovevo fare  con quello che aveva organizzato la caccia e che mi aveva sparato sotto l’ascella dicendo beffardamente: - Te ne starai zitto una buona volta, o no?!

Mi duole dentro l’anima, ma che fare? La città è piccola e tre, quattro volte all’anno ci incontriamo per strada. Appena mi vede, passa dall’altra parte. Fa finta di non conoscermi ed io, per la vergogna, sono costretto di fare altrettanto. Ma per quanto si può soffrire senza fare niente? Ma a me dispiace per la mia gente, perché non lo posso ammazzare e poi scappare nei boschi come facevano i nostri avi. Ed ecco che brucio come fra due fuochi, ma non brucerò del tutto.

Intanto il tempo passa e a quell’affarista gli appiccicano sulle spalle gradi sempre più alti. Era tenente maggiore e adesso è diventato maggiore. E sono sicuro che la chiacchiera che io abbia due cuori, l’ha messa lui in circolazione. Per giustificarsi di aver fallito. Ma io che me ne faccio di questo miracolo da baraccone! A me duole il cuore vero.

Perché il mio caro Viktor la sua fiorente giovinezza, come un paracadute che non si è aperto, se la portò nella tomba, mentre il mio nemico cammina sulla terra e pure fa carriera.

Ed ecco perché, nel tempo libero dal lavoro, a me piace intrattenermi con brava gente, parlare con loro a cuore aperto, dimenticare il mio dolore, mandare due, tre bottiglie ai ragazzi, fare un brindisi per gli amici. 

Perché in questo mondo, dove tutto è stato già comprato prima della nostra nascita, io non ho trovato nessun motivo particolare per tornare volontariamente una seconda volta. Ma ho visto una cosa bellissima in questo sporco mondo, e questa è la solidarietà fra gli uomini e ad essa brinderemo. 

Perché ogni uomo desidera che, nella vita, ci sia ameno una “cosa”, anche piccolissima, anche una sola, che nessuno può né vendere né comprare! Ed è a questa “cosa” che noi, ora, faremo un brindisi! 


Fazil´ Abdulovič Iskander
(1929 – 2016) è stato uno scrittore russo. È ritenuto lo scrittore più famoso dell´Abcasia ed è diventato celebre nella ex Unione Sovietica per i racconti (scritti perlopiù in lingua russa) nei quali fa colorite descrizioni della vita caucasica.


Note: 
1 Del Nagorno–Karabakh. Regione senza sbocco sul mare, sita nel Caucaso meridionale e appartenente geograficamente all´Altopiano armeno. 
2 Membro partito socialista rivoluzionario. 
3 Tutto a posto, tutto sotto controllo.
4 Russkoe zarstvo: Regno russo.
5 L´Abcasia o Abkhazia è uno stato parzialmente riconosciuto nel Caucaso meridionale, riconosciuto dalla maggior parte dei paesi come parte della Georgia, che vede la regione come una repubblica autonoma. Si trova sulla costa orientale del Mar Nero, a sud delle montagne del Grande Caucaso nella Georgia nord-occidentale.
6 Cittadini della DDR, Deutsche Demokratische Republik (Germania Est).
7 A braccia aperte.
8 Focacce georgiane al formaggio.
9 Città dell’Abcasia – Georgia.
10 Film che narra le vicende di un contadino al quale un ricco possidente vuole rubare i campi di famiglia accusandolo ingiustamente di aver falsificato dei documenti.
11Forse si richiama alla poesia di Fëdor Ivanovič Tjutčev (in russo: Фёдор Иванович Тютчев; Ovstug, 5 dicembre 1803 – Carskoe Selo, 27 luglio 1873)
E ‘ uno sforzo vano – non li persuaderai / Più l’andamento è liberale, più essi son triviali, / La civilizzazione - è per loro un feticcio. / Ma non è accessibile ad essi la sua idea. /  Non vi inchinate davanti a lei, signori 
Non vi accattiverete dell’Europa il riconoscimento: / Ai suoi occhi non sarete mai dei validi interlocutori, / Dei servitori illuminati, ma servi della gleba, un popolo spento. 
12 Si riferisce alla Carl Walther GmbH Sportwaffen, abbreviato generalmente in Walther . Un´azienda tedesca che produce perlopiù armi da fuoco semiautomatiche creata nel 1886.
13 (Новоафонский монастырь) Nuovo Athos è una cittadina del distretto di Gudauta, de iure in Georgia, ma de facto è situata in Abcasia. Bagnata dal Mar Nero, la cittadina dista 22 chilometri da Sukhumi. In passato è stata nota con i nomi di Acheisos, Anacopia, Nikopia, Absara e Psyrtskha.
14 Nel 1837, Aleksandr Sergeevič Puškin, a seguito d´una lettera anonima che insinuava l´infedeltà della moglie, sfidò a duello il barone francese Georges d´Anthès. Fissato per le quattro del pomeriggio dell´8 febbraio 1837, il duello si svolse alla Čërnaja Rečka a Pietroburgo, dove oggi si trova l´omonima fermata della metropolitana e dove una statua del poeta ricorda l´evento. Il barone Georges d´Anthès ferì mortalmente al petto Puškin che morì due giorni dopo la sfida, ad appena 37 anni per complicanze settiche della ferita all´addome. Leggende narrano che d´Anthès si salvò grazie ad un bottone che parò il colpo del poeta.
15 Un villaggio dell’Abcasia.

 



© Fazil Iskander
Traduzione a cura di Aldona Palys







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